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Autrice

Eugenia Casini Ropa

INTRODUZIONE.
Di arte di rivoluzione, una poetica
in Bela Balazs, "Scritti di teatro.
Dall'arte del teatro alla guerriglia teatrale"

Testi teatrali del grande teorico del cinema, che rivelano e rivendicano la funzione di arma culturale e politica del teatro degli operai.

            Pubblicato da: la Casa Usher, Firenze-Milano 1980

            Ristampa: CUEpress, Imola 2023

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Inviato il 11/12/2024

Testi teatrali del grande teorico del cinema, che rivelano e rivendicano la funzione di arma culturale e politica del teatro degli operai.




 

Itinerario

Béla Balazs, anagraficamente Herbert Bauer, nacque a Szeged in Ungheria il 4 agosto 1884, unico figlio di un insegnante ungherese di scuola media e di una maestra tedesca. Trascorse gli anni dell'infanzia e dell’adolescenza tra le cittadine di Szeged e di Locse, dove suo padre, giovane studioso cui si pronosticava una brillante carriera scientifica, ma spirito irrimediabilmente indipendente, incapace di adeguarsi all'immobilismo rigidamente gerarchizzato della scuola imperiale, fu trasferito per provvedimento disciplinare e tagliato fuori dal mondo degli studi.

La fonte più ricca e preziosa per la conoscenza di questi primi anni è il romanzo autobiografico La giovinezza di un sognatore [1] apparso in lingua tedesca poco prima della morte dell'autore. Balazs vi dipinge, in una sequenza di affreschi dove i colori umorali e corposamente realistici della vita sono smaltati dalla liquida trasparenza da miraggio del ricordo, esperienze infantili e giovanili pervase da un'inquietudine dolorosamente esaltante, in cui la scoperta della realtà della vita assume aspetti di iniziazione tormentosa, ma fatale. La tradizione contadina delle antiche fiabe e leggende ungheresi dal respiro conturbante di magia e di paura che apprendiamo aver nutrito la sua infanzia, costituirà una delle fonti più feconde della sua attività letteraria e segnerà un'impronta indelebile nel suo stile narrativo.

La morte prematura del padre duramente provato dall'ostracismo subito, la povertà che ne seguì portando sacrifici e umiliazioni, la discriminazione che fin dai primi anni lo colpì come ebreo, l'esperienza quotidiana della prevaricazione della minoranza di cultura tedesca sulla popolazione ungherese, contribuirono a formare le basi di un carattere caparbio e schivo, di una personalità fortemente incline all'isolamento nell'individualismo, che solo con la maturità seppe mitigarsi.

Già negli anni della scuola superiore iniziò a comporre poesie che, firmate per la prima volta con lo pseudonimo che gli appartenne poi per tutta la vita e che fu appositamente scelto per il suo schietto sapore ungherese, apparvero sul giornale locale di Szcged.

Riuscito, superando gravi problemi economici, a trasferirsi a Budapest per frequentare l'università (il suo sogno giovanile era diventare insegnante come il padre) studiò brillantemente tedesco e francese alla facoltà di Filosofia, tanto che ottenne una borsa di studio che gli permise un soggiorno a Berlino e a Parigi. Qui ebbe i primi contatti, benché ancora superficiali, con l'ideologia socialista, frequentando un gruppo di profughi rivoluzionari russi, e conobbe l'ambiente dei giovani intellettuali borghesi bohémien.

Conseguita la laurea, dopo una breve e deludente esperienza come insegnante, scelse di dedicarsi al giornalismo, alla poesia, al teatro. Il suo primo dramma, Il dott. Margit Szélpal, imperniato su una figura di donna emancipata alla conquista del suo posto nella società, fu rappresentato con grande successo al Teatro Nazionale di Budapest nel 1909. Gyorgy Lukacs, allora giovane critico promettente, salutò l'amico Balazs come il rinnovatore del languente teatro ungherese.

L'anno seguente pubblicò il primo volume di poesie (alcune liriche erano apparse precedentemente in due antologie letterarie) Il viandante canta,  anch'esso entusiasticamente accolto da Lukacs che paragonò Balazs al grande poeta ungherese Endre Ady, il cantore del profondo malessere e dell'ingiustizia sociale della fine del secolo precedente, profetizzando nella sua poesia una svolta per la letteratura mondiale. Gli articoli di Lukacs sulle opere di Balazs, che apparteneva allora al suo stesso entourage culturale, furono più tardi raccolti dall'autore in un opuscolo dal titolo Béla Balazs e i suoi oppositori [2] recentemente ripubblicato a Budapest nell'ambito della sua opera omnia.

È del 1911 l'inizio della collaborazione di Balazs con Béla Bartok, per il quale compose il libretto dell'opera in un atto Il castello del principe Barbablù, in cui per la prima volta attinse pienamente al patrimonio mitico e simbolico delle fiabe e delle tradizioni popolari. L'opera ebbe eccezionale successo in Ungheria e si diffuse in Europa nella traduzione tedesca, che peraltro ben poca giustizia rende all'originale. Il testo, di un'arcana musicalità accentuata dal gioco ossessivo di prolungamento delle vocali e di ripetitività dei versi e che rivela una marcata ascendenza simbolista - i riflessi simbolisti sono caratteristici di tutta la produzione teatrale di Balazs nell'anteguerra - ebbe in patria fortuna anche di per sé come composizione poetica e fu spesso recitato come atto unico. Ancora nel 1970 fu scelto come spettacolo inaugurale dei programmi a colori della televisione ungherese.

Dopo il libro di novelle del 1912 Sulla via Logodi, sulla primavera e sulla lontananza, che i moderni critici ungheresi ritengono il suo capolavoro letterario per l'intensità e la qualità della penetrazione poetica del rapporto uomo-natura, tre atti unici furono pubblicati nello stesso anno col titolo di Misteri. Un nuovo dramma di lungo respiro, L'ultimo giorno, fu rappresentato nel '13 dal Teatro Nazionale e il suo esito, ancora una volta assai favorevole, consacrò il successo del giovane drammaturgo ormai sulla cresta dell'onda. Alle consuete lodi di Lukacs si unirono quelle di illustri letterati come il già citato Endre Ady, che premiavano e incoraggiavano lo sforzo di Balazs nella elaborazione di una nuova drammaturgia che, pur trattando i temi più appassionanti della contemporaneità e ricercando un linguaggio teatrale della massima modernità, cercava di conservare caratteri nazionali, affondando le radici in una tradizione di cultura profondamente ungherese. Heinz Kindermann, nella sua storia del teatro europeo, ricorda il Balazs di quegli anni come l'unico giovane autore teatrale ungherese capace di opporsi con costrutto alla dilagante e sempre crescente imitazione locale di Reinhardt.

Le crudeli vicende sociali della prima guerra mondiale, a cui per un breve periodo prese parte come volontario, segnarono l'avvicinamento di Balazs all'idea socialista e alle tesi rivoluzionarie, finché nel 1918 divenne membro del Partito comunista ungherese. Questi anni di grande inquietudine videro un'intensa produzione di opere di genere assai vario, nelle quali sono tuttavia ancora impercettibili le tracce dell'evoluzione politica dell'autore.

Dopo un volume dedicato all'amara narrazione delle sue esperienze belliche, Anima in guerra (1916), e una raccolta di poesie, Sulla nave di Tristano (1917), collaborando nuovamente con Bartok stese la sceneggiatura per il balletto Il principe di legno, una fiaba delicata che fa ancor oggi parte del repertorio di molte compagnie classiche di balletto e che apparve per la prima volta insieme ad altri soggetti coreografici nel volume Giochi del 1917. Dall'interesse sempre vivo per la tradizione nazionale delle fiabe e dei canti popolari unito a una crescente sollecitudine per la letteratura rivolta all'infanzia nasceva inoltre, ancora nel '17, la raccolta Sette fiabe, proprio mentre debuttava con fortuna l'ultimo dramma, dedicato ai problemi dei giovani e della guerra, Giovinezza mortale. Completano la produzione di questo periodo due libri di novelle, Avventure e personaggi (1918) e La brocca nera (1919).  

I 133 giorni della Repubblica Ungherese dei Soviet videro Balazs tra i protagonisti, combattente dell'Armata rossa, membro del direttorio degli scrittori e dirigente, insieme con Lukacs e Béla Reinitz, della sezione teatrale del Commissariato per la cultura popolare. Della forzatamente breve attività della sezione si conoscono soltanto alcune iniziative avviate con apparente successo, come l'apertura dei teatri a prezzi politici per i lavoratori e l'introduzione dell'uso di far presentare gli spettacoli a scrittori famosi (a volte gli stessi autori) con prolusioni esplicative preliminari. Al momento del trionfo della controrivoluzione e dell'avvento del terrore bianco Balazs, condannato come tanti suoi compagni a morte in contumacia, dopo aver vissuto per breve tempo in patria nascosto sotto falso nome, fu costretto ad emigrare e scelse Vienna come prima tappa di un esilio che si sarebbe protratto per 25 anni. A Vienna molti suoi connazionali, una vera e propria piccola colonia di rifugiati tra i quali anche l'amico Lukacs, cercavano faticosamente di ricostruirsi una. vita. Fu in guesti giorni duri che Balazs ebbe i primi fattivi contatti con la giovane arte del cinema, della quale doveva diventare il geniale teorico che conosciamo. Inizialmente si guadagnò la vita lavorando come comparsa nei tanti film colossali allora in auge, riuscendo contemporaneamente a pubblicare qualche articolo su un giornale in lingua ungherese che si stampava a Vienna. Verso il 1922-23 le sue condizioni cominciarono a migliorare ed egli ottenne un posto fisso di collaboratore al quotidiano borghese di recente fondazione « Der Tag », in cui tenne regolarmente,  fino al 1925, la rubrica di critica cinematografica[3], recensendo a volte anche libri e spettacoli teatrali. Grazie al suo perfetto bilinguismo e servendosi in parte dell'appoggio della casa editrice Europa, fondata dai rifugiati ungheresi, poté nel frattempo pubblicare alcuni volumi. Oltre alle versioni tedesche delle Sette fiabe, Il principe di legno e Il castello del principe Barbablù, sono del 1922 il raffinato volume di fiabe cinesi Il mantello dei sogni, il romanzo Sul palmo di Dio e infine il trattato La teoria del dramma. Approfondendo ed elaborando in modo organico idee già precedentemente esposte in brevi scritti e conferenze (in particolare Estetica della morte, 1907, Dialogo sul dialogo, 1913 e Drammaturgia, 1918), Balazs vi pone le basi teoriche, a cui rimarrà fondamentalmente fedele, di tutta la sua prassi teatrale. L'opera fa parte di questa raccolta di scritti e ne tratteremo ampiamente in seguito.

Dalla attività critica che introdusse nella vita di Balazs il nuovo, fondamentale interesse per il cinema, fonte di opere di tal peso e popolarità da offuscare tanta altra parte della sua produzione letteraria, maturò nel 1924 L'uomo visibile o la cultura del film, prima opera di estetica cinematografica nel mondo e ancor oggi imprescindibile. In essa sono già chiaramente riscontrabili le tracce di un marxismo molto personalmente filtrato e in via di assimilazione, che veniva concretizzandosi in teoria estetica, ancora disorganicamente ma genialmente espressa nel contesto dell'idealismo di tendenza lukacsiana che aveva fino ad allora caratterizzato la poetica di Balazs. Questo processo di maturazione, consolidamento e inizio di uso consapevole nella produzione intellettuale e letteraria dei principi estetici del marxismo (politicamente assunto da tempo) che cercavano il proprio assestamento all'interno di una cultura personale già ricca e articolata, intensamente compenetrata di elementi idealisti, simbolisti e irrazionalisti non sempre facilmente conciliabili, è caratteristico del periodo viennese. Se lo sviluppo di questa ricerca appare ancora soltanto in minima parte nel Canto di un uomo del 1923, una raccolta di poesie di cui una, vibrante e in cui prevalgono ancora i toni lirici tipici della produzione prebellica, indicazioni assai più decisamente delineate è possibile cogliere in Il vero colore azzurro cielo e ne La guida di viaggio della fantasia, entrambe del 1925.

Il vero colore azzurro cielo è un libretto comprendente tre lunghe fiabe moderne che hanno per protagonisti ragazzi proletari di città. In un ambiente descritto con meditato realismo si inseriscono personaggi magici o animali parlanti (e graficamente il singolare contrasto tra le numerose illustrazioni di stile espressionista-satirico e il ricercato carattere gotico del testo pare il rispecchiamento visivo del gioco realtà/fantasia), dando vita a una sorta di fiabe a tendenza, di intento didascalico, ma estremamente piacevoli, un genere che Balazs continuerà a sviluppare negli anni a venire, anche teatralmente.

La guida di viaggio della fantasia, che l'autore definisce nel sottotitolo «un baedeker dell'anima per le vacanze estive», è un curioso e delicato volumetto composto di brevi-capitoli dedicati ad altrettante situazioni comuni, circostanze prevalentemente vissute senza attenzione nei momenti liberi dell'estate, come l'esporsi al sole, il fare un bagno in piscina, il passeggiare su un prato, il poltrire a letto il mattino. Balazs si propone di aiutare i lettori a riappropriarsi di sensazioni sempre trascurate nel contatto con la natura e con l'ambiente in cui viviamo, a conquistarsi la capacità di goderne intimamente e senza falsi pudori, con una recuperata disponibilità dell'anima solitamente oppressa dall'ansia del lavoro quotidiano malamente vissuto. Ciò che rende il libretto - graficamente delizioso, secondo il gusto prezioso che contraddistingue tutti gli scritti viennesi di Balazs - ideologicamente interessante è la sua dichiarata destinazione a un pubblico proletario, ai lavoratori. Il tema della vita dell'anima individuale, della sua esistenza intima, spesso ostacolo e contraddizione, ma sempre ineliminabile e insostituibile strumento interpretativo nei confronti della vita esteriore, è una costante della poetica balazsiana che gli procurerà a volte, in epoche successive, critiche in ambito marxista.

Nei primi mesi del 1926, a 42 anni, Balazs si trasferì, come parecchi altri intellettuali ungheresi esuli, a Berlino, dove la situazione politica, che vedeva il partito comunista in esaltante ascesa, nutriva speranze in un imminente rovesciamento rivoluzionario e il febbricitante fervore culturale offriva spazio e ascolto ad ogni genere di teorie e sperimentazioni. In particolare si offriva a Balazs la possibilità di mettere alla prova nella prassi le sue sempre meglio definentesi teorie cinematografiche e confrontare nella cerchia composita e prestigiosa della intellighenzia weimariana di sinistra il suo impegno intellettuale. Il periodo berlinese, che ebbe termine nel 1931 con il trasferimento a Mosca, ci appare oggi come il momento più interessante e problematico, di più intensa e spesso folgorante intuizione teorica e di più immediata benché a volte inadeguata o contraddittoria sperimentazione pratica, come il punto di più alta tensione utopica e di più pregnante dialettica interna di tutto il pensiero e la produzione di Balazs.

Fin dai primi tempi Balazs prese contatto e rapidamente si inserì in varie organizzazioni culturali della sinistra, per le quali non risparmiò energie né intellettuali né fisiche e in cui spesso rivestì incarichi di rilievo. Sufficientemente note sono le sue vicende in campo cinematografico. Membro del direttivo dell'Associazione popolare per l'arte cinematografica (Volksverband fur Filmkunst) presieduta da Heinrich Mann, contribuì con i suoi interventi su periodici specializzati (in particolare «Film und Volk» e «Arbeiterbuhne und Film») alla diffusione e alla propaganda dell'idea e della prassi del cinema proletario e alla comprensione critica del cinema sovietico. Collaborò, soprattutto in veste di sceneggiatore, alla produzione di alcuni film[4], per uno dei quali lavorò anche alla regia, ma la sua opera in questo campo non uguagliò e non seppe o non poté - per l'intervento spesso stravolgente e coercitivo dei produttori alla caccia del film da cassetta - tradurre le sue acute intuizioni teoriche. Poté accadere così che l'autore de Lo spirito del film (tr. it. Estetica del film, Roma, Editori Riuniti, 1954, 2a ed. 1975), il nuovo testo teorico del 1930 che matura e arricchisce le idee de L'uomo visibile rivisitandole nella attualissima prospettiva del sonoro, venisse definito da Brecht nel Processo all'opera da tre soldi «letterato di basso rango» al servizio degli interessi commerciali della produzione, per la sua parte di responsabilità nella contestata sceneggiatura del film di Pabst.

E’ piuttosto in ambito teatrale che gli anni berlinesi di Balazs si rivelano periodo-chiave della sua evoluzione, momento magico in cui i principi teorici sembrano innestarsi su una prassi capace di giustificarli e di tradurli in realtà vivente.

Al suo arrivo a Berlino Balazs entrò ben presto in rapporto, oltre che con le innumerevoli esperienze dell'avanguardia accreditata, con i gruppi del teatro operaio, formati da dilettanti proletari sotto l'egida delle organizzazioni sindacali o di partito della sinistra. Questi gruppi a struttura collettiva, impegnati in un teatro satirico o didascalico dalle forme semplici e immediate, attraverso il quale diffondere e promuovere la coscienza di classe nel proletariato, andavano in quegli anni crescendo straordinariamente in numero e in impegno politico sotto la spinta dell'avanzata della KPD. Alla guida di uno di essi, « Die Ketzer » (Gli eretici), Balazs iniziò la sua esperienza di teatro militante, che sarebbe cessata solo con la sua partenza dalla Germania, scrivendo e adattando testi, partecipando al lavoro collettivo del gruppo e guidandone le scelte culturali. Quando nel 1928 i gruppi teatrali comunisti, che si contavano ormai a decine per l'impulso dato dalla campagna di agitazione e propaganda promossa dalla KPD e dalla trionfale tournée condotta in Germania dall'analogo gruppo sovietico delle «Bluse Blu», e che avevano ormai generalmente assunto la denominazione di Agitprop, aderirono in massa alla preesistente Lega del teatro operaio tedesco, l'ATBD, assumendone la guida ideologica, Balazs fu nominato direttore artistico dell'organizzazione. Tenne questa carica fino al 1930, quando gli successe Gustav von Wangenheim. Il suo contributo in scritti teorici (alcuni interventi stringati, soprattutto sull'organo dell'ATBD « Arbeiterbuhne und Film », che fanno parte di questa raccolta), se pure quantitativamente meno imponente di quello di altri intellettuali impegnati nella causa del teatro proletario, si rivela oggi assai più originale e determinante per la restituzione problematica e l'interpretazione ideologica di quel movimento teatrale cosi vasto e singolare.

Alla sua poetica teatrale, espressa, oltre che negli scritti specifici sul teatro operaio, in parecchi interventi critici su opere e tendenze del teatro contemporaneo apparsi soprattutto sul periodico «Die Weltbuhne » e di cui pubblichiamo i più significativi, cercò di dar vita anche drammaturgica con la creazione di scene e drammi che assolvessero il compito ideale di «coscienza collettiva del proletariato» e di «riflessione di classe». 1871. I muri del Père la Chaise del 1928, che entrò nel repertorio di parecchi gruppi operai, analizza le cause che portarono alla disfatta della Comune di Parigi col proposito di mettere in guardia i lavoratori rivoluzionari tedeschi dagli errori individuati nella conduzione di quell'epica lotta e da evitare nelle lotte future. Secondo lo stile Agitprop, l'autore si rivolge direttamente al pubblico invitandolo a trarre le conclusioni opportune dalla riflessione sulla vicenda dei comunardi.

Uomini sulla barricata, del 1929, ha invece per argomento la lotta quotidiana dell'Armata rossa durante la rivoluzione sovietica. Lo stile fortemente realistico, semplice e didascalico, non cancella del tutto la passione di Balazs per le vicende dell' 'anima' individuale e i suoi personaggi mantengono, al di là della loro connotazione di classe e di condizione sociale che li rende simbolici, il pulsare profondo di un'individualità, che gli studiosi della Germania orientale di oggi constatano con una punta di rammarico. L'opera piacque allora tra gli altri a Piscator - al cui collettivo di lavoro Balazs aveva collaborato ai tempi della fondazione della Piscator-Buhne nel 1927 - che la giudicò tra le poche contemporanee rispondenti in qualche maniera alle necessità dei tempi e la inserì nel proprio repertorio per la stagione 1929-30, purtroppo troncata sul nascere. Nella attività drammaturgica di Balazs, oltre a parecchie brevi scene tipicamente agitprop, rientra anche la «fiaba teatrale» Hans Urian va in cerca di pane, del 1929, riuscito e imitato tentativo, da lui stesso teorizzato in uno scritto, di creare un teatro per i ragazzi proletari capace di educare divertendo alla coscienza di classe. La commedia, che prosegue, sulle basi di un marxismo ormai solidamente cementato, il filone fantastico-pedagogico de Il vero azzurro cielo, narra in forma fiabesca le esperienze di un ragazzo povero e di un leprotto volante in un viaggio intorno al mondo. Di scena in scena essi entrano in contatto con le dure realtà e i difficili concetti del profitto, dello sfruttamento, del capitalismo, del colonialismo ecc., presentati sempre in termini adeguati alle capacità intellettive e critiche dei ragazzi e in veste piacevolmente esotico-satirica. Dopo essere rimasto per vari mesi nel cartellone del gruppo « Junge Schauspieler » (Giovani attori), una compagnia di attori professionisti di sinistra organizzata in collettivo secondo i criteri del teatro dei dilettanti, lo spettacolo venne ripreso da molti altri gruppi in tutta la Germania e vide anche varie edizioni locali a stampa.

Altrettanto viva rimane negli anni berlinesi la propensione di Balazs per il teatro musicale, l'opera e il balletto. Dopo il quadro coreografico Mammon, una allegoria della bramosia di ricchezza in un tardivo stile simbolista musicata da Ernst Krenek, apparve nel 1929 il libretto dell’operina in un atto Silenzio, si gira!, una «tragicommedia» satirica sul mondo del cinema per la musica di Wilhelm Grosz. I personaggi della diva fatale e interessata, del giovane studente innamorato e disperato, del regista ispirato e farneticante, stilizzati e grotteschi, risultano ugualmente mossi come burattini dalla sete di guadagno in un gioco di risibili opportunismi.

Al di là della sua attività specifica in ambito cinematografico e teatrale, numerosi furono in quei giorni gli interventi di Balazs, membro attivo della Lega degli scrittori proletari rivoluzionari, BPES, e docente al MASCH, la scuola operaia marxista, su periodici e quotidiani della sinistra e borghesi (particolarmente assidua la sua collaborazione al già citato settimanale di cultura «Die Weltbuhne»  e al quotidiano «Berliner Borsen Courier») nel campo della critica letteraria e in generale nel dibattito culturale per un uso socialista dei mezzi artistici. Nei suoi articoli critici che spaziano dai testi pedagogici all'attualità giornalistica, dal genere poliziesco alla poesia, è particolarmente caratteristica e basilare la presa di posizione, su cui torneremo in seguito, contro i dettami della Neue Sachlichkeit, che giudica ultima spiaggia stilistica di una società senescente e impotente.

E una vera e propria sfida all'Oggettività suona il romanzo del 1930 Uomini impossibili, che Balazs stesso indica in un suo scritto come il tentativo di offrire punti di riferimento e di discussione alla tensione verso una «nuova spiritualità» della giovane classe proletaria in ascesa, senza tuttavia indulgere a cedimenti nostalgici verso vecchie forme di una spiritualità malsana e decadente. È una affascinante galleria di figure della generazione tragicamente e grottescamente dominata dalle passioni individuali che precedette la prima guerra mondiale. I protagonisti sono «ribelli dell'anima» salvatisi dall'annientamento solo con l'affrontare il traumatico ma vivificante passaggio dall'individualismo monomaniaco di una stravolta bohème, alle barriere della lotta rivoluzionaria. In questi uomini Balazs riconosce in parte se stesso e molti della sua generazione e tenta l'indagine delle motivazioni, delle circostanze e dei criteri di questo passo liberatore. E’ un'analisi del percorso dell'intellettuale contemporaneo, della sua lotta per una svolta travagliata e coraggiosa, della sua ansia di trarre nuova linfa dalle proprie radici culturali affondate in esperienze impossibili da cancellare e ardue da rivisitare dalla nuova posizione conquistata.

È questa la riflessione che più impegnò nel primissimo scorcio degli anni Trenta Balazs, ormai nella piena maturità. Il suo contributo ideologico più organico al dibattito allora infuocato intorno al ruolo culturale e all'impegno politico dell'intellettuale è rappresentato dal saggio Dubbi intellettuali, versione a stampa del 1931 del testo di una conferenza che fornì materiale di accesa discussione alla Lega degli scrittori rivoluzionari ( BPRS ). Il saggio è una rassegna delle incertezze e dei problemi spesso pretestuosi che tormentavano molti intellettuali contemporanei, indecisi nell'affrontare l'impegno politico, arroccati su posizioni di difesa di una presunta neutralità dell'arte che li esponeva al pericolo di rigurgiti reazionari, alla vana ma puntigliosa ricerca di una mediazione, di un ubi consistam ugualmente distante dai valori in crisi della classe borghese e dalla passione rivoluzionaria del proletariato. Balazs confuta dubbi e cavilli, prendendo spunto da un recente saggio di Alfred Doblin che li faceva propri in tutta la loro gamma, con decisione e chiarezza, in un testo che rappresenta un rilevante contributo alla propaganda delle idee marxiste.

Sotto la minaccia del nazismo Balazs si trasferl nel 1931 a Mosca. Ben poche sono le notizie sui 14 anni della sua permanenza nell'Unione Sovietica. Lavorò inizialmente come collaboratore di uno studio cinematografico e ottenne poi una cattedra all'Accademia del cinema, pur continuando a dedicarsi all'attività di sceneggiatore; collaborò costantemente ai periodici russi in lingua ungherese e tedesca (« Das Wort », che usufruì della collaborazione di tanti celebri letterati profughi dalla Germania, è quello di maggior peso) e in genere all'attività culturale degli scrittori rivoluzionari immigrati. Le opere, in gran parte note ma assai difficilmente rintracciabili di questo periodo, mostrano un avvicinamento alla prassi ortodossa del realismo socialista, confermato teoricamente in alcuni passi aggiunti all'edizione riveduta, in traduzione russa, de Lo spirito del film (1935) e nei testi delle lezioni tenute alla scuola del cinema, raccolte e pubblicate col titolo L'arte del film nel 1948.

Due libri in lingua tedesca indirizzati ai ragazzi, Carletto, tieni duro (1935) e Enrico comincia la lotta (1942), testimoniano il sempre vivo interesse di Balazs verso la letteratura per l'infanzia. Qui il realismo, pur se con brevi squarci di tenerezza lirica, è la direttrice del racconto delle storie di ragazzi tedeschi impegnati nella lotta antifascista, con intenti chiaramente propagandistici.

Sintomatico del momento espressivo vissuto dall'autore appare il dramma del 1938 Mozart. La vita del musicista è narrata attraverso un susseguirsi di quadri di intenso realismo, ognuno dei quali è una condanna o un monito nei confronti della società corrotta e sfruttatrice dei nobili, degli ecclesiastici, dei borghesi avidi di denaro, che prevarica e annienta l'artista in lotta per la propria libertà creativa. Eppure persino l'aver messo crudamente in luce i meccanismi del profitto e del potere che lo stritolano non vale del tutto a cancellare intorno all'eroe di Balazs un impalpabile sentore vagamente romantico di predestinazione, di condanna alla solitudine e all'incomprensione di una grande anima, rivelando così la profonda tensione dialettica tra l'originaria cultura idealistica dell'autore e l'uso marxista che egli ne fa.

Ancora numerose sono le pubblicazioni di genere diverso da ascrivere al periodo moscovita, traduzioni di opere degli anni precedenti o testi di nuova scrittura: drammi, poesie, racconti e fiabe. Tra di esse la « ballata cinematografica» Internazionalisti, sulla lotta degli ungheresi combattenti nell'Armata rossa durante la guerra civile in Russia, appare la più citata e largamente conosciuta.

Nel 1945, con la costituzione dell'Ungheria in repubblica socialista, Balazs poté infìne, dopo 26 anni, far ritorno in patria. La sua fama ormai internazionale di teorico del cinema gli procurò subito una cattedra all’Accademia di arte drammatica e cinematografica, la direzione dell'Istituto di scienza cinematografica e la partecipazione alla produzione di importanti film. Di particolare rilievo le sue sceneggiature per E’ accaduto in Europa del 1947 e La canzone dei campi di grano, girato nel 1948, tratto, da un romanzo di Ferenc Mora, inviso al nuovo regime, sulle lotte operaie nella rivoluzione ungherese del 1919 e che non ottenne mai il visto della censura.

Ma i rapporti con le istituzioni a cui collaborava non furono sempre facili: dissapori, calunnie, forse la stanchezza dell'uomo provato dai lunghi anni dell'esilio, l'incapacità di adattarsi a un ambiente che rispettava il suo passato di lotta assai più della sua opera e delle sue idee, contribuirono a far sì che benché onorato ed esaltato pubblicamente - nel 1948 gli fu assegnato il premio Kossuth - Balazs rimanesse in realtà al di fuori (anche tangibilmente con la perdita della cattedra) del processo culturale in corso. Eppure questo periodo vede la diffusione dell'ultima, più elaborata e completa sistemazione riassuntiva della sua teoria cinematografica; il volume, tradotto e ben noto in Italia col titolo Il film: essenza ed evoluzione di un'arte nuova (Torino, Einaudi, 1952, ult. ed. 1975) apparve a pochi mesi di distanza (1948-49) in edizione ungherese e tedesca, diffondendosi in pochi anni in tutto il mondo. Elevato è inoltre il numero degli articoli sul cinema apparsi su riviste non soltanto in Ungheria, dove fu redattore del periodico “Fényszoro” (Riflettore), ma anche in Polonia e in Cecoslovacchia dove insegnò periodicamente nelle Accademie cinematografiche e tenne numerose conferenze.

Del 1948 è inoltre il già citato romanzo autobiografico La giovinezza di un sognatore dove, negli ultimi anni della vita, l'autore rivolge uno sguardo commosso ma fermo alla sua infanzia, ritrovandone intatto il respiro. La sua ultima opera teatrale di una certa diffusione era stata la commedia Amore terreno e amore celeste, uno dei testi drammatici del periodo russo, conosciuto essenzialmente nella versione tedesca del 1946.

Béla Balazs morì a Budapest il 17 maggio 1949.

 

La raccolta dei suoi manoscritti, catalogati e conservati all'Accademia delle scienze di Budapest[5], comprende parecchie opere inedite: drammi, poesie, spunti per balletti, fiabe e novelle cui si aggiunge un considerevole epistolario. Oltre alle numerosissime riedizioni e traduzioni delle sue opere più note, sono usciti postumi il volume di ballate e leggende del Kazakistan La tenda d'oro (1956) e la raccolta di versi La mia via (1958). Nonostante la cospicuità e la molteplicità della sua esperienza e della sua produzione intellettuale, che la biografia testimonia, Balazs è tuttora conosciuto e studiato nel mondo occidentale soltanto come teorico del cinema. Se pure in patria oggi la sua fama di letterato – propiziata d'altronde dal suo ineccepibile curriculum politico e ideologico - è solida e brillante, gli studi finora compiuti su di lui mancano tuttavia in genere di organicità e per motivi di separatezza tecnicistica o di censura ideologica ignorano o stravolgono interi periodi della sua vita o interi settori di attività. Tenendo conto di questi limiti le fonti istituzionali più prodighe di informazioni critiche generali rimangono in primo luogo la Storia della letteratura ungherese edita a Budapest nel 1966 dall'editrice Accademia (vol. IV, Dal 1919 ai giorni nostri) e, a notevole distanza metodologica, il Lessico della letteratura ungherese edito a Budapest nel 1963 e l'analogo Lessico della letteratura socialista tedesca edito nel 1973 in Olanda da un'equipe di studiosi della DDR. Parecchie delle notizie biografiche e delle indicazioni bibliografiche qui raccolte sono state collazionate dall'esame diretto di articoli, lettere, scritti autobiografici di contemporanei.

La restituzione di una biografia di sufficiente ampiezza e comprensività vuol essere, al di là del suo valore strumentale ai fini della ricognizione teorica, un primo apporto, auspicabilmente sollecitante, all'indagine e all'uso culturale di una figura problematicamente attuale e al tempo stesso rappresentativa, per la storia personale, la versatilità intellettuale e il percorso ideologico, di molti altri intellettuali della sua generazione.

 

Di arte, di rivoluzione: una poetica

 

L'approccio a Balazs come teorico del teatro è del tutto inedito.

Esistono in Ungheria alcuni saggi, non numerosi ma a volte di origine illustre - come i già citati casi di Lukacs e Ady - a lui contemporanei o di epoca recente, intorno alla sua produzione drammatica degli anni Dieci e interventi di varia entità critica sul Balazs librettista di Béla Bartok. Ma La teoria del dramma (per non parlare dei saggi di più breve respiro, quasi perfettamente ignorati), pubblicata in lingua ungherese e per quanto ci risulta mai tradotta finora in altre lingue, è commentata brevemente soltanto negli attuali lessici della letteratura e soprattutto per evidenziare uno dei primi concreti manifestarsi nella produzione letteraria di Balazs dell'adesione all'ideologia culturale sovietica.

In Germania i recenti studi sul teatro rivoluzionario di Weimar ricordano le cariche rivestite da Balazs nell'organizzazione pratica del teatro operaio e, in un solo caso, i titoli dei drammi da lui composti in quel periodo. Gli scritti di argomento teatrale dell'epoca weimariana dunque, il cui reperimento è in massima parte frutto della personale ricerca di chi scrive, sono qui raccolti e nella quasi totalità editi per la prima volta dalla loro pubblicazione originale. Fanno eccezione Teatro operaio e Teatro per le strade apparsi nella raccolta di documenti sul teatro operaio tedesco Deutsches Arbeitertheater 1918-1933, curato per la Henschelverlag di Berlino da Ludwig Hoffmann e Daniel Hoffmann-Ostwald (il primo nelle due edizioni del 1961 e del 1972, l'altro soltanto nella seconda), che in quel contesto celebrativo, tutto teso a fornire una genealogia ragguardevole e inequivoca al teatro moderno della Germania socialista, risultano svuotati di ogni portato originale e rischiano di essere letti in chiave meramente apologetica.

Una prima parziale traduzione italiana di questi due saggi è apparsa senza commento critico sulla rivista «Scena» (n. 6, dic. 1977) nell'ambito di un panorama informativo sul teatro Agitprop tedesco. L'unico precedente sulla via della restituzione di una dimensione teatrale di Balazs è da considerarsi, pur nei suoi precisi limiti di ambito e nel suo taglio prevalentemente informativo, il mio saggio Béla Balazs e il teatro operaio («Biblioteca Teatrale», n. 21/22, 1978) in cui sono commentati, agli inizi della mia ricerca, gli scritti che strettamente pertengono alla problematica del teatro Agitprop.

I testi proposti da questo volume appartengono per la quasi totalità al decennio 1922-1932, il periodo dell'esilio austriaco e tedesco. Nella vasta produzione di Balazs è possibile reperire (e se ne è già fatto cenno) in questo o in diversi periodi della sua vita altri interventi più o meno occasionali di carattere teatrale. La scelta è caduta tuttavia su un gruppo di saggi che permettono di cogliere l'essenza della poetica teatrale di Balazs nel momento, sostanziato nella prassi, della sua più consapevole definizione e della sua massima problematicità.

La teoria del dramma, pubblicato a Vienna nel 1922, è il trattato teorico che chiude il primo periodo ungherese della vita di Balazs e apre al tempo stesso le porte all'esperienza berlinese di teatro militante. Il dibattito sulla costruzione del teatro rispondente ai bisogni della classe proletaria era in quei giorni già vivo e composito. Premesse e riferimenti per l'intervento di Balazs possono essere considerate le esperienze sovietiche e i recenti scritti di Bogdanov, di Lunacarskij e Kerzencev e i manifesti programmatici dei primi teatri proletari tedeschi (la Tribune di Leonhard e il Proletarisches Theater di Piscator e Schuller innanzitutto), che in misura più o meno conflittuale rispecchiano lo stesso travagliato scontro tra vecchia e nuova ideologia dell'arte. È un processo di faticosa chiarificazione che si dispiega per tutti gli anni Venti ed oltre e percorre tormentosamente la cultura di sinistra rimbalzando tra i poli russo e tedesco e rivelandosi nella maniera più eclatante proprio nelle personalità più rilevanti.

Da questo punto di vista La teoria del dramma è insieme una summa personalizzata del bagaglio di esperienze speculative dell'ultimo mezzo secolo di riflessione filosofica borghese sull'origine della forma drammatica e il luogo dell'ancora impreciso manifestarsi dei primi fondamenti della nuova prospettiva di pensiero marxista. È il tentativo di decantazione di una intorbidita ideologia teatrale, per recuperare l'ipotetica incontaminata matrice originaria su cui fondare l'evoluzione di una nuova idea di teatro. Uno dei principali motivi di interesse nella lettura risiede appunto nell'interna opposizione dialettica di queste due componenti, nell'ambiguo gioco dei loro rapporti, nella tensione sviluppata dalla loro ineliminabile interdipendenza nel processo argomentativo. L'uso dell'eredità culturale borghese nella ricerca della rifondazione culturale socialista non sfugge del tutto alle contraddizioni, agli estremismi utopici o al recupero di accreditate mitologie, per cui alla scoperta dell'ultima radice si giunge attraverso i postulati di quello stesso pensiero inquinato da cui si anela di liberarsi.

Senza il capitoletto introduttivo dedicato a Festa e spettacolo, senza le relazioni che istituisce e la chiave di lettura che sembra suggerire/sovrapporre alla trattazione seguente, il saggio, autosufficiente, differirebbe metodologicamente di poco da altri, più illustri, che l'hanno preceduto. Chiara e senza forti scosse fluirebbe una lettura dell'opera come organica teoria del dramma, considerata nel suo sviluppo globale e rapportata alla serie precedente di trattazioni analoghe. Da questa visuale i suoi ascendenti,  dialetticamente rimeditati, sono facilmente individuabili. Da un lato il Lukacs della Storia dello sviluppo del dramma moderno, della Metafisica della tragedia e della Teoria del romanzo, soprattutto per quanto riguarda la natura sociale dell'evento teatrale, la problematica del tempo nell'azione drammatica e alcuni aspetti della metafisica dell'anima nell'evento tragico; dall'altro il Nietzsche della Nascita della tragedia (con puntate esplorative direttamente a Schopenauer) per la fondazione del principio dionisiaco, il concetto di religiosità del dramma e la teorizzazione del processo mortale dell'anima tragica. Con lo sguardo a queste stimolazioni (e la mente saldamente ancorata a una storia delle idee di teatro che è in realtà storia della sola idea dominante), possono essere in breve individuate, isolate e catalogate le varianti di rilievo, ossia i portati personali e originali dell'indagine teorica e della prassi drammaturgica di Balazs, sempre filtrati da una singolare sensibilità poetica. Indubbiamente capace di suscitare ancora oggi riflessioni di grande interesse, letto in tal modo il saggio risulterebbe tuttavia non eccezionale rispetto ai più insigni precedenti.

Ma, si è detto, esiste il breve capitolo introduttivo, tre stringati paragrafi, che agiscono nell'economia del testo da vera e propria introduzione metodologica. Con esso la riflessione globale, chiusa in se stessa e legata al passato da un robusto cordone ombelicale, trova la forza di affrancarsi, di aprire una breccia verso il futuro, palesando potenzialità insospettate, il cui riconoscimento ci stimola e ci autorizza a una diversa lettura. Perché l'opera sembra sviluppare i suoi più attuali motivi di interesse non tanto misurandone le variazioni d'onda rispetto ai parametri dell'idea di teatro acquisita e accreditata nella cultura quanto ricercandone le tensioni deformanti che lentamente lavorano a sostituire proprio quei parametri di confronto e di giudizio con altri che prefigurano un sostanziale mutamento dell'ideologia teatrale. Assai più proficuo appare allora individuare ed enucleare - con una lettura attenta più ai processi interni delle singole parti che alla teorizzazione globale - i concetti mutanti, quei temi problematici carichi di potenzialità evolutive, i cui frutti giungeranno a piena maturazione negli scritti degli anni successivi. Pertinente e necessario si rivela a tal fine l'uso di una chiave interpretativa interna agli scritti di Balazs, dove la luce della chiarezza posteriore permette di interpretare le ancora acerbe proposizioni anteriori, cogliendone i nuclei caratterizzanti nell'attualità del loro processo di concrezione.

L'idea della festa, della teatralizzazione collettiva di una società che celebra la propria comune essenza nel cerchio magico festivo in cui si dissolve la tradizionale separazione attore-spettatore, ha affascinato e conquistato, prima e dopo Balazs, molti grandi teorici del teatro. Chi si è fermato a meditare con coerenza e radicalmente sul senso ultimo del teatro per fondare un'ipotesi di riforma basata sul suo rapporto necessario con la società, ha finito per approdare da un lato alla liquidazione dell’’istituzione’ teatro e dall'altra a un'ipotesi di riforma della società. Ipotizzando la nascita di un teatro necessario alla società si ipotizza conseguentemente l'esistenza di una società che di quel teatro abbia bisogno e che sappia generarlo. Una società, per definizione unanime, atta a dar comune forma espressiva e pubblica al sentimento collettivo: nella festa, appunto.

E così, allorché una vera rivoluzione sociale si è verificata, alla nuova società si sono rivolte le aspettative anche dei riformatori del teatro. La Presa del Palazzo d'inverno è stata riferimento d'obbligo per tutti coloro che, con istanze di rinnovamento, hanno scritto sul teatro nella metà degli anni Venti in tutta Europa: Balazs saluta in questo evento il ritorno alla mitica origine dionisiaca del teatro, al cespite da cui può germogliare una nuova pianta più sana, privilegiando così la funzione celebrativa del teatro.

L’atteggiamento festivo promuove la funzione dionisiaca dell'«ecclesia», funzione suscitabile soltanto sulla base di un forte sentimento religioso comune, come nei tempi antichi, oppure, suggerisce senza chiaramente precisare Balazs, di un altro potente sentimento collettivo. Su questa base l’idea che dovrebbe fondare il nuovo teatro «del pubblico», ossia coerentemente il nuovo teatro marxista, sancisce a rigore (è comunque una ‘fede comune’ a suscitare il teatro), l'ambiguità ideologica anche della, corretta espressione teatrale. Siamo ancora lontani dalla consapevole proposta di un uso politico del teatro: l'intuizione teorica non si è ancora confrontata con una prassi capace di definirla.

Dalla dogmatica matrice comunitaria e festiva del teatro si originano nella loro totalità i principi costitutivi inalienabili della forma drammatica, che Balazs esamina poi nel suo sviluppo, aberrante proprio perché contrario alle premesse, fino ai suoi giorni e di cui auspica la rinascita.

Estrapoliamo e fissiamo solo alcuni dei postulati costitutivi più sostanziali e più appassionatamente difesi, quelli che più ci interessa seguire nella loro ‘mutazione’.

Prima di ogni cosa viene dunque «il pubblico» che rappresenta la folla dionisiaca, «seme e radice» necessaria del dramma, il pubblico la cui funzione generatrice consente uno sviluppo «alla rovescia» del teatro rispetto alle altre arti: «prima il pubblico, poi il teatro, poi il dramma». Sarà sempre e di nuovo il pubblico a rifrangere e amplificare vibrando all'unisono «l'emozione» che il teatro può e deve suscitare per mezzo della sua «realtà presente».

La « realtà presente » dell'azione teatrale trae origine dalla facoltà di «transustanziazione» dionisiaca, dalla presenza effettiva, attuale, dell'azione drammatica originaria, i cui partecipanti erano tuttavia soggetti a un processo sostanziale di trasformazione nell'ebbrezza dionisiaca.«L'immedesimazione dionisiaca» permette l'annullamento dell'io individuale e la completa fusione del soggetto nella comune materia primigenia, sempre presente al di là delle forme individuali. Possono venire così portate alla luce le radici comuni, i motivi essenziali della vita della comunità, del pubblico, mentre l'azione, dovendo abbracciare questa totalità, si fa necessariamente simbolica.

Il teatro borghese, denuncia Balazs, si è sviluppato contraddittoriamente giungendo paradossalmente a soluzioni incompatibili con la sua originaria matrice dionisiaca, che lo svuotano perciò di senso e di efficacia: l'edificio teatrale col suo illusionismo scenico, il naturalismo e lo psicologismo del dialogo e dell'azione, la natura angustamente individuale dei conflitti drammatici, rendono la partecipazione del pubblico un fatto privato in cui si finge una comunione sparita da secoli, poiché la «realtà presente» del teatro è del tutto perduta.

Se nella Teoria del dramma già lucida appare l'individuazione dei mali del teatro, rimangono da individuare, al di là della suggestione dell'esempio iniziale, i possibili rimedi. Saranno gli anni successivi, in cui l'approfondimento e la piena assimilazione dell'idea marxista fa da supporto alla pratica quotidiana di un impegno critico che viene sempre più facendosi proposta operativa concreta, a portare a più definite conseguenze i presupposti teorici del '22.

Come critico di « Der Tag » prima e di  «Die Weltbuhne » poi, Balazs, penetra giorno dopo giorno più addentro nei meccanismi della produzione artistica della società capitalista, ne individua le aberrazioni e i guasti di gestione provocati dalla imperante legge del profitto e mette a nudo l'ideologia del disimpegno e della rinuncia sottesa ad un'arte che invano tenta di nascondere dietro il rutilante paravento della sperimentazione estetica la sua drammatica mancanza di contenuti originali. Nel clima febbrile di Berlino della seconda metà degli anni Venti, nella sua vita teatrale multiforme e fantasmagorica, dove teorie dai segni più diversi trovano spazio sperimentale offrendo una molteplice varietà di esempi alla riflessione, Balazs mette perfettamente a fuoco i suoi obiettivi e i suoi scritti ne danno ampia testimonianza.

L'immagine pregnante, icastica, sostituisce nei brevi articoli di questi anni lunghi discorsi polemici e teorici. La scelta di campo, sostanziata nella scrittura di metafore e figure e parole ricche di ombra, è il suo effettivo contributo teorico alle domande sul senso e sull'uso dell'arte nella repubblica di Weimar. In questi echi, in queste allusioni trascinanti, nella nitidezza della loro provenienza e destinazione risiede quel senso teorico che riscatta lo scritto dall'occasionalità e dalla brevità e ne fa un sensibile strumento di conoscenza di quelle tensioni che non avrebbero potuto - perché estranee, o per lo meno diverse, anche all'interno della stessa prassi cui ineriscono, dal discorso sul teatro - coagularsi in un discorso di teoria.

Lo strumento teatrale, questa l'idea di fondo di Balazs come critico, mezzo di comunicazione di insostituibile efficacia, deve essere usato politicamente secondo le intenzioni e i bisogni della nuova classe proletaria che cresce ogni giorno di più in forza sociale e in consapevolezza. Compito dell'arte in generale e di quella teatrale in particolare è stimolare e diffondere l'autoconoscenza e la coscientizzazione politica della classe che, secondo le speranze del momento, stava inevitabilmente per prendere il sopravvento.

Alla luce di questa fondamentale e profonda convinzione i bersagli di una critica costruttiva erano a portata di mano: lo strapotere monopolistico e la grettezza intellettuale dei direttori di teatri pubblici e privati, che avevano la facoltà di mettere al bando e soffocare iniziative artistiche scomode economicamente e ideologicamente; l'inveterata abitudine del teatro borghese di evitare ogni presa di posizione, mantenendo una presunta neutralità politica, che altro non era se non un comodo espediente per mantenere lo stato di fatto; l'ottica personalistica e individualistica per cui i destini personali di singoli individui vengono fatti assurgere sulla scena ad avvenimenti esemplari, con la deviante conseguenza di accentrare l'interesse sul conflitto drammatico di un singolo carattere, evitando ogni riflessione sui meccanismi sociali che determinano gli avvenimenti; l'esasperato sperimentalismo estetico, generalmente involucro formale allettante e mistificante di vecchie idee superate. L'analisi critica di Balazs, che non esita a sferrare attacchi anche personali, è sempre precisa e severa, pervasa da un costante vigore venato d'ironia, e la proposta teorica e operativa è un incessante invito all'impegno politico e partitico del teatro, alla sua destinazione a mezzo pedagogico di rispecchiamento del processo storico in senso marxista. « Non esistono un pubblico e una massa come elemento uniforme, che abbia un'unica volontà anche se inconscia; [ ... ] Perché non è che nel pubblico vengano prodotte scissioni e fratture per opera del teatro, ma queste scissioni e fratture esistono nel pubblico, conseguenza delle sue diverse convinzioni [ ... ] Non esiste una convinzione effettiva che nello stesso tempo non sia, sia pure indirettamente, anche una convinzione politica [ ... ] Solo un teatro di partito può avere un pubblico omogeneo, perché solo in un teatro di partito può crearsi un contatto effettivo, diciamo dionisiaco, fra il palcoscenico e la platea...» scriveva nel febbraio del 1927 intervenendo sul « Berliner Borsen Courier » in un dibattito sulla funzione della critica letteraria, riportato anche da Piscator nel suo Teatro politico.

Coerentemente a questi principi, Balazs considera l'efficacia emotiva componente essenziale e ineliminabile dell'arte teatrale. L'intento didascalico, riflessivo, del teatro non esclude affatto, anzi esige in realtà, quando i problemi trattati trovano effettiva rispondenza, lo scatenamento dell'adesione emotiva del pubblico, appassionata e senza falsi pudori, consona ai presupposti dionisiaci del rito teatrale.

Questo atteggiamento e in generale la posizione di Balazs rispetto alle tendenze dell'arte di quegli anni in Germania sono espressi chiaramente anche in due interventi del '28-'29 su « Die Weltbuhne», da poco tradotti in italiano coi titoli Virile o cieco di guerra? e Oggettività e socialismo nel volume Cultura e cinema nella Repubblica di Weimar (Venezia, Marsilio, 1978). L’attacco è qui frontalmente indirizzato alla Neue Sachlichkeit, specchio estetico di una società borghese in inarrestabile decadenza, svuotata di forze e di valori, rinunciataria e rassegnata, di una generazione che l'orrore della guerra ha reso invalida, « cieca di guerra » perché privata dell'«organo naturale dell'umanità per la percezione della realtà » che è la poesia. La presunta virilità della impassibile Neue Sachlickeit non è che insensibilità dovuta all'atrofizzazione degli organi preposti alla indagine poetica della vita. A una classe senescente « cadono i poeti » come i denti a chi non ha più modo di usarli; alla classe proletaria, giovane e vitale, decisa a « formarsi nella sensibilità» i poeti « spuntano» naturalmente.

La Nuova Oggettività si configura allora, come l'opposto dell'arte proletaria: è per Balazs l’estetica di quella «reifìcazione» condannata da Marx, è negazione di quella «spiritualità» che il proletario introduce nella interpretazione dei fatti della vita, che hanno realtà e valore solo in quanto entrano in rapporto diretto con la sua esistenza e vengono filtrati e giudicati dalla sua sensibilità. Ciò fa sì che il proletariato prenda inevitabilmente posizione nei confronti dei fatti della realtà e lo faccia con l'entusiasmo di chi attraverso di essi scopre e tocca se stesso. L'arte proletaria non può quindi che essere impastata di «passione » e di « pathos ».

L'eco di questa poetica si riverbera ovunque negli scritti di Balazs: nella sua denuncia della noia che permea certo teatro della Volksbuhne, nella critica rispettosa alla fredda realizzazione di Mejerchol'd di Ruggisci Cina!, nelle domande che pone alla sperimentazione teatrale sui bisogni reali del pubblico e, più che mai, nell'appassionato patrocinio del teatro operaio. Perché è nel piccolo teatro operaio Agitprop, molto più ancora che nel grande teatro politico di Piscator che pur ammirava, che Balazs sembra trovare la più radicale applicazione dei suoi principi teorici, la forma nuova e non adulterata di un teatro rinato dalla sua originaria matrice, l’incarnazione della vocazione utopica che urgeva in lui senza trovare il terreno in cui fondarsi.

Nello spesso e variegato tessuto del teatro di Weimar, dove molteplici esperienze (dalle espressioni borghesi dell’ultimo espressionismo e della Neue Sachlichkeit al moderato riformismo socialdemocratico della Volksbuhne, dal progetto di teatro politico di Piscator alla sperimentazione dei laboratori teatrali e del Bauhaus ecc.) convivevano dialetticamente sotto il segno di una istituzione del teatro fondamentalmente indiscussa anche se a volte progettualmente contestata, il teatro Agitprop rappresenta un esempio di lacerazione, l'espressione di una tensione eversiva che squarcia per un attimo la compattezza della cultura teatrale. Per questo oggi ci si presenta come uno dei momenti di più indiscusso interesse e profonda ambiguità di quell'epoca, come un grumo di problemi e di domande sul fare teatro e sul suo significato nella società, affascinante quanto (e perché) impossibile da sciogliere.

È questo il teatro a cui Balazs aderisce con immediatezza e costanza, in cui ricopre cariche importanti e insieme svolge mansioni di routine di cui scrive esaltandolo e che ricorda con gioia negli ultimi anni della vita. Quando Balazs entrò nel gruppo teatrale de «Gli eretici » il teatro  operaio stava uscendo da una fase ‘amatoriale’ di stampo filodrammatico e di tendenza socialdemocratica (sotto l'egida dei circoli culturali della SPD) durata decenni, per assumere caratteristiche nuove e peculiari trasformandosi in vero e proprio movimento di lotta proletaria[6]. Tra il 1927 e il 1928 le Agitproptruppen nascevano a decine, soprattutto all'interno dei movimenti giovanili di sinistra e in particolare tra la gioventù comunista. Si formavano per aggregazione spontanea e per emulazione reciproca come risposta a un sempre crescente malessere sociale, a un sempre crescente bisogno, nello sfacelo della crisi economica e del dilagante opportunismo, di riconoscersi in un impegno politico che passava singolarmente attraverso i mezzi del teatro. Era un teatro agile, fervido rozzo di agitazione e di propaganda, in cui piccoli collettivi di attori-operai dilettanti ritrovavano ed esibivano una recuperata identità etico-sociale le cui istanze e la cui prassi sembravano progettualmente contraddire e  negare l'idea di teatro della cultura. L'organizzazione rigidamente collettiva del lavoro creativo e produttivo, il disprezzo per la commercializzazione del prodotto, il dilettantismo dei membri, l'indifferenza nei confronti dei valori estetici erano infatti cardini fondamentali del progetto Apitprop.

Balazs non fu certo il solo intellettuale attratto dalla forza delle tensioni che se ne sprigionavano. Quando nel 1928 in un convegno decisivo per il loro sviluppo i gruppi riuniti nella Lega del teatro operaio tedesco (ATBD) votarono l'adeguamento alla linea comunista dell' Agitprop, molte furono le voci della cultura che si alzarono a chiarire finalità, stilare programmi e proporre linee d'azione: da Piscator a Becher, da Toller a Wangenheim, da Wolf a Eisler a Weinert alla Lask. Molti di costoro continuarono a seguire l'Agitprop o a collaborarvi, tenendolo sotto osservazione come campo di sperimentazione di tecniche semplici, inconsuete ed efficaci (interesse condiviso anche da Brecht), come possibile terreno di coltura di una nascente arte del proletariato, come fucina di nuovi attori più ‘sinceri’, ma il loro intervento di 'portatori di cultura’, se valeva a nobilitare e a dare credibilità artistica al movimento, lo deviava al tempo stesso e per le stesse ragioni verso la normalizzazione culturale, verso l'istituzione cui nelle intenzioni pareva sfuggire. Nasce principalmente così la persistente contraddizione tra l'ansia di rottura, di uscire dalle strutture accreditate per vivere una ritrovata identità di gruppo e di classe in una dimensione di portata utopica, e la spinta ordinatrice e restauratrice dell'eredità culturale filtrata con maggiore o minore consapevolezza dagli uomini-guida, che accompagna per la sua breve vita l'Agitprop senza possibilità di soluzione.

Assai diverso è l'atteggiamento con cui Balazs si accosta e aderisce al teatro Agitprop e che impronterà i suoi anni di direzione artistica dell'ATBD. Nel teatro operaio Balazs si inserisce come in un luogo 'altro’ del fare teatro in cui collocare la sua aspirazione a ‘fare arte’ come in un terreno vergine in cui mettere alla prova bisogni e passioni che gli appartenevano come esule sradicato, come poeta solitario e inquieto, come censore fideista in un mondo contenuto in toto nelle elastiche ma solidissime maglie di uno statuto culturale tanto deteriorato quanto incrollabile. E del teatro operaio Balazs vive e interpreta le istanze e le contraddizioni.

Nessun a1tro come lui ha saputo penetrare e trasmettere la tensione etica e la carica utopica ambiguamente sprigionata nel mondo weimariano dai numerosissimi piccoli gruppi di dilettanti proletari, in cui egli salutava infine la nascita tanto attesa di un teatro originario fondato realmente da e nel suo pubblico, dove vedeva rinnovarsi 1'antico principio dionisiaco. Fulcro e motore di questa auspicata rinascita teatrale, in cui cogliamo i frutti dei semi gettati nella Teoria del dramma e che si presta oggi a essere letta in trasparenza come progetto di una vera e propria utopia teatrale e politica al tempo stesso, è per Balazs l'attore-operaio, autore e interprete del suo teatro.

La fondamentale situazione di omogeneità di spettacolo e pubblico in cui agiva l'Agitprop e che si faceva tangibile nelle innumerevoli riunioni operaie in cui i gruppi si esibivano con i loro brevi e poliedrici programmi di propaganda, con i loro slogan e le loro canzoni di lotta, con la loro sprezzante satira della borghesia e la straripante vitalità delle loro certezze, alimentava adesioni ed entusiasmi e lasciava intravvedere il modello di un'utopica società socialista. Per Balazs l'attore-operaio, « legato con tutti i suoi nervi» alla vita del pubblico operaio di cui condivide bisogni e aspirazioni, incarna la « transustanziazione» dionisiaca come realtà fìsica e spirituale incontrovertibile. Il collettivo teatrale operaio pare così costituire il rispecchiamento ad alta concentrazione etica della più vasta società socialista omogenea e i contenuti e le forme del suo teatro sembrano nascere ‘necessariamente’ da questa intima unità. Balazs può dunque riconoscere un teatro in cui la « realtà presente» è finalmente ritrovata, poiché non esiste confine tra l'« adunanza » proletaria e il gruppo che teatralmente la rappresenta. L'attore-operaio permette la perfetta comunicazione del messaggio teatrale, realizzando un circuito comunicativo circolare e perfettamente richiuso su se stesso ( « aperto solo verso l'alto » ), che altro non è se non rivelazione e ostensione dell'omogeneità che lo genera e che per questo si carica di esemplare tensione etica. E in questo senso Balazs pare fare chiaramente e contemporaneamente uso, nella sua interpretazione del fenomeno Agitprop, dell'utopia di un teatro omogeneo e necessario a una società e dell'utopia della società omogenea e autocreativa che a questo teatro dà vita.

Ma anche al di là (o forse proprio in conseguenza?) di questa interpretazione globale affascinante, pur se evidentemente carica dei portati di una irrinunciata mitologia personale dell'arte, Balazs individua e pone con insolita e particolare prospettiva, spesso rivestendole di metafore suggestive e radicalizzanti, alcune delle questioni più sostanziali che l'esistenza dell'Agitprop sembra porre al teatro ‘della storia’. Proponiamo solo alcuni tra i  possibili esempi.

L'opposizione borghese ‘professionismo/dilettantismo’ riferita all'attore-operaio, che scatenò intorno al '30 polemiche all'interno dell'ATBD e provocò interventi censori degli ideologi comunisti nei confronti dell’attitudine dilettantistica dei gruppi (riflesso diretto dell'analoga campagna in corso nell'Unione Sovietica, che vedeva in prima linea l’influente RAPP, 1a Lega degli scrittori rivoluzionari russi), perde nei suoi interventi ogni pertinenza. Mentre la maggioranza degli intellettuali che dirigevano le scelte dell'Agitprop predicavano e programmavano la qualificazione artistica e il passaggio al professionismo per i gruppi operai (e Friedrich Wolf lo teorizzava trionfalmente come l'unico futuro auspicabile e già segnato), coerentemente alla loro ottica di artisti di professione incline a riconoscere valore solo a ciò che agisce nell'ambito rassicurante della istituzione culturale, Balazs esibiva e decantava il  ‘suo’ attore-operaio come esempio vivente del diritto e della necessità di rifiuto della delega in arte e come rivendicazione di una  nuova professionalità non più misurabile sui criteri e i canoni della cultura vigente, ma determinata e accreditata dalle reali circostanze comunicative. L'attore-operaio, afferma Balazs, non «recita» sulla scena, «è» semplicemente se stesso: le idee che comunica come attore gli appartengono come operaio e appartengono ugualmente al suo pubblico di operai. Che senso può avere dunque, si domanda, il termine «dilettante» per un attore che per sua natura è l'unico tramite concepibile della sola comunicazione teatrale possibile?

La questione dell'arte e dell'uso che il teatro operaio doveva farne vedeva all'interno dello stesso campo comunista schieramenti decisi e opposti. Da un versante del fronte, quello dei più radicali sostenitori di una funzione prettamente comunicativa e di un valore immediato d’uso dell'Agitprop, capeggiati dal gruppo forse più celebre e organizzato «Das rote Sprachrohr» (Il megafono rosso) e dal suo capo Maxim Vallentin, veniva un netto rifiuto ideologico ad assoggettare il proprio lavoro a principi estetici cui non si riconosceva quasi affatto valore nella attuale strategia di lotta. Dall'altro, quello che vedeva schierato il maggior numero di ideologi intellettuali aderenti alla Lega degli scrittori proletari rivoluzionari (BPRS), consorella e seguace della Rapp russa, Wangenheim e Wolf in testa, c'era la tendenza a considerare  l'Agitprop operaio soltanto come un primo, ancor grezzo momento iniziale dello sviluppo della « vera arte proletaria » e ad indirizzarlo quindi, soprattutto attraverso l'immissione nei suoi ranghi di ‘artisti’ di professione, verso quella qualificazione estetica che gli avrebbe permesso il salto di qualità.

La polemica, accesa a tutti i livelli, trova un'espressione esemplare nella primavera del 1930 sulla «Linkskurve», il periodico ideologico del BPRS. Alle rettifiche che Maxim Vallentin apporta a un suo precedente articolo, rimanipolato dalla redazione del giornale proprio nell'intento di mitigare asserzioni troppo radicali sul valore di lotta del teatro operaio indipendentemente da non pertinenti valenze estetiche (« ... la ‘drammaturgia razionale da Aristotele a Mehring’ non è e non può essere un criterio, l'unico criterio è ormai più il valore di lotta e, sebbene sia possibile definire l'arte come prodotto di agitazione e propaganda (ciò che non è giudizio di valore decisivo), con argomentazioni di critica artistica la critica proletaria rivoluzionaria può essere diretta su binari opportunistici...»), i redattori risentiti rispondono sarcasticamente («Se questa perequazione della lotta di classe con la sua espressione artistica e ideologicamente consapevole sulla scena fosse giusta, allora il compagno Val1entin dovrebbe semplicemente portare sulla scena una mitragliatrice. Il suo valore di lotta non si può mettere in dubbio ... Soltanto tendenza, valore di lotta, e niente arte. » )[7].

Nuovamente singolare e assai personale, densa com'è di ambiguità e contaminazioni culturali e semantiche, ma anche rivelatrice, ci appare la visione che Balazs ha del problema. Facendo proprio lo slogan lanciato per l'Agitprop da Friedrich Wolf egli sostiene che l'«arte è un'arma» di cui il proletariato deve necessariamente essere fornito nella lotta di classe: come ogni arma, anche l'arte si può imparare a usarla convenientemente. Quest'arte che Balazs rivendica al proletariato, svincolata dall'obbedienza a canoni e generi costituiti e rifondata dai bisogni espressivi e comunicativi di una nuova comunità, quest'arte che deve essere strumento di tutti, che sta nascendo ‘spontaneamente’ dalla espressione libera di un «popolo» nuovo, pare intenda sfuggire a ogni criterio classificatorio riconosciuto, fondando realmente una ipotesi di diversità progettuale, di  ‘alterità’ rispetto alla cultura dominante. Eppure, in questo sforzo di liberazione dagli schemi, implicitamente e contradditoriamente (una delle generose contraddizioni che punteggiano la teoria e la prassi Agitprop) il dato di fondo che mai vien messo in discussione è proprio l'inalienabile statuto culturale dell'arte.

Nell'atteggiamento di Balazs verso il teatro operaio è d'altra parte caratteristico l'intrecciarsi di posizioni utopiche o fideistiche radicalizzanti (ne fa prova il mito ricorrente dell’‘originarietà’ del processo creativo del proletariato) con momenti di profonda consapevolezza storica {ma di mai spenta combattività e fiducia) delle molte concrete difficoltà e pericolose ambiguità nella costruzione della nuova cultura del proletariato. La serie di «domande ingenue » sull'arte collettiva che rivolge nel '29 ai compagni del teatro operaio dalle pagine di «Arbeiterbiihne », ci offre un esempio di disincantata consapevolezza. Il lavoro creativo collettivo - e Balazs continua a chiamarlo arte - con cui il gruppo aspirava a fondere l'individuo nel collettivo, a eliminare il gioco gerarchico dei ruoli, a evitare ogni precisa specializzazione dei suoi membri, riappropriandosi insieme e comunitariamente dei mezzi di produzione, era un principio irrinunciabile dell'Agitprop, che esprimeva in esso la sua tensione utopica verso un modo nuovo di vivere, nel presente, una collettività sociale capace di abolire l'individualismo borghese, la divisione in classi e la parcellizzazione del lavoro. Ma nella prassi numerose erano le ambiguità rispetto al progetto e spesso la teoria doveva soggiacere alla necessità; cosi continuavano soprattutto ad esistere gli scrittori di professione - e Balazs era uno di essi - che lavoravano per il teatro operaio e a cui si lanciavano addirittura appelli per nuovi testi, e c'era spesso chi fungeva da regista e così via. Sono gli stessi problemi che avevano afflitto e affliggevano il teatro politico di Piscator, il cui decantato (ma quanto sostanziale?) ‘grande collettivo’ si attirò allora e in seguito non poche critiche. Balazs in questo caso non propone soluzioni e non esprime condanne, conosce bene l'inutilità delle teorizzazioni in campi in cui solo la prassi, la ricerca faticosa e quotidiana ha un peso reale: la risposta dell’Agitprop, una delle possibili risposte, prendeva forma ogni giorno nelle strade e nelle piazze. Con una sequenza di efficaci paradossi, in un gioco di ben calibrata ironia, smonta invece il mito dell'arte collettiva abbandonandone i pezzi sparsi, come in un rompicapo ancora irrisolto.

Ed è proprio attraverso l'ironia che, al di là della pura notazione stilistica, la misura dell'uomo Balazs assume più spessore e pregnanza. Insieme con la passione, che testimonia dell'intensità della sua adesione a una ideologia che non è teoria, ma prassi di vita e di lavoro, l’ironia infatti caratterizza e impronta lo stile del Balazs critico e teorico di quegli anni, permeando tutti gli scritti berlinesi. Un'ironia che non esce mai di misura, che non slitta mai nel sarcasmo o nella satira, che non è indizio di proterva superiorità, ma suona piuttosto come il modulo espressivo di una fondamentale e profonda diversità, di quel sentimento di separazione e solitudine che convive spesso con una compiuta pienezza interiore. Rispetto alla minuziosa e poetica,  ma meno estrosa, Teoria del dramma, pare che Balazs in questi anni pieni e maturi abbia imparato ad usare la scrittura, coerentemente, come un’arma.

Il significato del teatro operaio e del Teatro nella visione di Balazs (e assai più oltre il senso del porsi dell'uomo e dell'intellettuale Balazs nei confronti del vivere) ci si rivela con la maggiore chiarezza nel momcnto del ricordo, in uno scritto che risale a pochi mesi prima della morte dell'autore. Teatro per le strade, ultimo testo di questa raccolta, apparve infatti in Germania nel 1949 in un volume curato dal famoso critico Herbert Jhering, un ‘almanacco’ sul teatro nel mondo, rappresenta singolarmente uno dei rarissimi interventi sul teatro operaio di Weimar in un periodo di totale e voluta dimenticanza, quasi una asportazione dal tessuto teatrale, che va dall'avvento del nazismo all'inizio degli anni Sessanta, quando fu ‘riscoperto’ all'Est. Qui si ha la piena misura del valore che Balazs attribuiva al lavoro teatrale come prassi di vita, come vissuto personale e sociale inalienabile, e la qualità dello sguardo che egli rivolge al proprio passato sollecita la riflessione per 1a sua attualità.

 

Ricordo eventi ed esperienze. E con questo e la cosa comincia già a farsi problematica.

Se io oggi, come si suol dire, « vedo le cose diversamente», significa chc le cose, in quanto oggetti immutabili, si scindono dalla visione oggettivamente variabile. Con l'andare del tempo nel ricordo l'evento si è separato dall'esperienza che ha provocato in me. Nella prospettiva dello sguardo retrospettivo vedo le due cose separate. Però questo non deve avvenire nell'arte, perché e una spec1e di processo di disgregazione, una specie di putrefazione, lo scindersi gli uni dagli altri degli elementi chimici: è corrompere qualcosa. Riferire oggettivamente gli eventi è compito dello storiografo. Ma l'impressione che fecero allora su di me, il significato che io gli attribuii allora, sl, l'esperienza vera  e propria, si è trasformata nel mio ricordo col tempo. Si è andati avanti, si è progrediti. Nella prospettiva dello sguardo retrospettivo si trasforma anche l'immagine del panorama della vita, e in primo luogo l’immagine di vecchie esperienze. Come, sarebbe semplice raccontare in modo critico-ironico con la supenorità di chi è ormai smaliziato! Sarebbe infedeltà umana e artistica, perché, come ogni vero amore, qual è stato, anch'esso aveva, indipendentemente dal valore e dalla consistenza dell'oggetto, di per sé un valore, una luce propria. Ed essa splende di nuovo nella profondità del ricordo e arde in modo grottesco e commovente attraverso le immagini posteriori della memoria che vi si sono stratificate sopra da prospettive più tarde, successive, più chiare.

Chi non ama più, può facilmente ricostruire il suo antico sentimento dal ricordo. Ma chi non ha cessato di amare (il cui sentimento si è tuttavia trasformato), deve rimuovere prudentemente, come fossero un velo alle vecchie esperienze, nuove cognizioni e migliore comprensione, per ritrovarsi. Questo rimane compito di un romanzo biografico.  Io non ho cessato di amare».

 

Questa premessa va letta come una vera e propria dichiarazione di principio. In sua assenza il racconto suggestivo, disorganico e quasi casuale di ricordi nettamente autobiografici che costituisce il tessuto dell'articolo, apparirebbe facilmente retorico, rischiando la lettura in chiave puramente celebrativa o quella rispettosamente indulgente riservata al ‘quand'ero giovane...’ degli anziani, soprattutto se famosi. E il rischio (il rischio paventato da Benjamin per lo storico di guardare il passato con gli occhi dei vincitori) è tanto più incombente, se si considera che fino ad oggi da questo scritto di Balazs - uno dei due ripubblicati e quindi abbastanza conosciuto dagli esperti - gli studiosi si sono sempre limitati a estrapolare unicamente l'appassionata descrizione-elogio del teatro operaio « Ci fu però un teatro in quegli anni in Germania... », per fregiarne i frontespizi delle loro esegesi, commettendo una violenza ideologica determinante. Priva dei suoi riferimenti contestuali e posta in testa a saggi che sistematizzano l'Agitprop come il glorioso momento iniziale di un ben ordinato sviluppo del teatro socialista o come un abortito tentativo di rivoluzione politica, la frase, pur suonando sincera, pare traboccare di inutile e quasi macabra retorica. Un significato ben più profondo essa assume invece alla luce del citato rifiuto di Balazs della facile tentazione di una storicizzazione critica totalmente estranea ai valori del vissuto, ai valori del suo ‘fare teatro’ come modo di vivere il proprio ‘esserci’ individuale e storico, e l'apparente retorica si trasforma in vibrante tensione etica e politica. E questa visione del teatro ‘dalla parte di chi lo fa’, del teatro come ‘fare’, esporsi in prima persona in un'azione che è espressione di vita, si conferma ancora una volta nella scelta degli episodi da raccontare.

Non è un caso che, dovendo parlare dell'Agitprop, Balazs non scelga ad esempio di ricordare la sua attività di scrittore di drammi proletari o il grande congresso del '28 in cui  vide prevalere idee che erano anche sue e in cui fu eletto direttore artistco dell’ATBD o ancora eventi come le trionfali Olimpadi del teatro operaio dei primi anni Trenta, in cui centinaia di gruppi si alternarono sui palchi per intere giornate in una gara entusiasmante.

Eppure i suoi drammi Agitprop avevano avuto ottima eco e la sua fiaba teatrale per ragazzi Hans Urian va in cerca di pane aveva addirittura scatenato una corsa all'imitazione persino in campo borghese. E le grandi adunate organizzate dalla Lega del teatro Operaio sarebbero state insuperabile argomento per chi avesse voluto innalzare un peana all'Agitprop. Balazs sceglie invece di parlare di piccoli eventi, del lavoro nascosto e silenzioso di ogni giorno, d1 azioni di teatro che sfumano e si mimetizzano nella vita, indistinguibili da essa.

La clandestinità fu imposta al teatro operaio da leggi restrittive che già nel '29 limitarono le sue possibilità d'azione e nel ‘31 lo dichiararono addirittura fuori legge. In questo tormentato periodo le compagnie più forti, quelle che potevano contare sull'apporto di scrittori di professione la cui fama garantiva una certa immunità, fecero il passo decisivo verso il professionismo e riuscirono cosi a rimanere in vita fino ai primi mesi del 1933, quando ogni voce di sinistra fu definitivamente spenta. Gli altri gruppi, a volte costretti dalle circostanze, a volta per scelta consapevole (ed è il caso anche de « Gli eretici » di Balazs) scelsero la clandestinità e misero in atto vere e proprie forme di guerriglia teatrale rapida, decisa e inafferrabile. Questi interventi di strada, diretti e provocatori, non conservavano ormai più nulla delle forme istituzionalizzate del teatro, si facevano pura comunicazione strettamente dipendente dalle circostanze immediate. I passanti delle vie del centro dove un finto (ma assai spesso vero, in realtà) disoccupato fingeva di svenire, attirando un capannello e suscitando discussioni amare o gli spettatori di innocui spettacoli filodrammatici di periferia ironicamente e violentemente contestati da attori-operai infiltrati fra di loro, venivano loro malgrado coinvolti nel gioco, facendosi inconsapevolmente attori di un'azione ‘teatrale’ del tutto nuova e spontanea. Un ‘teatro’ che per poter assumere questo nome ha preteso ancor oggi un allargamento semantico del termine e di conseguenza una revisione della ideologia che gli era sottesa.

Coerentemente, e diversamente da quanto faranno in seguito tanti protagonisti di quei giorni, è questo lavoro oscuro e senza gloria il teatro che Balazs ricorda come l'esperienza «la più profonda, la più pura, la più sana», come quel teatro che «voleva cambiare il mondo», e la sua orgogliosa commozione è l'ultimo riconoscimento di quel generoso slancio utopico che sostanziava nel teatro una diversa qualità della vita.

 

[1] Per la bibliografia cronologica delle opere di Balazs vedi p, 115.

[2] G. Lukacs, Balazs Bé/a és tJkiknek nem keJl, Gyoma, Kner I., 1918.

[3] Un contributo originale alla conoscenza di Balazs in veste di critico cinematografico è offerto dalla tesi di laurea di Attila Lang, B. Balazs a/s Filmkritiker und Filmasthetiker (B. Balazs come critico ed esteta del film), discussa all'Institut fur Theaterwissenschaft e reperibile alla Nationalbibliothek di quella città, in cui sono schedate e studiate tutte le critiche apparse su « Der Tag ».

[4] Madame wunscht keine Kinder (La.signora non vuole bambini), 1926; Die Abenteuer eines Zehnmarkscbeines (Le avventure di una banconota da 10 marchi), 1926; 1 + 1 = 3, 1927; Narkose (Narcosi), 1929; Die Dreigroschenoper (L'opera da tre soldi), 1931; Der blaue Licht (La luce blu), 1932.

[5] Cfr. il catalogo ragionato: DORA CSANAK, Der handschriftlicher Nachlass von Béla Balazs in der Bibliothek Der Ungariscben Akademie der Wissenschaft (Il lascito di manoscritti di Béla Balazs nella biblioteca dell’Accademia ungherese delle scienze), Budapest, Ung. Akad. d. Wiss., 1966.

[6]  Sulla storia e sulle vicende del teatro operaio tedesco si veda in italiano: G. BUONFINO, Agitprop e controcultura operaia nella repubblica di Weimar, « Primo Maggio», n. 3/4, febbr.-sett. 1974 e E. CASINl ROPA, Il teatro Agitprop tedesco nella repubblica di Weimar, in: A. LACIS, Professione: rivoluzionaria, Milano, Feltrinelli, 1976.

[7] La polemica Vallentin/Lihkskurve è tradotta in: F. CRUCIANI, Sul teatro di agitazione e propaganda, « Biblioteca Teatrale», n. 21/22, dicembre 1978.

 

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