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Autore

Gianni Tamino

L’EQUILIBRIO NEL RAPPORTO TRA ACQUA
ED ENERGIA - Per un’economia della natura
e un’economia circolare

in “Gli Stati Generali dell’Acqua”, a cura di D. Padoan,

Castelvecchi editore, p. 260, 2022

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Economia della Natura

 

Il ciclo dell’acqua e il flusso di energia che arriva  dal Sole sono alla base di gran parte dei fenomeni presenti sul nostro Pianeta e sono fondamentali per i processi produttivi naturali, che si svolgono nei vari ecosistemi. L’insieme di questi processi viene anche definito “Economia della Natura”, che può essere intesa come equivalente di “Ecologia”, secondo lo scienziato che per primo, nel 1866, coniò questo termine, Ernst Haeckel.

La vita sulla Terra esiste da quasi quattro miliardi di anni e da circa due miliardi e mezzo quasi tutto il flusso di energia che attraversa gli ecosistemi è stato ed è di origine solare: i processi sono ciclici, cioè i materiali vengono continuamente riutilizzati, come nel caso della fotosintesi e della respirazione. Nella fotosintesi si utilizza l’energia solare per far reagire l’acqua con l’anidride carbonica, ottenendo zuccheri e, come scarto, ossigeno; nella respirazione si ottiene energia ossidando (ma non bruciando) gli zuccheri con l’ossigeno, ottenendo come sottoprodotti acqua e anidride carbonica: cioè i sottoprodotti di un processo sono le materie prime dell’altro. La relazione ciclica tra fotosintesi e respirazione regola il flusso di energia negli ecosistemi, alla cui origine vi è la trasformazione dell’acqua, grazie all’energia solare, in ossigeno e idrogeno, che opportunamente trasportato nei sistemi cellulari permetterà la trasformazione di anidride carbonica (CO2) in zuccheri (C6H12O6). E’ proprio l’energia contenuta nei legami chimici di questi ultimi a garantire tutte le attività sia nelle piante che, attraverso la catena alimentare, negli animali e poi negli organismi decompositori, realizzando il pieno riciclo della materia organica. Le reazioni chimiche necessarie per le diverse attività biologiche sono molteplici e danno origine al complesso metabolismo di ogni essere vivente, ma, pur producendo un po’ di calore, non producono mai quelle temperature elevate, come nelle combustioni, che sarebbero incompatibili con le caratteristiche dei viventi.

Il riutilizzo, senza sprechi, dei materiali non vale solo per fotosintesi e respirazione (cioè il ciclo del carbonio e dell’ossigeno), ma anche per i cicli che coinvolgono tutte le altre materie prime utilizzate dagli organismi viventi, nei diversi ecosistemi. Fondamentale in questo senso il collegamento tra questi diversi cicli (cicli biogeochimici) con il ciclo dell’acqua: fin dall’origine la massa d’acqua è evaporata, ha prodotto precipitazioni ed è ritornata nei mari attraverso i fiumi innumerevoli volte, ma ha anche permesso lungo il proprio percorso la vita e le attività metaboliche degli organismi viventi che l’hanno utilizzata.

I cicli naturali garantiscono tutta la produzione naturale, cioè la crescita e lo sviluppo degli organismi o, se si preferisce, la produzione della biomassa, intesa come la massa di tutti viventi di un certo habitat. Dunque parlare di economia della natura significa individuare gli ecosistemi, oggetto di studio dell’ecologia, come sistemi produttivi; una produzione circolare, garantita dall’energia solare, senza produzione di rifiuti o di inquinamento e senza combustioni, favorendo la biodiversità.  Negli ecosistemi i viventi e le componenti non viventi (come acqua, aria, suolo) sono collegati da complesse relazioni, che ci ricordano che gli ecosistemi sono “sistemi complessi”.  Un importante aspetto dei sistemi complessi, a differenza dei sistemi lineari, è che le proprietà che li caratterizzano emergono dalle relazioni che si instaurano tra le parti che li compongono, e non sono deducibili o prevedibili solo in funzione delle proprietà che caratterizzano le loro componenti. Così in un ecosistema non importa quale specie è presente in una nicchia ecologica, ma la funzione che vi svolge in relazione a tutte le altre specie.

L’economia della natura è dunque la prima e la vera economia circolare: da milioni di anni ossigeno, carbonio, azoto, fosforo ed altri elementi minori, al pari dell’acqua, attraverso specifici cicli, sono stati continuamente riciclati all’interno degli ecosistemi. Tutti i processi di trasporto e trasformazione di materia nei vari comparti possono avvenire grazie all'energia che la Terra riceve dal Sole e allo stesso tempo grazie al ciclo dell’acqua.

 

Economia lineare umana

 

L’attuale sistema economico umano, a differenza dei processi naturali, è lineare e porta inevitabilmente da una parte all’esaurimento delle risorse e dell’altra alla produzione di rifiuti e di inquinamento.

Nelle attività industriali l’energia viene ricavata per la maggior parte da reazioni di combustione, utilizzando combustibili fossili. Per lungo tempo l’uomo si è limitato ad utilizzare il fuoco per scaldarsi, cucinare, tenere lontani gli animali pericolosi o per uso bellico. Solo recentemente, con la Rivoluzione Industriale, la combustione, soprattutto di combustibili fossili (prima il carbone, poi petrolio e metano), è diventata la principale modalità per produrre l’energia necessaria per le più svariate attività: riscaldamento, energia elettrica, energia per trazione dei veicoli con motore a scoppio, ecc.

Senza dubbio nel secolo scorso carbone, petrolio e metano hanno fornito l’energia indispensabile per l’industrializzazione ed hanno dato un impulso allo sviluppo dell’economia mai visto prima. I fossili, però, sono una risorsa esauribile e re-immettono nell’atmosfera il carbonio sottratto dai vegetali milioni di anni fa, insieme a varie sostanze tossiche e nocive per la salute degli esseri viventi.

La combustione, sia di materiali fossili che di biomasse, è un processo complesso che inevitabilmente trasforma i combustibili in un gran numero di nuovi composti, alcuni aeriformi, alcuni solidi, che sono causa sia dei cambiamenti climatici che dell’inquinamento atmosferico. In natura la combustione è un evento raro (fulmini, vulcani) e distinto dai cicli biogeochimici.

Inoltre nei cicli produttivi industriali si utilizzano materie prime in gran parte ottenute per estrazione, senza preoccuparsi di dove finiranno le scorie di estrazione e di purificazione dei materiali impiegati né di dove finiranno gli scarti (cioè rifiuti) del processo produttivo e tantomeno del destino degli inquinanti che derivano dalla combustione delle fonti energetiche e dalla trasformazione dei materiali in prodotti commerciali. Le produzioni industriali hanno poi bisogno di grandi quantità di acqua che prelevano pulita e rilasciano più o meno inquinata, comunque inquinata.

Enorme è poi il consumo d’acqua per la produzione di energia elettrica: sono infatti necessarie grandi masse di acqua dolce per il sistema di raffreddamento di questi impianti.

Secondo  lElectric Power Research Institute (EPRI) di Palo Alto (California) servono prelievi di migliaia di litri per ogni MWh prodotto da centrali termiche e ancora di più per le centrali nucleari (tra 30 e 60 metri cubi al secondo per una centrale da 1000 MW). Per queste ragioni in Francia il consumo d’acqua per le centrali nucleari arriva al 50% del totale dei prelievi e con la crisi idrica provocata dai cambiamenti climatici varie centrali  non possono più funzionare. Ma lo stesso problema si pone anche in Italia per centrali a carbone o comunque a fonti fossili. Inoltre, quando l’acqua di raffreddamento viene scaricata in corsi d’acqua, si verifica un forte impatto sulle temperature dei fiumi e di conseguenza sugli ecosistemi acquatici e sulla biodiversità.

 

In soli due secoli l’uomo ha radicalmente modificato il flusso di energia sul pianeta, bruciando combustibili fossili, che si erano accumulati nel corso di molti milioni di anni, per realizzare processi produttivi lineari, che danno origine a quantità crescenti di rifiuti e di inquinanti incompatibili con i cicli biogeochimici.

Rischiamo dunque di rimanere senza materie prime, oltre che senza combustibili fossili e contemporaneamente di avere alterato in modo irreversibile il Pianeta e compromesso la salute dei suoi abitanti. In pratica, a partire dalla Rivoluzione Industriale, abbiamo imposto una civiltà lineare su un pianeta che funziona in modo circolare.

 

Il modello industriale si è esteso anche all’agricoltura

 

L’energiacontenuta nei vegetali, misurata in calorie, un tempo derivava quasi esclusivamente dall’energia solare, salvo l’energia umana e animale utilizzata per il lavoro dei campi (comunque garantita dal cibo così prodotto). Ma dopo la rivoluzione industriale, si cercò non solo di aumentare la superficie coltivata, ma anche di aumentarne la resa produttiva, impiegando altre fonti di energia oltre quella solare.

La “Rivoluzione Verde”, sviluppata negli anni ’60, ha comportato, oltre ad un incremento di produttività, anche un notevole aumento dell’energia impiegata in agricoltura. Questa energia aggiuntiva è fornita dai combustibili fossili sotto forma di fertilizzanti, pesticidi ed energia per la lavorazione del terreno, per i trasporti, per l’irrigazione, per le trasformazioni del cibo, ecc. Secondo Giampietro e Pimentel la Rivoluzione Verde ha aumentato di circa 50 volte il flusso di energia, rispetto all’agricoltura tradizionale, così nel sistema alimentare degli Stati Uniti sono necessarie fino a 10 calorie di energia fossile per produrre una sola caloria di cibo consegnato al consumatore. Ciò significa che il sistema alimentare statunitense consuma da cinque a dieci volte più energia di quanta ne produca sotto forma di cibo o, se si vuole, che utilizza più energia fossile di quella solare catturata dalle piante coltivate.

In conseguenza di tale logica la superficie adibita ad agricoltura industrializzata non solo non è in grado di assorbire la CO2 come potrebbe farlo un equivalente bosco o prato o campo coltivato con metodi tradizionali, ma anzi produce più CO2 di quanta possa assorbire, contribuendo al grave problema dell’effetto serra. Altrettanto vale per l’acqua: quando piove un terreno ben lavorato e ricco di materia organica assorbe e trattiene l’umidità, mentre nei terreni coltivati in modo industriale e concimati con fertilizzanti di sintesi l’acqua o scorre via o va in profondità.

Considerando solo la produzione dei fertilizzanti, servono circa due tonnellate di petrolio (in energia) per produrre e spargere una tonnellata di concime azotato: gli Stati Uniti in un anno consumano quasi 11 milioni di tonnellate di fertilizzanti e ciò corrisponde a poco meno di cento milioni di barili di petrolio.

Enorme è anche il consumo di acqua necessaria per questo tipo di agricoltura: a livello nazionale, il settore agricolo assorbe oltre il 60% dell'intera domanda di acqua del paese, seguito dal settore energetico e industriale con il 25% e dagli usi civili per il 15%. Ma su scala planetaria la situazione è ancora peggiore: secondo la Fondazione Barilla Il 90% delle risorse idriche nel mondo sono consumate tra quello che ci serve per allevamenti e coltivazioni, e quello che usiamo per produrre gli alimenti trasformati; solo l'agricoltura, ne "beve" il 70%. In particolare i maggiori consumi riguardano gli allevamenti intensivi, tanto che se per un chilo di verdure servono, considerando tutto il ciclo produttivo, alcune centinaia di litri di, per un chilo di carne servono decine di migliaia di litri d’acqua.

A causa di queto modello produttivo siccità e cambiamenti climatici stanno mettendo a rischio il futuro dell’agricoltura, che avrà sempre più bisogno di acqua, impoverendo le falde.

Ma l’incremento di cibo ottenuto grazie alla rivoluzione verde, non ha risolto né fame né sottosviluppo. L’insicurezza dell’approvvigionamento alimentare riguarda ancora gran parte della popolazione del pianeta.  Si ritiene spesso che la fame nel mondo dipenda dalla mancanza di cibo, ma in realtà, come aveva già messo in luce il premio Nobel per l’economia Amartya Sen, la vera causa della fame è la povertà e quindi l’impossibilità di avere accesso al cibo.

In base ai dati della FAO, la produzione globale di cibo sarebbe sufficiente per gli oltre sette miliardi di abitanti della Terra, ma il cibo è distribuito in modo non equo: secondo “Save the Children” nel 2020 quasi un miliardo di persone ha vissuto uno stato di grave insicurezza alimentare, mentre altrettante persone ogni anno consumano molto più del necessario, andando incontro a problemi di obesità e malattie metaboliche legate all’eccessivo consumo di cibo, soprattutto di origine animale.

L’agricoltura industriale ha portato ad un forte indebitamento dei paesi più poveri, che sono stati costretti a produrre soprattutto cibo di lusso per i paesi ricchi (ananas, banane, caffè, tè ecc.). La rivoluzione verde ha dunque permesso un grosso aumento di consumi alimentari per i paesi più ricchi, senza garantire cibo per i più poveri.

Ma anche a livello dei paesi ricchi questo tipo di agricoltura industrializzata pone rilevanti problemi ambientali e sanitari: inquinamento delle falde (a causa sia dell’impiego di fertilizzanti che di pesticidi), accumulo di residui tossici nell’intera catena alimentare, incremento del tasso di emissioni gassose connesse all’effetto serra, riduzione della fertilità del suolo (valori di materia organica inferiori al 2 e anche all’1 %).

In ogni caso i contadini dei paesi più ricchi come quelli dei paesi più poveri, in una logica di globalizzazione, sono condizionati dalle scelte dell’industria (multinazionali) e del grande commercio. Sicurezza e sovranità alimentare non si possono raggiungere se poche multinazionali hanno il controllo mondiale del settore agroalimentare.

 

Gestione sostenibile dei beni comuni: verso un’economia circolare

 

Per realizzare processi produttivi sostenibili è necessario passare da un’economia lineare a una circolare, cioè “pensata per potersi rigenerare da sola”, come quella naturale, con l’uso di fonti di energia veramente rinnovabili (solare, eolica, ecc.), senza combustioni, riutilizzando i materiali e conservando le risorse idriche.

Il passaggio dall’economia lineare a quella circolare è dunque indispensabile per evitare i cambiamenti climatici e l’inquinamento ambientale, ma non basta cambiare il modo di produrre, occorre anche agire sul versante dei consumi e degli stili di vita, riducendo gli sprechi,  compresi quelli alimentari.

L’economia circolare richiede dunque un cambiamento culturale e promuove una concezione diversa della produzione e del consumo di beni e servizi, che, oltre all’impiego di fonti energetiche rinnovabili, metta al centro la diversità, in contrasto con l’omologazione e il consumismo.

Va comunque ricordato che  la vera economia circolare è l’economia della natura, come ci insegna l’ecologia, alla quale ci dobbiamo ispirare ed adeguare per realizzare una vera economia umana circolare. In un’economia circolare i flussi di materiali sono di due tipi: quelli biologici, in grado di essere reintegrati nella biosfera, come avviene nell’Economia della Natura e quelli tecnici, destinati a essere rivalorizzati senza entrare nella biosfera.

 

Sulla base di queste considerazioni, il ciclo di vita dei prodotti deve essere esteso grazie a:

1) Un eco-design o progettazione ecologica, che preveda di riparare e riutilizzare i prodotti più facilmente;
2) Una maggiore durabilità;
3) Una migliore gestione dei rifiuti, i cui materiali vanno riutilizzati all’interno dei processi produttivi;
4) Un nuovo modello di gestione dei prodotti, basato sul leasing e la condivisione;
5) Reti commerciali che rendano possibile riparare, invece di cambiare, gli elementi che non funzionano più.

L’obiettivo  dell’economia circolare è pertanto il recupero dei materiali e non la loro trasformazione in combustibili, come avviene negli inceneritori o negli impianti per la produzione di biogas o biometano.

Ma soprattutto, oltre a produrre in modo diverso, dobbiamo produrre meno merci, realmente necessarie, consumando meno risorse ed evitando gli sprechi.

 

Infine è anche necessario favorire un’agricoltura sostenibile, ripensando non solo come produrre, ma anche cosa e per chi. Si deve, cioè, passare dalla logica quantitativa, basata sulla produttività, che ha caratterizzato l’agricoltura intensiva, nata dalla rivoluzione verde, alla logica qualitativa, basata sulla compatibilità ambientale e sulla salubrità dei prodotti.

Ciò significa non solo rispettare il patrimonio naturale, passando dalle monocolture e dagli allevamenti intensivi alle produzioni diversificate e sostenibili, ma anche considerare piante ed animali come organismi viventi, in relazione tra loro, con proprie caratteristiche, frutto di una lunga evoluzione che ha garantito un’ampia biodiversità, che deve essere mantenuta.

La sostenibilità richiede anche produzioni finalizzate a mercati prevalentemente regionali, con l’obiettivo dell’autosufficienza alimentare, riducendo gli sprechi e modificando la dieta prevalentemente carnea dei paesi ricchi.

 Questi obiettivi si possono raggiungere applicando all’agricoltura i principi dell‘agroecologia e tecniche come quelle dell’agricoltura biologica.

L’agroecologia  parte da basi teoriche e pratiche opposte a quelle riduzioniste della cosiddetta rivoluzione verde, che ha portato all’industrializzazione dell’agricoltura, e consiste nell'applicazione dei principi dell’ecologia alla produzione di alimenti, fibre e farmaci nonché alla gestione dei campi coltivati intesi come agroecosistemi.

Infatti, come spiega una dei padri di questa disciplina, Miguel Altieri, l’agroecologia definisce il campo coltivato come “un ecosistema in cui avvengono gli stessi processi ecologici che si ritrovano in altre associazioni vegetali come il ciclo delle sostanze nutritive, le interazioni preda/predatore, la competizione, il commensalismo e le successioni”. Partendo da tali presupposti, l’agroecologia analizza la dinamica e la funzione delle relazioni ecologiche in modo da “produrre meglio, con minori impatti negativi, con maggiore sostenibilità e con meno apporti esterni”.

Ma l’agroecologia non considera solo i fattori biologici e ambientali, ma anche gli aspetti sociali, come il coinvolgimento delle comunità locali e il rapporto tra produttore e consumatore.


Inviato il 24/07/2025

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