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Pensare che non abbiamo un corpo ma siamo un corpo che contiene in sé tutti gli elementi, fisici e spirituali, che costituiscono la nostra vita nella sua pienezza. Un corpo/essere inteso come inscindibile unità psicofisica che, non esistendo nella nostra lingua, un vocabolo adeguato per definirlo, chiamerò corpo “vivente”.

 

Pensare al corpo vivente come realtà ontologica che permette, attraverso un’esperienza vitale diretta, di entrare in contatto con il mondo. Come organismo attivo con cui l'essere umano riceve sensazioni sinestetiche dal mondo per poi filtrarle, interpretarle, rielaborarle e comunicarle in pensieri parole e atti. Un corpo come realtà globale e attiva dell’esserci umano nel mondo, che tuttavia nel tempo è stata scissa e variamente repressa, controllata e condizionata dalle visioni dominanti nella società (secolare scissione/opposizione filosofica e religiosa corpo/spirito, e conseguente svilimento e repressione della fisicità, ancora oggi non pienamente superati; manipolazione medico scientifica che frantuma il corpo vivente in oggetti di studio separato; controlli comportamentali sociali (esempio attuale la civiltà capitalistica, che vede il corpo/oggetto come fonte di consumo e impone modelli di comportamento massificati attraverso le reti di comunicazione; ecc.).

 

Pensare alla danza come fenomeno antropologico innato, attività originaria dell'essere umano, sempre esistita, che usando il corpo vivente in tutta la sua realtà olistica come sensore relazionale per ricevere -dall'interno e dall'esterno della persona- gli impulsi dinamici di trasformazione del e nel mondo, permette un’utilizzazione piena dell’essenza psicofisica del corpo attraverso il movimento e induce l’attivazione di un diverso percorso di pratiche e di pensiero che contribuiscono a sviluppare e valorizzare la capacità di trasformare creativamente se stesso e la realtà, che l'essere umano possiede.

Pensare al corpo danzante, che agisce cioè secondo modalità totalizzanti, extra-quotidiane e creative, come a un’intensificazione della sua adesione alla vita stessa, una diversa possibilità espressiva e comunicativa di relazione con il mondo, con gli oggetti, le persone e la natura intera; come stato esperienziale dell’essere versatile, complementare, complesso e multiforme, che consente agli studiosi di riscoprire e analizzare il corpo vivente, nelle molteplici sfaccettature intrinseche e implicazioni relazionali osservate nell'individuo e nella collettività, implicando prospettive di volta in volta differenti - antropologica, sociologica, pedagogica, psicologica, filosofica, politica, scientifica, artistica, storica ecc. – e contribuendo ad arricchire le conoscenze di ciascuna disciplina con sguardi inediti; come opportunità per ogni persona di scoprire e sperimentare consapevolmente le potenzialità del proprio corpo vivente e raggiungere una qualità più presente e creativa dell’esistenza anche nei comportamenti individuali e negli usi sociali quotidiani.

Autrice

Eugenia Casini Ropa

INTRECCI DI RAMI E RADICI
la danza europea
sul composito terreno dell'intercultura

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Inviato il 2/04/2019




Pubblicato in lingua portoghese come: Entrelaços de ramos e raìzes: a dança europeia no terreno composto da intercultura, in AA.VV., Poéticas teatrais: territorios de passagem, FAPESC/Design Editora, Florianopolis (Brasil), 2008, pp. 11-24.

 

Non appena letto il titolo del seminario a cui ero chiamata a partecipare, "Intercultura e Poéticas Teatrais: oriente, ocidente, transfigurações", mi è sorta una serie di problemi di interpretazione, semantici e concettuali. Se di primo acchito la mente è corsa alla consueta, radicata e sbrigativa modalità di lettura dei termini, ossia Occidente = Europa e America, Oriente = Asia e Oceania, subito dopo i dubbi si sono fatti strada. Se in Brasile si parla di oriente, di che si parla? Geograficamente parlando sono Africa ed Europa l'oriente del Brasile, molto prima dell'Asia; anzi, se consideriamo, ad esempio, il Giappone, che si trova praticamente agli antipodi del Brasile, come dire se è ad oriente o ad occidente? La lettura degli argomenti che sarebbero stati trattati dai diversi studiosi, mi ha poi reso evidente che la prima, canonica interpretazione era quella giusta: culture teatrali asiatiche messe in relazione con culture euro-americane.

 

Riferire questo veloce lavorìo di pensieri nella mia mente può sembrare del tutto futile, perché in fondo non fa che ricordare ciò che ormai gli studiosi dei nostri giorni (primo fra tutti Edward Said con il suo fondamentale studio sull'orientalismo[1]), hanno ben chiaro: l'"Oriente" non è tanto una sede geografica, quanto piuttosto un luogo mentale, che raccoglie civiltà e culture assai diverse e distanti tra loro, la cui affinità reciproca risiede sostanzialmente nella collocazione attribuita loro dallo sguardo "occidentale" e nella "differenza", storicamente evidenziata, rispetto a una concezione eurocentrica del mondo ancor dura a morire. Se è vero, come ancora Said ci ricorda, che i nostri studi sull'Oriente e la nostra rappresentazione di esso variano a seconda del variare delle prospettive culturali e dei valori dell'Occidente, più che per reali mutamenti all'interno di quei Paesi, allora può essere interessante vedere come, nell'ambito più ristretto e particolare del teatro di danza, l'incontro con l'Oriente sia cambiato negli ultimi cent'anni e come si presenti oggi in epoca di intercultura e globalizzazione.

Il mio punto di osservazione è naturalmente l'Europa (con una comprensibile attenzione all'Italia), ma ritengo possa avere un certo interesse in termini più generali, come specchio di un percorso sintomatico.

 

Non intendo risalire a tempi troppo lontani, quando i viaggiatori - mercanti e missionari - riferivano di danzatrici dei templi e bayadères di corte con parole di meraviglia e di scandalo, ma soprattutto senza alcun tentativo di comprendere ciò che vedevano[2]; partirò dal cuore del diciannovesimo secolo, là dove il Romanticismo ha saldamente fissato una visione esotistica dell'Oriente vicino e lontano, territorio affascinante e misterioso, luogo di manifestazione intensa dei sensi e di fanatismo nelle credenze, favorendo così anche l'impianto concettuale della dicotomia storica Oriente/Occidente e della gerarchia di potere colonialista. La moda esotico-orientalista del secolo era in parte alimentata anche dal successo delle traduzioni di drammi orientali[3] e dalla trasposizione scenica di storie ambientate in India, Cina, Giappone[4], così come, in seguito, dai racconti e dai romanzi dediti alla rappresentazione di un Oriente di maniera (Loti, Salgari e forse Kipling). La danza, tuttavia, non possedendo testi da tradurre, era nota solo attraverso le pitture importate dai mercanti e le fantasie letterarie e figurative degli esotisti. Tanto era il sensuale fascino misterioso attribuito, ad esempio, alle ignote danzatrici d'Oriente, che quando nel 1838 la prima vera troupe di devadasi indiane giunse a Parigi, il pubblico le rifiutò come una falsificazione: troppo barbariche e poco attraenti per essere davvero le mitiche indiane.

 

Il balletto romantico dominava le scene europee con la sua tecnica aerea al massimo del virtuosismo, i cori di fanciulle pallide ed eteree con le scarpette di seta e i candidi tutù di velo accolsero fra loro nuove figure venute dall'Oriente: zingare, bayadères, principesse di terre lontane[5]. Come orientali, sensuali e scarsamente civilizzate, a loro erano permesse nell'intreccio audacie e trasgressioni passionali non concesse alle protagoniste occidentali[6], ma la loro danza, così come il costume, ben poco aveva di diverso da quella delle altre ballerine. Alla stretta osservanza accademica si concedeva qualche maggiore fluidità nel movimento delle braccia e una più accentuata flessibilità della colonna e al tutù di prammatica si aggiungeva una leggera sciarpa variopinta, nulla di più.

 

Tra otto e novecento, alimentata dalla maggior facilità delle comunicazioni e dall’espansione del commercio coloniale come dal diffondersi della voga delle “grandi esposizioni”, una nuova e potente ondata esotista travolge l’Europa. Nei padiglioni espositivi di Parigi e delle altre capitali europee è possibile ammirare tessuti, manufatti, oggetti quotidiani e d’arte, così come musica, spettacoli e danze provenienti dai paesi dell’Asia e dell’Africa. Se le rudi ed essenziali sculture lignee africane influenzeranno soprattutto il “primitivismo” di alcuni pittori e scultori, i teatri danzati dei paesi asiatici colpiranno profondamente l’immaginario teatrale europeo. Personaggi come Sada Yacco (attrice giapponese le cui interpretazioni erano in realtà filologicamente assai dubbie), Hanako (formata invece in patria come geisha) o la troupe delle danzatrici del re di Cambogia (invitate a Parigi dalla famosa creatrice della danza “serpentina” Loie Fuller) divengono punti di riferimento essenziali per la riflessione primo-novecentesca sui codici, i simboli e il movimento scenici. A livello più generalizzato, spuntano e si moltiplicano nei teatri e nei locali di intrattenimento danzatrici sedicenti “orientali”, che sotto il segno riassuntivo della figura di Salomè[7]- vista come prototipo della seduzione esotica ed erotica con la sua danza dei sette veli - propongono una vulgata puriginosa della danza di un Oriente tanto indefinito quanto assolutizzato.

 

A livelli più consapevoli e culturalmente influenti, in America, Ruth St. Denis (1879-1968) – supportata dal marito Ted Shawn (1891-1972) - rielabora con abilità e carisma spunti acquisiti dall’immaginario d’Oriente in personali danze indiane, egizie o siamesi, delle quali esalta l’atmosfera ieratica e spirituale insieme al fascino esotico-ritualistico dei ricchi costumi ed accessori; il suo esempio saprà influenzare il primo cinema hollywoodiano, ma anche il gusto diffuso di un’intera generazione di americani[8]. In questo caso, l’elaborazione mitica dell’Oriente fornisce stimoli e materiale per la creazione di una nuova, elevata qualità della danza, che attraverso il filtro di una spiritualità sconosciuta all’Occidente si nobilita, conferendo al corpo in movimento giustificazione etica e simbolica per la fusione con una sorta di afflato mistico. Paradossalmente, è in questa danza orientaleggiante – così come in quella grecizzante di Isadora Duncan – che iniziano a germogliare i semi della nuova “danza moderna” dell’Occidente.

Dalla scuola californiana della St. Denis e di Shawn, la celebre Denishawn School, nasceranno infatti le creatrici della modern dance americana Martha Graham e Doris Humphrey, che conserveranno in qualche misura particolari tecnici e connotati simbolici di quell’insegnamento, anche nella loro ricerca di una danza “realmente americana”[9].

 

Con l’avanzare del novecento, mentre progrediscono studi orientalisti ancora eurocentrici e di matrice colonialista, ma almeno più sinceramente curiosi ed accurati, gli scambi e le frequentazioni reciproche tra Oriente e Occidente si fanno più frequenti. Di grande interesse, tra le due guerre, almeno due casi che riguardano la relazione fruttuosa Europa-Giappone. Il giovane giapponese Michio Ito (1892?-1961), venuto a completare la sua formazione artistica in Europa, studia con Emile Jaques-Dalcroze[10] e collabora nel 1917 con W. B. Yeats, danzando con successo per lui in At the Hawk’s Well. Nei decenni successivi, stabilitosi in America, elabora e diffonde uno stile del tutto personale, in cui fonde estrosamente elementi del Noh e del Kabuki con la consapevolezza ritmica dalcroziana, la forza espressiva della danza libera e la spettacolarità di stampo Denishawn[11]. Con un percorso inverso a quelli fin qui segnalati, invece, negli stessi anni sarà la danza moderna europea ad influenzare quella del Giappone: gli espressionisti tedeschi, come Mary Wigman e Harald Kreutzberg, accolgono infatti nelle loro scuole danzatori giapponesi e, con i loro tour asiatici suggestionano profondamente giovani artisti come Kazuo Ohno (1906)[12], il più anziano iniziatore di quella moderna danza Butoh che, come vedremo, dagli anni Ottanta conquisterà a sua volta l’Occidente.

 

Nel secondo dopoguerra l’atteggiamento europeo nei confronti dell’Oriente subisce notevoli modificazioni. Le cause sono varie e di ampia portata e influenzano tutto lo spirito del tempo: ne possiamo solo indicare alcune in linea generale.

 

L’orientamento post-colonialista degli studi e del pensiero post-moderno cambia il fuoco dello sguardo occidentale. Benché il post-colonialismo non possa essere identificato come una vera e propria scuola di pensiero, si sostanzia tuttavia in un insieme di studi di ambiti e metodologie diverse che riconsiderano la visione eurocentrica del mondo mettendola in crisi[13]. Le consolidate posizioni di potere e sottomissione colonialiste vengono smantellate e l’Altro, l’estraneo, comincia ad essere diversamente considerato e valutato, decostruendone la rappresentazione discorsiva egemonica e rivalutandone la soggettività. Ci si avvicina dunque diversamente anche ai paesi e alle culture d’Oriente, cercando di comprenderne senza pregiudizi le strutture sociali, i meccanismi economici e i processi culturali.

 

Allo stesso tempo, i movimenti giovanili che cercano di sfuggire al golem del capitalismo e della tecnocrazia occidentale, si rivolgono all’Oriente alla ricerca di una spiritualità perduta, avvicinandosi alle sue religioni e alle sue filosofie così come alle discipline corporee che uniscono corpo e spirito in un tutto vitale che riconduce alla pienezza dell’essere. Zen, Yoga, Tai Chi Chuan, arti marziali di provenienza diversa e danze d’Oriente vengono ricercate e praticate per la riconquista dell’equilibrio personale e di gruppo; l’attrazione-repulsione, il senso di alterità e superiorità, l’esotismo erotico del passato vengono soppiantati da una diversa fascinazione, che colloca in Oriente il centro salvifico della rigenerazione dell’uomo. Come cinquant’anni prima si era investita nel ritorno alla natura la speranza di rinnovamento dell’umanità agli albori di un nuovo secolo destinato all’inesorabile avanzata tecnologica modernista, ora i giovani degli anni Sessanta e Settanta viaggiano in Oriente e praticano le sue discipline rigeneratrici come antidoto alla guerra fredda e al materialismo tecnocratico.

 

Nel frattempo la danza europea inizia la sua fase che oggi definiamo “contemporanea” e va elaborandosi sotto il segno della massima libertà di scelte: poetiche, tecniche, contenutistiche, relazionali[14]. Entrambe le due direttive principali, quella post-modern di ispirazione americana - con la sua decostruzione totale dei linguaggi della danza, con la supremazia della performance, dove il corpo in movimento si mostra per se stesso nel suo aspetto “democraticamente” meno rielaborato e vicino al quotidiano, e con il rifiuto di ogni ulteriore significazione consapevolmente aggiunta[15] – e quella europea più propensa al teatro-danza – dove la volontà espressiva e comunicativa fonde tecniche di danza con quelle di matrice teatrale in processi linguistici di confine, molto connotati dal punto di vista dell’artista creatore[16] – utilizzano criteri di miscela e commistione generalizzata. E’ proprio la diversa mistura di elementi liberamente elaborati a costituire lo stile precipuo delle creazioni che in Europa vengono ormai chiamate generalmente “danza d’autore”. Gli elementi tratti da altre culture, come quelle d’Oriente, sono usati indifferentemente nella composizione, così come le compagnie sono ormai formate da danzatori di ogni provenienza, etnia e cultura. Sempre più spesso danzatori occidentali si addestrano seriamente in tecniche orientali – soprattutto nelle danze indiane - che vengono usate poi, tanto come vere specializzazioni stilistiche quanto come ingredienti del melting-pot coreutico contemporaneo.

 

Sul teatro intanto, l’influsso delle forme e delle modalità orientali si fa invece molto più penetrante e influente[17] nella radicale ricerca di registi-pedagoghi come Jerzy Grotowski, Peter Brook, Eugenio Barba e nel movimento trasversale del cosiddetto “terzo teatro”, che fondano sulla disciplina e la concentrazione del corpo-mente dell’attore una nuova estetica-etica del lavoro teatrale[18]. In alcuni paesi, come in Italia, la danza contemporanea, che nasce negli anni Ottanta, ha assai più a che fare con le vicende di questi tipi di teatro che con la storia della danza nazionale, nella quale fino ad allora è penetrato ben poco delle pratiche moderne e post-moderne.

 

La danza Butoh giapponese, prima vera forma di danza moderna del Giappone, che si sviluppa dagli anni Cinquanta-Sessanta soprattutto attraverso l’opera trasgressiva e innovativa di Kazuo Ohno (1906) e Tatsumi Hijikata (1928-1986), a loro volta sensibili alla lezione espressionista europea, penetra in quegli anni in Europa e spesso vi si stabilisce, facendo proseliti e incrementando un pensiero e una ricerca più profondi sulla danza come canale privilegiato del rapporto tra l’essere e il mondo, e sul corpo come il possibile, metamorfico strumento di fusione col tutto. La filosofia del nipponico Butoh[19] sembra in qualche modo conciliarsi, per la sensibilità europea, alle ben diverse linee di pensiero della fenomenologia occidentale, e in particolare alle osservazioni sull’essere e sulla percezione di un pensatore come Maurice Merleau-Ponty[20], di recente piuttosto frequentato da coloro – artisti e studiosi – che si fermano a riflettere sulla danza da un punto di vista anche filosofico.

 

Nella società europea, gli anni Ottanta sono anche quelli dell’inizio della potente e inarrestabile ondata migratoria dai paesi più poveri del mondo verso l’Europa. Anche nazioni come l’Italia, con una quasi inesistente storia coloniale e considerata in precedenza meta poco ambìta dai migranti, conoscono un afflusso di stranieri sempre più nutrito e, in certo senso, destabilizzante della quieta provincialità del paese. Da quel momento l’Altro è sempre più tra noi, e l’”esotico a domicilio” vede svanire le ultime tracce del suo antico fascino romantico, si fa spesso inquietante e quasi minaccioso e necessita sempre più urgentemente di una ridefinizione. L’Oriente, del resto, non è più il principale punto di riferimento dell’”altrove” culturale ed estetico; ora i popoli ancor più sconosciuti dell’Africa si riversano in Europa con i loro bisogni, ma anche con le loro civiltà, credenze e costumi. Il luogo mentale dell’”Oriente” come altro da sé, come sede di un “esotico” ormai tangibile, pare quasi allargarsi a comprendere continenti, popoli e pensieri che abbracciano l’intero sud del mondo. Lo sforzo di comprensione imposto all’Occidente diventa immane; pur se si tenta di allargare le braccia per abbracciare, spesso ci si ritrova a stringerle su noi stessi a protezione di radicate concezioni di egemonia, nei casi peggiori, o soltanto a istintiva difesa della propria identità culturale, in quelli migliori.

 

La politica economica e culturale mondiale si indirizza alla globalizzazione totale e la rete delle comunicazioni ci avvolge in un gomitolo inestricabile di informazioni tanto illuminanti quanto massificanti. Mentre si realizza inevitabilmente una sempre più estesa e penetrante fusione di etnie e culture ad ogni livello della vita quotidiana – dalla scuola al lavoro, dal cibo all’abbigliamento, dalle discipline sportive agli intrattenimenti, ecc. – alla volontà e anche al piacere della condivisione si affianca l’inquietudine generalizzata e reciproca della perdita dell’identità originaria: delle radici, gli usi, le credenze, le memorie delle proprie rispettive provenienze culturali. Al crescente predominio del “globale” si contrappone il desiderio di conservazione del “locale”[21], che nella sua lotta più o meno conscia per la sopravvivenza genera spesso disagio, incomprensione, contrasto, ostilità per il diverso.

 

In questo contesto magmatico e mutevole, la danza, seguendo da vicino la musica, accosta ed assorbe uomini e proposte, tecniche e stili; come linguaggio del corpo, che non necessita dell’intermediazione della parola – strumento di comunicazione difficile in situazioni plurilinguistiche – si presta particolarmente ad un approccio relazionale diretto e immediato, ad un accordo ritmico istintivo. Nel sociale, balli popolari di diverse civiltà convivono facilmente e si scambiano con semplicità, forme di altri paesi, come il tango argentino o la danza orientale di origine egiziana, comunemente chiamata “danza del ventre”, si diffondono come vere e proprie mode[22]; nella danza d’arte, giovani coreografi-autori “contemporanei” di origine africana o dell’estremo oriente apprendono e usano tecniche e stili d’occidente senza abbandonare i tratti stilistici delle proprie origini, mentre artisti europei acquisiscono volentieri elementi caratteristici venuti da lontano. Sempre più frequentemente i critici parlano di “contaminazione” – vocabolo, però, ormai politicamente scorretto per la sua connotazione negativa – di “meticciato”, di “commistione”, di “amalgama”, di “fusione”, per indicare le sempre più numerose nuove creazioni, nelle quali si individuano apporti più o meno evidenti e armonizzati di tecniche e stili culturalmente differenti[23].

 

Anche nell’ambito della danza sono ormai abituali ed evidenti i segni distintivi delle principali modalità di convivenza e interazione culturale della società globale: multiculturalismo - dove le culture coabitano mantenendosi tuttavia distinte; interculturalismo – dove si privilegia il dialogo e la comprensione reciproca; e transculturalismo, la più attuale e interattiva – dove ci si studia di favorire i flussi di pensiero e pratiche che trascorrono da una cultura all’altra su principi analoghi. L’Europa accoglie infatti volentieri nei suoi teatri danzatori e danze di paesi e civiltà diverse per ammirarne le singolarità (multiculturalismo), così come apprezza le creazioni in cui apporti stilistici di diversa derivazione si misurano dialetticamente (interculturalismo).

 

Nei primi anni Duemila, però, sembrano presentarsi nuovi artisti e creazioni in cui pare davvero di poter cogliere un innato - o sapientemente ricercato - atteggiamento di transculturalità, e la loro origine è spesso orientale. Sono danzatori singolari e dalle personalità artistiche ben delineate, nati, vissuti e coreuticamente nutriti in ambiti culturali differenti, i quali hanno saputo accogliere e fondere alle radici principi e tecniche di movimento, strutture ritmiche, configurazioni spaziali di provenienza disparata, per dar vigore ai freschi rami di una danza, che lascia presagire una civiltà di tipo globale capace di non distruggere ma anzi di valorizzare le differenze in una fusione armonica[24].

 

Sono artisti come Saburo Teshigawara (1953), giapponese con studi di danza occidentale e di scultura e fotografia e con profonda cultura psicofisica orientale, che lavora sulla concentrazione e l’essenzialità d’oriente unita a tecniche occidentali di fluidità corporea, configurando sculture dinamiche ricche di opposizioni; come Shen Wei (1968), cinese cresciuto alla scuola severa dell’Opera di Pechino, passato poi alla danza moderna e trasferitosi negli Stati Uniti, “coreografo-calligrafo”[25] che disegna cerchi e spirali coi corpi che fluttuano a terra, creando e distruggendo linee reali o immaginarie in un crescendo ritmico impressionante; come Akram Kahn (1974), bengalese nato a Londra da genitori immigrati, addestrato dapprima nella danza Kathak della tradizione d’origine e in seguito nelle tecniche contemporanee inglesi, che forma una compagnia spiccatamente internazionale e miscela il ricco simbolismo indiano con elementi dinamici occidentali perfettamente metabolizzati.

 

Sono soltanto esempi, ma significativi, dei più recenti frutti creativi e stilistici della mutata e mutante situazione culturale e artistica generata dall’epoca in cui viviamo.

 

L’Oriente, dunque, è ormai tra di noi, è in parte dentro di noi; non è più civiltà lontana ed estranea, paese del sogno e della fantasia, ma, come ogni altra civiltà con cui stiamo approfondendo il contatto, comincia ad appartenerci, e il rapporto è reciproco e scambievole. Danzatori occidentali e orientali, del nord o del sud del mondo, di ogni colore e cultura, si apprestano forse oggi a diventare soltanto danzatori, creatori del linguaggio universale del corpo di una nuova antropologia.

 

 

[1] Edward Said, L’Orientalisme. L’Orient  créé par l’Occident, Seuil , Paris 1978.

 

[2] Per una visione della danza d'Oriente - in particolare dell'India - nei resoconti dei viaggiatori tra XIII e XIX secolo, e il loro influsso sulla danza europea, cfr. Tiziana Leucci, Devadasi e Bayadères: tra storia e leggenda, CLUEB, Bologna 2002.

[3] Le traduzioni di drammi come il cinese L'orfano della famiglia Zhao e l'indiano Sakuntala erano già iniziate a fine settecento, ma conobbero un'ampia diffusione a fine ottocento con diverse riproposte sceniche in prosa, musica e balletto.

[4] Per una approfondita storia dei rapporti teatrali tra Oriente e Occidente dalla Grecia antica ai giorni nostri si veda: Nicola Savarese, Teatro e spettacolo fra Oriente e Occidente, Laterza, Roma-Bari 1992.

[5] Tra i più importanti balletti su temi orientali ricordiamo: a Parigi: Le dieu et la bayadère, 1830, di E. Scribe; La Peri, 1843 e Sakuntala, 1858, entrambe su libretto di Th. Gautier; a San Pietroburgo, La figlia del Faraone, 1862 e La Bayadère, 1877.

[6] Per una lettura in chiave di gender di storie e personaggi femminili esotici nel balletto tra sette e ottocento, si veda Susan Leigh Foster, Choreography and narrative. Ballet's staging of story and desire, Indiana University Press, Bloomington & Indianapolis 1996.

[7] A riprova della enorme diffusione della figura di Salomè come sintesi della fascinazione inquietante della danzatrice orientale, valgono i dati di alcuni studiosi: nell’estate del 1908 si contavano nei vaudevilles degli Stati Uniti almeno 150 contemporanee esibizioni di Salomè, mentre un ricercatore afferma che, al 1912, ben 2.789 poeti francesi le avevano dedicato dei versi. L’opera Salome di Richard Strauss dal celebre testo di Oscar Wilde, convalidando culturalmente l’attualità del soggetto, rinfocolò dal 1905 una moda dilagante tanto di qua che di là dall’Atlantico; tra le più celebri Salomè ricordiamo almeno Maude Allen e Mata Hari. Sull’argomento cfr. Toni Bentley, Sister of Salome, Yale University Press, New Haven & London 2002 e Elizabeth Kendall, Where she danced. The Birth of American Art-Dance, University of California Press, Berkeley 1979.

[8] Sulla diffusione dell’orientalismo esotico di Ruth St. Denis, cfr. Vito Di Bernardi, Ruth St. Denis, L’Epos, Palermo 2006 e, sugli influssi sociali della Denishawn, il già citato: Elizabeth Kendall, Wherw she danced. The Birth of American Art-Dance.

[9] Cfr, Eugenia Casini Ropa (a cura di), Alle origini della danza moderna, il Mulino, Bologna 1990.

[10] Emile Jaques-Dalcroze (1865-1950) musicista e pedagogo svizzero, fu il creatore della teoria “euritmica” e della “ginnastica ritmica”, un metodo per armonizzare pensiero e movimento attraverso il ritmo musicale. Famosa negli anni Dieci la sua scuola tedesca di Hellerau, dove studiarono molti musicisti e danzatori in seguito divenuti celebri. Vedi AA.VV., Emile Jaques-Dalcroze. L’homme, le compositeur, le createur de la rithmique, Ed. de la Baconnière, Neuchatel 1965.

[11] Cfr. Helen Caldwell, Michio Ito. The dancer and his dances,University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1977.

[12] Sulla danza Butoh, si veda almeno il recente e complessivo  Butô(s), a cura di Odette Aslan e Beatrice Picon-Vallin, CNRS, Paris 2002; su Ohno: Maria Pia Orazi, Kazuo Ohno, L’Epos, Palermo 2001.

[13] Per un’introduzione generale alle problematiche del post-colonialismo vedi A. Loomba, Colonialismo/postcolonialismo, Meltemi, Roma 2000.

 

[14] Sulle tendenze della danza contemporanea europea, vedi Laurence Louppe, Poetique de la danse contemporaine, Contredanse, Bruxelles 1997.

[15] Cfr. Sally Banes, Terpsichore in Sneakers. Post-Modern Dance, Wesleyan University Press, Hanover-London 1987.

[16] Cfr, Susanne Schlicher, L’avventura del TanzTheater. Storia, spettacoli, protagonisti, Costa & Nolan,Genova 1988.

[17] Non è da dimenticare, già negli anni Trenta, l’illuminazione, determinante per la sua poetica, che Antonin Artaud ebbe alla vista della danza balinese. 

[18] Cfr, Eugenio Barba, Nicola Savarese, The secret Art of the Performer, Routledge, New York 1991. Il testo, poi tradotto in molte lingue, pone le basi dell’”antropologia teatrale”, che porta per la prima volta in luce il concetto di transculturalità nell’arte dell’attore.

[19] Sui principi filosofici e la poetica della danza Butoh attraverso gli scritti degli artisti si veda: Butoh. La nuova danza giapponese, con un saggio di Maria Pia D’Orazi, Editori Associati, Roma 1997.

[20] Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003.

[21] Per indicare l’incontro ideale di culture si è recentemente inventato il neologismo “glocale”.

[22] In Italia, con la massima naturalezza si realizzano serate in cui le danze di origine africana si sposano con la tarantella e la pizzica delle nostre regioni del sud, mentre aumenta ogni giorno di più il numero delle impiegate, insegnanti e madri di famiglia che si dedicano al movimento liberatorio della danza orientale..

[23] Sulle problematiche della ricerca e conservazione dell’identità nella danza contemporanea, si veda  Andrée Grau, Danza, identità e processi di identificazione in un mondo postcoloniale, in Susanne Franco, Marina Nordera (a cura di), I discorsi della danza, Utet, Torino 2005.

[24] Un testo recentissimo e di notevole interesse sull’argomento, a cui prevalentemente si rifanno queste mie ultime osservazioni, è: Elisa Guzzo Vaccarino, Danze plurali/l’altrove qui, Ephemeria, Macerata 2009. Il volume tratta estesamente, oltre ai tre coreografi qui citati, anche Sidi Larbi Cherkaoui, autore marocchino-fiammingo.

[25] Ibidem, p. 19.

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