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Autrice

Margherita Hack con
citazione di Piero Calamandrei

LIBERA SCIENZA IN LIBERO STATO

Dall'università alle cellule staminali,

la battaglia di STATO e CHIESA per mettere in fuga i cervelli

da Margherita Hack, LIBERA SCIENZA IN LIBERO STATO,

La scienza e la politica, Rizzoli, 2010.

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Inviato il 12/06/2022

da Tamara Alderighi

Non solo siamo fra gli ultimi in Europa nelle materie scientifiche, ma quando riusciamo a formare un vero genio in genere gli mettiamo in mano una valigia e lo mandiamo a far del bene all'estero.

Perché in Italia la ricerca proprio non vuole funzionare?

Per due motivi, entrambi ben radicati nella storia e nel costume nazionali.

Da un lato scontiamo una cronica quanto inspiegabile paura della scienza e delle sue potenzialità, e dal caso Galileo alla battaglia contro l'analisi preimpianto degli embrioni molta responsabilità spetta alla Chiesa e al suo vizio di dettare legge in un Paese che pure si professa laico.

Dall'altro lato ci si mette lo Stato che da destra a sinistra taglia i fondi all'università, spreca le scarse risorse, ingarbuglia le carriere accademiche senza peraltro riuscire a sottrarle ai "baroni".

Così, mentre da ogni parte si decanta l'importanza dell'innovazione per la crescita del Paese, nei fatti chi dovrebbe produrla viene ostacolato con ogni mezzo: concorsi macchinosi, precariato a vita, stipendi da fame e, perché no, obiezione di coscienza. Storie di ordinaria contraddizione in un sistema che cola a picco.

 

Margherita Hack dedica questo libro all'analisi delle condizioni di una ricerca che non ha più né Stato né Chiesa su cui contare.

Passa al vaglio le riforme che si sono succedute sotto quattro governi, denuncia gli errori ricorrenti e le troppe incongruenze, mette in luce gli esempi positivi incontrati nel corso della sua carriera e infine propone qualche idea.

Per evitare che i troppi medici al capezzale dell'università malata finiscano per ammazzarla. 

 




La scienza e la politica

 

Da qualche anno si fa un gran parlare di «innovazione», magica parola che dovrebbe permettere ai Paesi del mondo industrializzato di reggere la concorrenza dei Paesi emergenti, che producono le stesse cose a prezzi enormemente inferiori. Innovazione significa dunque immaginare nuovi modi di produrre le stesse cose a minor costo, oppure inventare nuovi prodotti, dai più complessi ai più semplici, che in qualche maniera facilitino la nostra vita quotidiana in casa o sul lavoro, o macchine o utensili più facili da usare di quelli esistenti, o creare marchingegni e renderli indispensabili.

Innovazione significa anche utilizzare le conoscenze sul funzionamento del nostro corpo per vivere meglio e in miglior salute, e soprattutto trovare il modo di debellare tante malattie ancora oggi inguaribili. Basta pensare a quali e quanti sono stati i progressi della medicina nel corso di questi ultimi cento anni.  

Perciò l'innovazione è frutto della tecnologia e la tecnologia è frutto della ricerca applicata, la quale a sua volta deriva dalla ricerca di base: la ricerca, cioè, che non si pone problemi di applicazioni pratiche, ma si occupa solo di scoprire le leggi che regolano l'universo, il nostro pianeta, il nostro corpo, la ricerca che soddisfa la curiosità e insegue la conoscenza per la conoscenza.

Allora perché in Italia si dà così poca importanza alla ricerca scientifica? Quando si parla di innovazione lo si fa sempre a vanvera. Invece l'interesse per la scienza e le sue applicazioni dovrebbe essere inculcato nei bambini già dalle prime classi elementari.

Disinteresse per la scienza significa anche e soprattutto disinteresse per la cultura, per la scuola di ogni ordine e grado, che è quella che dovrebbe «nutrire» i cervelli di ogni cittadino. Se ne rendeva ben conto Piero Calamandrei che l'11 febbraio 1950, durante il III Congresso dell'Associazione a difesa della scuola nazionale, pronunciò un famoso discorso ancora oggi di grande attualità. Anzi, forse ancora più attuale di sessant’anni fa. Allora eravamo appena usciti dalla guerra e dalla dittatura, si sentiva una gran voglia di ricominciare, di ricostruire, di creare una democrazia che la maggioranza della popolazione non aveva mai conosciuto; c'era un entusiasmo che oggi non c'è più per i valori della liberta, dell'eguaglianza, del socialismo e del cristianesimo che hanno permesso a due grandi forze democratiche - il Partito comunista e la Democrazia cristiana - di far crescere l'Italia da Paese contadino di analfabeti e semianalfabeti a quinta potenza industriale, nel rispetto di una Costituzione che oggi una classe politica interessata solo a difendere i propri meschini interessi vorrebbe cambiare. Per questo è utile rileggersi il discorso di Calamandrei.

 

"Cari colleghi, noi siamo qui insegnanti di tutti gli ordini di scuole, dalle elementari alle università, affratellati in questo esercizio quotidiano di altruismo, in questa devozione giornaliera al domani, all'avvenire che noi prepariamo e che non vedremo, che è l'insegnamento. Siamo qui riuniti in questo convegno che si intitola alla Difesa della scuola.

Perché difendiamo la scuola? Forse la scuola è in pericolo? Quale è la scuola che noi difendiamo? Quale è il pericolo che incombe sulla scuola che noi difendiamo?

Può venire subito in mente che noi siamo riuniti per difendere la scuola laica. Ed è anche un po' vero ed è stato detto stamane. Ma non è tutto qui, c'è qualche cosa di più alto.

Questa nostra riunione non si deve immiserire in una polemica fra clericali ed anticlericali. Senza dire, poi, che si difende quello che abbiamo. Ora, siete proprio sicuri che in Italia noi abbiamo la scuola laica? Che si possa difendere la scuola laica come se ci fosse, dopo l'articolo 7? Ma lasciamo fare, andiamo oltre. Difendiamo la scuola democratica: la scuola che corrisponde a quella Costituzione democratica che ci siamo voluti dare; la scuola che è in funzione di questa Costituzione, che può essere strumento, perché questa Costituzione scritta sui fogli diventi realtà.

 

[...] La scuola, come la vedo io, è un organo «costituzionale». Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola «l'ordinamento dello stato», sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della repubblica, la magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l'organismo costituzionale e l'organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell'organismo umano hanno la funzione di creare il sangue.

 

[...] La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall'afflusso verso l'alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie. Ogni classe, ogni categoria deve avere la possibilità di liberare verso l'alto i suoi elementi migliori, perché ciascuno di essi possa temporaneamente, transitoriamente, per quel breve istante di vita che la sorte concede a ciascuno di noi, contribuire a portare il suo lavoro, le sue migliori qualità personali al progresso della società.

 

[...] A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità. Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.

Vedete, questa immagine è consacrata in un articolo della Costituzione, sia pure con una formula meno immaginosa. è l'articolo 34, in cui è detto: «La scuola è aperta a tutti. I capaci ed i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Questo è l'articolo più importante della nostra Costituzione. Bisogna rendersi conto del valore politico e sociale di questo articolo. Seminarium rei publicae, dicevano i latini del matrimonio. Noi potremmo dirlo della scuola: seminarium rei publicae: la scuola elabora i migliori per la rinnovazione continua, quotidiana della classe dirigente. Ora, se questa è la funzione costituzionale della scuola nella nostra repubblica, domandiamoci: com'è costruito questo strumento? Quali sono i suoi principi fondamentali? Prima di tutto, scuola di stato. Lo stato deve costituire le sue scuole. Prima di tutto la scuola pubblica. Prima di esaltare la scuola privata bisogna parlare della scuola pubblica. La scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius. Per aversi una scuola privata buona bisogna che quella dello stato sia ottima. Vedete, noi dobbiamo prima di tutto mettere l'accento su quel comma dell'articolo 33 della Costituzione che dice così: «La repubblica detta le norme generali sull'istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi». Dunque, per questo comma [...] lo stato ha, in materia scolastica, prima di tutto una funzione normativa. Lo stato deve porre la legislazione scolastica nei suoi principi generali. Poi, immediatamente, lo stato ha una funzione di realizzazione. Lo stato non si deve limitare a porre i principi platonici, ideali, teorici della costituzione delle scuole.

 

[...] Lo stato non deve dire: io faccio una scuola come modello: poi il resto lo facciano gli altri. No, la scuola è aperta a tutti e se tutti vogliono frequentare la scuola di stato, ci devono essere in tutti gli ordini di scuole, tante scuole ottime, corrispondenti ai principi posti dallo stato, scuole pubbliche, che permettano di raccogliere tutti coloro che si rivolgono allo stato per andare nelle sue scuole. La scuola è aperta a tutti. Lo stato deve quindi costituire scuole ottime per ospitare tutti. Questo è scritto nell'articolo 33 della Costituzione. La scuola di stato, la scuola democratica, è una scuola che ha un carattere unitario, è la scuola di tutti, crea cittadini, non crea né cattolici, né protestanti, né marxisti. La scuola è l'espressione di un altro articolo della Costituzione: dell'articolo 3: «Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali». E l'articolo 51: «Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». Di questi due articoli deve essere strumento la scuola di stato, strumento di questa eguaglianza civica, di questo rispetto per le libertà di tutte le fedi e di tutte le opinioni. Questo strumento è la scuola pubblica, democratica; della quale è stato detto esattamente da un caro amico, da Guido Calogero: «Attraverso la struttura dei programmi e del metodo didattico e la piena apertura della scuola a insegnanti ed a studenti di ogni convincimento e di ogni religione, senza alcuna preferenza di parte per gli uni e per gli altri, la scuola pubblica assicura che ogni voce sia presente, che nessuna verità venga insegnata senza essere anzitutto messa in dubbio nel pacato confronto con le verità opposte, che l'acquisizione dei convincimenti abbia luogo non sotto la pressione di una mentalità dogmatica, ma nello spirito della libera discussione critica, sola capace di non far dimenticare i contemporanei diritti dei convincimenti altrui». Quando la scuola pubblica è così forte e sicura, allora, ma allora soltanto, la scuola privata non è pericolosa. Allora, ma allora soltanto, la scuola privata può essere un bene. Può essere un bene che forze private, iniziative pedagogiche di classi, di gruppi religiosi, di gruppi politici, di filosofie, di correnti culturali, cooperino con lo stato ad allargare, a stimolare, e a rinnovare con varietà di tentativi la cultura. Al diritto della famiglia, che è consacrato in un altro articolo della Costituzione, nell'articolo 30, di istruire e di educare i figli, corrisponde questa opportunità che deve essere data alle famiglie di far frequentare ai loro figlioli scuole di loro gradimento e quindi di permettere l'istituzione di scuole che meglio corrispondano - con certe garanzie che ora vedremo - alle preferenze politiche, religiose, culturali di quella famiglia. Ma rendiamoci ben conto che mentre la scuola pubblica è espressione di unità, di coesione, di uguaglianza civica, la scuola privata è espressione di varietà, che può voler dire eterogeneità di correnti decentratrici, che lo stato deve impedire che divengano correnti disgregatrici.  La scuola privata, in altre parole, non è creata per questo.

 

La scuola della repubblica, la scuola dello stato, non è la scuola di una filosofia, di una religione, di un partito, di una setta. Quindi, perché le scuole private sorgendo possano essere un bene e non un pericolo, occorre: 1) che lo stato le sorvegli e le controlli e che sia neutrale, imparziale tra esse. Che non favorisca un gruppo di scuole private a danno di altre. 2) Che le scuole private corrispondano a certi requisiti minimi di serietà di organizzazione. Solamente in questo modo e in altri più precisi, che tra poco dirò, si può avere il vantaggio della coesistenza della scuola pubblica con la scuola privata. La gara cioè tra le scuole statali e le scuole private. Che si stabilisca una gara tra le scuole pubbliche e le scuole private, in modo che lo stato da queste scuole private che sorgono, e che eventualmente possono portare idee e realizzazioni che finora nelle scuole pubbliche non c'erano, si senta stimolato a far meglio, a rendere, se mi sia permessa l'espressione, «più ottime» le proprie scuole. Stimolo dunque deve essere la scuola privata allo stato, non motivo di abdicazione.

 

Ci siano pure scuole di partito o scuole di chiesa. Ma lo stato le deve sorvegliare, le deve regolare; le deve tenere nei loro limiti e deve riuscire a far meglio di loro. La scuola di stato, insomma, deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quello che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà, cioè nella scuola di partito. Come si fa a istituire in un paese la scuola di partito? Si può fare in due modi. Uno è quello del totalitarismo aperto, confessato. Lo abbiamo esperimentato, ahimè. Credo che tutti qui ve ne ricordiate, quantunque molta gente non se ne ricordi più.

Lo abbiamo sperimentato sotto il fascismo. Tutte le scuole diventano scuole di stato: la scuola privata non è più permessa, ma lo stato diventa un partito e quindi tutte le scuole sono scuole di stato, ma per questo sono anche scuole di partito. Ma c'è un'altra forma per arrivare a trasformare la scuola di stato in scuola di partito o di setta. Il totalitarismo subdolo, indiretto, torpido, come certe polmoniti torpide che vengono senza febbre, ma che sono pericolosissime. Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura. Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori - si dice - di quelle di stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A «quelle» scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.

Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d'occhio i cuochi di questa bassa cucina. L'operazione si fa in tre modi: 1) ve l'ho già detto: rovinare le scuole di stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. 2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. 3) Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico! Quest'ultimo è il metodo più pericoloso. è la fase più pericolosa di tutta l'operazione.

 

[...] Questo dunque è il punto, è il punto più pericoloso del metodo. Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito.

Voi vi rendete conto che nella situazione catastrofica in cui si trova la scuola pubblica, si arriva a delle cifre paurose. [...]

In Italia, dove ci sono tanti ragazzi che mancano dell'istruzione fondamentale, ci sono quarantamila maestri disoccupati, perché mancano le scuole!

Dunque in questa situazione tragica, è una follia, è un delitto pensare che lo stato, invece di concentrare nella scuola pubblica tutte le risorse del piccolo bilancio dell'istruzione (piccolo in confronto di altri bilanci che voi sapete quali sono) si metta a distribuire il denaro alle scuole private.

 

[...] Per prevedere questo pericolo, non ci voleva molta furberia. Durante la Costituente, a prevenirlo nell'articolo 33 della Costituzione fu messa questa disposizione: «Enti e privati hanno diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza onere per lo Stato».

Come sapete questa formula nacque da un compromesso; e come tutte le formule nate da compromessi, offre il destro, oggi, ad interpretazioni sofistiche.

 

[...] Ma poi c'è un'altra questione che è venuta fuori, che dovrebbe permettere di raggirare la legge. Si tratta di ciò che noi giuristi chiamiamo la «frode alla legge» che è quel quid che i clienti chiedono ai causidici di pochi scrupoli, ai quali il cliente si rivolge per sapere come può violare la legge figurando di osservarla [...]. È venuta così fuori l'idea dell'assegno familiare, dell'assegno familiare scolastico.

Il ministro dell'Istruzione al Congresso Internazionale degli Istituti Familiari, disse: la scuola privata deve servire a «stimolare» al massimo le spese non statali per l'insegnamento, ma non bisogna escludere che anche lo stato dia sussidi alle scuole private. Però aggiunse: pensate, se un padre vuol mandare il suo figliolo alla scuola privata, bisogna che paghi tasse. E questo padre è un cittadino che ha già pagato come contribuente la sua tassa per partecipare alla spesa che lo stato eroga per le scuole pubbliche. Dunque questo povero padre deve pagare due volte la tassa. Allora a questo benemerito cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, per sollevarlo da questo doppio onere, si dà un assegno familiare. Chi vuol mandare un suo figlio alla scuola privata, si rivolge quindi allo stato ed ha un sussidio, un assegno.

 

[...] Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo pagare? È un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica.

Per portare un paragone, nel campo della giustizia si potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i cittadini, hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l'arbitrato costa caro, spesso costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici pubblici l'arbitrato, di rivolgersi allo stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri! [...] Dunque questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le scuole dello stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito.

 

Poi, nella riforma, c'è la questione della parità.

L'articolo 33 della Costituzione nel comma che si riferisce alla parità, dice: «La legge, nel fissare diritti ed obblighi della scuola non statale, che chiede la parità, deve assicurare ad essa piena libertà, un trattamento equipollente a quello delle scuole statali». [...] Parità, sì, ma bisogna ricordarsi che prima di tutto, prima di concedere la parità, lo stato, lo dice lo stesso articolo 33, deve fissare i diritti e gli obblighi della scuola a cui concede questa parità, e ricordare che per un altro comma dello stesso articolo, lo stato ha il compito di dettare le norme generali sulla istruzione. Quindi questa parità non può significare rinuncia a garantire, a controllare la serietà degli studi, i programmi, i titoli degli insegnanti, la serietà delle prove. Bisogna insomma evitare questo nauseante sistema, questo ripugnante sistema che è il favorire nelle scuole la concorrenza al ribasso: che lo stato favorisca non solo la concorrenza della scuola privata con la scuola pubblica ma che lo stato favorisca questa concorrenza favorendo la scuola dove si insegna peggio, con un vero e proprio incoraggiamento ufficiale alla bestialità. [...]

Però questa riforma mi dà l'impressione di quelle figure che erano di moda quando ero ragazzo. In quelle figure si vedevano foreste, alberi, stagni, monti, tutto un groviglio di tralci e di uccelli e di tante altre belle cose e poi sotto c'era scritto: trovate il cacciatore. Allora, a furia di cercare, in un angolino, si trovava il cacciatore con il fucile spianato. Anche nella riforma c'è il cacciatore con il fucile spianato. È la scuola privata che si vuole trasformare in scuola privilegiata. Questo è il punto che conta. Tutto il resto, cifre astronomiche di miliardi, avverrà nell'avvenire lontano, ma la scuola privata, se non state attenti, sarà realtà davvero domani. La scuola privata si trasforma in scuola privilegiata e da qui comincia la scuola totalitaria, la trasformazione da scuola democratica in scuola di partito.

 

E poi c'è un altro pericolo forse anche più grave. È il pericolo del disfacimento morale della scuola. Questo senso di sfiducia, di cinismo, più che di scetticismo che si va diffondendo nella scuola, specialmente tra i giovani, è molto significativo. È il tramonto di quelle idee della vecchia scuola di Gaetano Salvemini, di Augusto Monti: la serietà, la precisione, l'onestà, la puntualità. Queste idee semplici. Il fare il proprio dovere, il fare lezione. E che la scuola sia una scuola del carattere, formatrice di coscienze, formatrice di persone oneste e leali. Si va diffondendo l'idea che tutto questo è superato, che non vale più. Oggi valgono appoggi, raccomandazioni, tessere di un partito o di una parrocchia. La religione che è in sé una cosa seria, forse la cosa più seria, perché la cosa più seria della vita è la morte, diventa uno spregevole pretesto per fare i propri affari.

Questo è il pericolo: disfacimento morale della scuola. Non è la scuola dei preti che ci spaventa, perché cento anni fa c'erano scuole di preti in cui si sapeva insegnare il latino e l'italiano e da cui uscirono uomini come Giosuè Carducci. Quello che soprattutto spaventa sono i disonesti, gli uomini senza carattere, senza fede, senza opinioni. Questi uomini che dieci anni fa erano fascisti, cinque anni fa erano a parole antifascisti, ed ora son tornati, sotto svariati nomi, fascisti nella sostanza cioè profittatori del regime.

 

E c'è un altro pericolo: di lasciarsi vincere dallo scoramento. Ma non bisogna lasciarsi vincere dallo scoramento. Vedete, fu detto giustamente che chi vinse la guerra del 1918 fu la scuola media italiana, perché quei ragazzi, di cui le salme sono ancora sul Carso, uscivano dalle nostre scuole e dai nostri licei e dalle nostre università. Però guardate anche durante la Liberazione e la Resistenza che cosa è accaduto. È accaduto lo stesso. Ci sono stati professori e maestri che hanno datò esempi mirabili, dal carcere al martirio. Una maestra che per lunghi anni affrontò serenamente la galera fascista è qui tra noi.

E tutti noi, vecchi insegnanti, abbiamo nel cuore qualche nome di nostri studenti che hanno saputo resistere alle torture, che hanno dato il sangue per la libertà d'Italia. Pensiamo a questi ragazzi nostri che uscirono dalle nostre scuole e pensando a loro, non disperiamo dell'avvenire.

Siamo fedeli alla Resistenza. Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale."  

 

 

Le preoccupazioni di Calamandrei per la laicità della scuola e per uno scarso controllo della serietà delle scuole private sono oggi quanto mai attuali, ed è ormai prassi diffusa per le Regioni e i Comuni violare la Costituzione fornendo aiuti finanziari alle famiglie che mandano i loro figli alle scuole private, e sottrarre così fondi alla creazione e arricchimento dei laboratori e anche alla manutenzione delle scuole pubbliche.

A partire dal 2000, ogni tre anni il progetto PISA (Programme for International Student Assessment) indetto dall'ocsE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) esamina le competenze acquisite da studenti quindicenni nell'ambito della lettura, della matematica e delle scienze nei vari Paesi che hanno aderito - cioè 32 nel 2000, 41 nel 2003, saliti poi a 57 nel 2006 e 66 nel 2009.

I dati dell'ultima rilevazione non sono ancora disponibili nel momento in cui sto scrivendo, ma già PISA 2006 ha fornito utili indicazioni. Complessivamente l'Italia risulta al di sotto della media OCSE: la situazione non è disastrosa nel Centro-Nord, mentre diventa grave nel Sud e nelle isole. Ancora una volta si deve prendere atto dell'esistenza di due Italie: il Nord-Est è in testa alla graduatoria con risultati complessivamente superiori alla media OCSE, seguito a poca distanza dal Nord-Ovest; arranca il Centro, soprattutto nella competenza matematica e scientifica, mentre il Sud e le isole sono ben al di sotto della media. Un'importante variabile è costituita dalla tipologia di scuola: gli studenti dei licei raggiungono e superano, talvolta brillantemente, i coetanei europei, mentre la preparazione negli istituti tecnici e professionali è decisamente inferiore; nel resto d'Europa il divario tra gli istituti superiori è molto più contenuto.

In controtendenza con un quadro generale così preoccupante, il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini ha accettato tagli insopportabili alle scuole di ogni ordine e grado, ha ridotto drasticamente non solo le risorse, ma anche il numero degli insegnanti e delle ore di lezione.

Che rimedio ha proposto per fronteggiare la scarsa preparazione dei nostri studenti?

Quello di incentivare le scuole private dando un bonus alle famiglie che le preferiscano alle pubbliche: «Costituzione alla mano» argomenta il ministro, «voglio che tutti abbiano il diritto di scegliere se andare alla scuola pubblica o alla scuola paritaria».[1] Così invece di migliorare le scuole pubbliche, si propone in nome di una presunta libertà di favorire le private che, pur di attirare più studenti, sono notoriamente di manica larga, e hanno docenti spesso sottopagati e alle prime armi.  

 

I laboratori nelle scuole elementari e medie sono fondamentali per avvicinare i giovani alla scienza; laboratori in cui essi possono mettere mano, organizzare esperimenti e non solo limitarsi a guardare passivamente quello che fanno maestri e professori. Per raggiungere questo scopo non sono necessarie grandi somme, bastano l'inventiva e l'entusiasmo di docenti appassionati di scienza. Parlo con cognizione di causa dopo aver visto e visitato le scuole elementari di un piccolo paese in provincia di Pordenone, Montereale Valcellina, dove alcune maestre hanno realizzato insieme ai bambini un laboratorio completo con esperimenti di acustica, ottica, elettricità, concetto di onda e modelli di propagazione delle onde, utilizzando soltanto materiale di scarto a costo zero: da una serie di bottiglie riempite di acqua a diverse altezze, che percosse formano un semplice strumento musicale, a una camera oscura realizzata in uno stanzino buio dove la luce del sole penetra attraverso un minuscolo forellino; da una bicicletta la cui dinamo è collegata a una serie di lampadine che, sotto l'azione delle energiche pedalate dei bambini, illumina un villaggio di cartapesta, a un laghetto in miniatura in cui osservare la propagazione delle onde e il loro rifrangersi sulla riva.

Si può insegnare e imparare la fisica divertendosi. Lo dimostrano alcuni libri che spiegano i comportamenti delle più varie specie animali attraverso le leggi della fisica. Geniali esempi sono La fisica del miao e La fisica del bau di Monica Marelli,[2] laureata in fisica e divulgatrice.

Molti altri esempi di buona divulgazione «attiva» li incontriamo nei vari musei interattivi che per fortuna cominciano a comparire in varie città e sono sempre più frequentati dalle scuole, primo fra questi l'Immaginario Scientifico fondato a Trieste dal fisico Paolo Budinich e seguito quasi subito da quello di Napoli situato a Bagnoli, nato per iniziativa di un altro fisico, Vittorio Silvestrini, oltre a piccoli e grandi planetari.

Anche nel profondo Sud, dove in media il livello degli studenti è più basso, ci sono isole virtuose. Un piccolo paese sulle colline in provincia di Palermo, Roccapalumba - col suo planetario, i telescopi di una benemerita e attiva astrofila locale e le iniziative culturali sponsorizzate da un sindaco e un'amministrazione comunale consapevoli dell'importanza della scienza - è diventato un centro culturale per tutte le scuole dei paesi vicini e si è guadagnato l'appellativo di «Paese delle stelle».

Questi virtuosi tentativi di avvicinare alla scienza i nostri più giovani concittadini basteranno a cancellare il disinteresse o peggio la diffidenza per la cultura scientifica? Sopravvive tuttora, anche per colpa di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, il pregiudizio che vede nella scienza una forma di cultura minore, rispetto alla Cultura con la C maiuscola che era quella umanistica. La loro influenza è ancora profonda nella scuola: il liceo classico è considerato il più formativo, anche rispetto al liceo scientifico, nel quale comunque le ore dedicate all'insegnamento delle materie umanistiche superano di gran lunga quelle dedicate alla matematica e alla fisica. Persino sui giornali talvolta le pagine della cultura e della scienza - quando compaiono! - sono separate, come se la scienza non fosse cultura.

Per Croce in particolare esiste una forma di cultura elevata, quella umanistica, che si contrappone alla scienza, considerata un mero insieme di tecnologie; secondo lui solo le menti profonde sono in grado di dedicarsi alla filosofia, mentre «gli ingegni minuti» possono occuparsi di matematica o di botanica.

Quanto queste idee siano sbagliate ce lo dimostra l'opera di Albert Einstein, che è in grado di immaginare realtà così lontane dalla nostra esperienza quotidiana, come il fatto, verificato dalle osservazioni, che tempo e spazio non sono entità assolute, uguali per tutti, ma dipendenti dalla velocità di un osservatore rispetto a un altro, o le intuizioni di Max Planck, che danno origine alla fisica quantistica e a tutta una nuova concezione della materia e dell'energia. E se andiamo quattro secoli indietro, arriviamo ai tempi di Galileo Galilei e di Giovanni Keplero. Il primo con le sue osservazioni al cannocchiale scopre le montagne e le pianure lunari e dimostra che la Luna è un corpo materiale come la Terra e non costituito, come pensava Aristotele, di una materia eterea e perfetta.

Il suo contemporaneo Keplero utilizza le numerose e accurate osservazioni dei moti dei pianeti fatte dal suo maestro Tycho Brahe e scopre che le orbite sono ellissi e non circoli, ritenuti le figure geometriche perfette e quindi le uniche possibili per i corpi celesti. Accetta il risultato delle osservazioni come tale, al contrario dei suoi predecessori che per giustificare i dati che non collimano con la teoria si sono inventati che i pianeti ruotano su circoletti - gli epicicli - i quali a loro volta ruotano su orbite perfettamente circolari.

Questi grandi scienziati sono stati anche profondi filosofi che hanno rivoluzionato le nostre concezioni del mondo. Allora ci domandiamo se ha senso parlare di due culture, l'umanistica e la scientifica: dov'è il confine fra l'una e l'altra?

Il semianalfabetismo o addirittura analfabetismo scientifico spiegano tante paure irrazionali e la credulità in pseudoscienze come l'astrologia, il paranormale, il creazionismo.

La scarsa considerazione che la nostra classe politica e in particolare quella più recente riserva all'istruzione, all'università e alla ricerca è la conseguenza del basso livello culturale della gran maggioranza degli eletti in Parlamento.

Un fulgido esempio di questa incultura ci è stato offerto dall'onorevole Gabriella Carlucci che, autoproclamandosi esperta di fisica, ha avuto il coraggio di giudicare severamente il valore scientifico di un fisico di fama internazionale come Luciano Maiani, o le nomine del primo governo Berlusconi che per lo «spoil system» ha sostituito i presidenti di importanti enti senza nessuna consultazione con gli addetti ai lavori.

Come se non bastasse, anche il papa si permette di accusare gli scienziati di essere arroganti e avidi: «La scienza moderna a volte segue solo il facile guadagno e tenta di sostituirsi al Creatore con arroganza, senza essere in grado di elaborare principi etici, mettendo in grave pericolo la stessa umanità».[3] E, dati alla mano, gli scienziati italiani proprio non si meritano queste accuse: a più di trent'anni un ricercatore arriva a uno stipendio di poco superiore ai 1.000 euro al mese, e un professore ordinario alla fine della carriera non supera gli 80.000 euro lordi all'anno. Questo in moneta sonante è il valore che l'Italia riconosce alla cultura, alla ricerca e alla tanto celebrata innovazione che evidentemente riempie le bocche ma non le tasche.

 

 

 

[1]      Intervista di Alessandra Arachi a Mariastella Gelmini, Gelmini: penso a un bonus per chi studia alle private, «Corriere della Seraı», 18 giugno 2009.

[2]      Monica Marelli, La fisica del miao. Ali, zampe e code raccontano la scienza, Editoriale Scienza, Trieste 2007; Monica Marelli, La fisica del bau. Baffi, denti e piume raccontano la scienza, Editoriale Scienza, Firenze 2009.

[3]      Orazio La Rocca, Il Papa contro gli scienziati «tentati dai facili guadagni», «La Republica», 17 ottobre 2008.

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