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Autrice

Eugenia Casini Ropa

AGITPROP E UTOPIA

Articolo in AA.VV., Cultura e cinema nella Repubblica di Weimar, Venezia, Marsilio Editori, 1978, pp- 117-125

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Inviato il 26/11/2021




In nessun campo dell’arte è tanto evidente l’efficacia propagandistica agitatoria come nell’arte scenica. Il teatro è il mezzo di propaganda più efficace della classe e dello strato sociale che del teatro può disporre (Frida Rubiner)

Nessun altro può essere il compito del teatro operaio se non propaganda e ancora propaganda per l’idea del socialismo, per la soppressione della società classista e l’edificazione di una nuova comunità mondiale realmente umana (Erwin Piscator)

…se accanto a prodigi d’acciaio e di cemento milioni di proletari vivono nel buio! Voi avete in mano la soluzione: abbattete il muro del vostro silenzio! Esigete la vostra vita, i vostri spettacoli, creali tu stesso, proletario! L’arte è un’arma! (Friedrich Wolf[1].

 

Con tali certezze di partenza, e più chiaramente espresse e più volte ribadite nel fascicolo programmatico Das Arbeiter Theater, il teatro operaio tedesco imbocca nel 1928 al suo X Congresso la strada dell’Agitprop. L’idea di “cambiare il mondo “ anche attraverso il teatro conquista i gruppi dilettanti operai, la cui tradizione si innestava in quella dei circoli culturali dei lavoratori della socialdemocrazia tra i due secoli, nel momento in cui la leadership della loro associazione, l’ATBD (Arbeiter-Theater-Bund-Deutschland, Lega del teatro operaio di Germania) è conquistata dalla componente comunista, seguace della campagna di agitazione e propaganda della KPD: Da questo momento l’attore-operaio, finora semiignorato dilettante delle “serate culturali” dei circoli di periferia, è fatto assurgere a fulvcro e motore di un’azione politica e culturale che si presta a essere letta in trasparenza come progetto di una vera e propria utopia teatrale e politica al tempo stesso, fondata sulla omogeneità di pubblico e spettacolo.

La fiducia nel teatro come insuperabile mezzo di agitazione e propaganda, nell’arte scenica come arma che il proletariato deve imparare a maneggiare in prima persona, rifiutando recisamente e totalmente la strumentalizzazione commerciale e ideologica della scena borghese, spinge nella seconda metà degli anni venti migliaia di giovani lavoratori a unirsi in piccoli gruppi, le Agitproptruppen, che occupano la scena come la prima linea di una battaglia.

Da un’ottica teatrale, una delle tante possibili da cui guardare a questo fenomeno problematico e multiforme, ricordiamone brevemente le caratteristiche.

Generalmente inesperti ma versatili i gruppi Agitprop suppliscono spesso con la vivacità e l’entusiasmo alla mancanza d’esperienza specifica. La loro organizzazione interna è strettamente collettiva e autosufficiente. Anche il lavoro è collettivo e se esiste un capo riconosciuto, spesso tende ad avere soltanto funzione di riferimento: i testi si scrivono insieme, come insieme si costruiscono gli accessori scenici e si organizza l’intera rappresentazione. Tendenzialmente non si favoriscono specializzazioni: i compiti si ripartiscono a seconda delle esigenze immediate. Le forme abituali del teatro operaio sono il giornale vivente di origine sovietica, la rivista satirica, il montaggio documentario, la scena breve di tipo didascalico; da un repertorio limitato di pezzi nascono rapidamente combinazioni diverse. , Le forme sono sostanzialmente agili e polivalenti, semplici da elaborare e da gestire in modo artigianale, intercambiabili e facilmente adattabili ad ambienti e circostanze diverse. In esse alle parti recitate si alternano canti, musiche, proiezioni, numeri acrobatici e clowneschi, pantomime, azioni con sagome e pupazzi; finale di prammatica è il canto collettivo dell’Internazionale.

Le azioni sceniche sono di preferenza strutturate su “tipi fissi” che simbolizzano categorie sociali, stati, partiti politici con nette caratterizzazioni positive o negative. I testi mirano alla chiarezza e all’efficacia: le battute brevi e della massima semplicità sintattica e lessicale si succedono con scansione ritmica accentuata, per facilitarne la comprensione in ogni possibile situazione ambientale. I loro contenuti sono le parole d’ordine del partito: riflessione sulla condizione del proletariato, lotta al capitalismo e alla socialdemocrazia, alla chiesa e al fascismo. In occasione di scioperi, manifestazioni, campagne elettorali, festività si allestiscono con la massima rapidità spettacoli ad hoc, modificando canovacci preesistenti con inserti di attualitò. Lo strumento preferito è in prevalenza la satira, accompagnata da canti rivoluzionari, slogan politici scanditi a più voci, grida di incitamento alla lotta tendenti a un impatto emotivo immediato e travolgente.

La “messa in scena” è di necessità semplice e schematica. La tuta blu da lavoro è la tenuta di base dell’attore eperaio; pochi elementi simbolicia colori vivaci bastano a indicare il ruolo sostenuto. La scenografia è pressoché inesistente; a volte un telo colorato o un cartellone con scritte propagandistiche e disegni satirici creano lo sfondo, più spesso si agisce su una pedana nuda o un rialzo del terreno. Pochi oggetti scenici generalmente stilizzati e usati come simboli; molti strumenti musicali suonati a turno un po’ da tutti. L’equipaggiamento del gruppo è ridotto al minimo tanto per esigenze economiche quanto per consentire rapidità e agevolezza nello spostamento. La “recitazione” è ben lontana da ogni forma di naturalismo. L’assenza del “personaggio” come singolo individuo abolisce la psicologizzazione. La dizione è scandita, enfatica caricata, tesa all’effetto persuasivo: gesti e movimenti, altrettanto amplificati e insistiti, sottolineano la parola per aumentarne l’efficaciaIl pubblico del teatro rivoluzionario operaio è il proletariato, la classe dei lavoratori, e alla ricerca del suo pubblico il teatro si sposta velocemente e fortunosamente, con ogni mezzo a sua disposizione: Gli ambienti dell’Agitprop sono quelli della vita proletaria: birrerie e sale di ritrovo periferiche, cortili strade e piazze. Fabbriche e aie di campagna, solo raramente e occasionalmente i teatri.

Nel complesso dunque, volendo usare categorie di riferimento teatrali, ci si trova di fronte a un teatro satirico-didascalico di marcata tendenza politica, la cui drammaturgia è attenta assai più alle leggi della comunicazione che a quelle del teatro, elaborato e gestito in forma autonoma da dilettanti.

Da questo punto di vista non meraviglia l’episodio che riferisce Bela Balazs, direttore artistico dell’ATBD:

Qualche settimana fa un gruppo di attori-operai ha dato uno spettacolo come ospite in un importante teatro dell’ovest di berlino. La stampa borghese ha giudicati i “volonterosuìi dilettanti” xcon grande benevolenza. Ha disapprovato è vero l’appariscente tendenza politica perché andava a scapito della perfezione artistica, tuttavia ha riconosciuto la edizione appassionata di “questa gente” alla su aidea. In dieci righe la questione è stata sistemata. “Inadeguato dilettantismo”.[2]

Eppure questo è anche quel teatro operaio che fa parlare lo stesso Balazs di “un teatro di lotta … che un giorno i bambini tedeschi studieranno nelle scuole”. Erwin Piscator di “un nuovo inizio del teatro”, un noto regista borghese dell’epoca di “teatro della generazione futura: un teatro senza sentimentalismo, un palcoscenico di attori senza nome, il teatro di una grande idea”. Si rivela qui come agli statuti del eatro usati come criterio di giudizio si sostituisca il riconoscimento della tensione utopica espressa dal teatro operaio, che si sprigiona contraddittoriamente proprio dall’elemento teatralmente più debole, il vilipeso attore proletario dilettante.

Sveglia! Noi non vi offriamo un tranquillante, noi mettiamo la vostra vita sotto il raggio dei riflettori, perché finalmente voi la vediate e il vostro volto si irrigidisca: l’arte non è fumo o cultura da guardare a bocca aperta… L’arte è un’arma! (Friedrich Wolf)

Il problema del dilettantismo dell’attore operaio perde ogni pertinenza: le armi non si cedono. In nessun caso ilproletariato deve abdicare alla possibilità e sottrarsi al dovere di esprimersi in prima persona: il perpetuare lo statuto borghese della “delega” all’artista, al professionista, nell’ottica della lotta di classe significa cedere un’arma preziosa ed efficace a “soldati di professione”, che possono essere arruolati oggi qua e domani là.

L’arte rivoluzionaria è una forma della coscienza di classe proletaria. Se i lavoratori portano sulla scena la propria vita, i problemi e gli scopi della lotta e se stessi, riflettono su se stessi. E’ un processo collettivo e pubblico di coscientizzazione del proletariato. (Bela Balazs)

Se il fine del teatro Agitprop è questa presa di coscienza del proletariato è chiaro allora che “l’attore-operaio proprio perché non è nessuno, perché con tutti inervi resta legato alla vita operaia” è il miglior veicolo – anzi addirittura l’unico adeguato – per la trasmissione dei contenuti da comunicare. E’ il mezzo che permette la perfetta comunicazione del messaggio. Per suo tramite si realizza infatti quel fenomeno di “omogeneità” tra spettacolo e pubblico che pare costituire per i teorici contemporanei del teatro operaio la discriminazione fondamentale dal teatro borghese. L’elemento che fonda l’originalità artistica e la forza etica dell’Agitprop.

Così lo stile Agitprop divenne un’espressione artistica di tipo particolare che si fondava sull’identità di attori e spettatori, tra messaggio ed effetto. La fatale frattura esistente nel teatro borghese tra l’attore professionista e il suo spettatore, e ancor più la frattura tra quel che viene recitato e udito e quel che frattanto, in base a una simile contraddizione sociale, viene pensato e percepito sia dall’attore che dallo spettatore, qui, nel teatro rivoluzionario dei dilettanti, questa frattura veniva finalmente eliminata. Quel che gli operai recitavano lo pensavano anche, e le loro convinzioni coincidevano con quelle del loro uditorio. (Inge von Wangenheim)[3]

L’attore proletario non “recita sulla scena, “è” semplicemente se stesso;le idee che comunica come attore gli appartengono come operaio e appartengono ugualmente al suo pubblico di operai. Il suo “essere” proletario e il suo “esporsi” in quanto tale, pare usare al tempo stesso l’utopia di un teatro omogeneo e necessario a una società e l’utopia della società omogenea e autocreativa che a questo teatro dà vita.

Come in un gioco di specchi la grande immagine utopica della società socialista e quella piccola del teatro proletario rimandano di continuo l’una all’altra. Così avviene ad esempio per il mito del “collettivo” Agitprop.

… i gruppi Agitprop hanno rotto con la specializzazione borghese: attore, regista, tecnico e così via; hanno riconosciuto la contraddizione tra una tale specializzazione e il lavoro collettivo, l’organicità del gruppo, il contenuto di classe. Testo, drammaturgia, regia ecc., non sono nient’altro che elementi del lavoro comune. Il collettivo è il loro portatore (Maxim Vallentin)[4]. Il teatro operaio come creazione colletiva è la strada che porta al futuro (Frida Rubiner).

Come espressione della tensione utopica verso una collettività sociale che abolisca l’individualismo borghese, la divisione in classi e la parcellizzazione del lavoro, il gruppo teatrale proletario aspira a fondere l’individuo nel collettivo, a eliminare il gioco gerarchico dei ruoli, a evitare ogni precisa specializzazione dei suoi membri e insieme intende a riappropriarsi dei mezzi di produzione.

In questa condizione di rispecchiamento la comunicazione teatrale si fa tautologica:

Qui non ci sono effetti casuali. L’unico effetto possibile aspetta già ed esige la sua precisa causa … questo pubblico è esattamente informato (Bela Balazs). Poteva nascere così uno stile del “simbolo conciso”, uno stile del “già capito” (Inge von Wangenheim).

Al di là dei singoli contenuti occasionali,  l’unico l’unico profondo e costante messaggio del teatro operaio è quello altamente politico e morale che si sprigiona dal collettivo proletario, dalla sua scelta di vita e di lavoro.

Derivando l’efficacia e il valore del teatro Agitprop da ciò che l’attore “è”, è facile pensare che come da questa sua “essenza” provengono i contenuti del teatro, alterettanto necessariamente ne provengano anche le forme.

Liberati dall’influenza ostacolante della drammaturgia di intrattenimento piccolo borghese praticata dal teatro classista dei professionisti, gli attori operai individuarono ben presto il loro compito specifico: esprimersi autonomamente, render conto della vita con linguaggio proprio, pensiero proprio e propriainiziativa artistica e rappresentarla alle assemblee dei lavoratori (Inge von Wangenhein).

Le forme che il teatro operaio viene via via elaborando sembrano dunque corrispondere intimamente ai fini dell’agitazione e propaganda comunista, ai problemi della vita proletaria, alle tappe della lotta di classe.

… le forme proletaro-rivoluzionarie dei nostri gruppi Agitprop derivano dal contenuto della lotta di classe proletario-rivoluzionaria, come dalla destinazione e dal materiale disponibile deriva la forma della macchina… 8Maxim Vallentin).

L’”arte” è messa così fuori causa. I criteri di elaborazione dell’Agitprop sono improntati fondamentalmente al “valore d’uso” dell’oggetto, alla sua efficacia politica; la valenza estetica, la qualificazione artistica sono concetti decisamente seconfdari. Si provolegia il teatro-comunicazione rispetto al teatro-arte.

Il circuito comunicativo pressoché perfetto,  la rassicurante ed esaltante comunicazione del “già capito” sembrano dunque fondare necessariamente le forme di un teatro nuovo, diverso da ogni altro perch* unico atto a dar corpo ai nuovi contenuti dela vita proletaria.

Se però le forme del teatro operaio erano certamente adeguate alle necessità operative dei gruppi: povertò di mezzi e di tempo disponibili, inesperienza drammaturgica, esigenza di mobilità, tanto da modellarsi in uno “stile semplice” di cui Brecht riconosceva la spoglia efficacia, soltanto il particolare impatto emotivo provocato nel pubblico operaio poteva far credere che non potessero veicolare altri contenuti.La realtà dimostra come le stesse forme venissero usate con altrettanta efficacia da gruppi legati a diverse ideologie: la SPD possedeva un consistente movimento di tipo Agitprop e persino i nazionalsocialisti si servivano di analoghe forme teatrali. Nell’Agitprop comunista la forte identificazione teatro-vita si esplica in un circuito di comunicazione  in ci la fonte (l’attore-operaio) si fa messaggio (il riconoscimento della comune condizione proletaria). La concezione circolare della comunicazione nel teatro proletario inserito all’interno della più vasta sfera della società socialista omogenea, nel rivendicare come momento coagulante la figura dell’attore-operaio, valorizza la scelta del singolo, il percorso individuale che rispecchia e riflette la tensione utopica e ha  proprio in questa tensione il suo punto di forza: nella volontà comune cioè di spezzare la tradizione del teatro e della società, di vivere nel presente l’utopia del futuro, di sentirsi diversi e autosufficienti.

Ma in questa stessa volontà di autosufficienza, nello sforzo limitante dell’autoproduzione e dell’autofruizione, è radicata anche un’intrinseca debolezza. L’operazione “controculturale” che tende al rifiuto delle forme culturali dominanti e all’isolamento dalle strutture esistenti di produzione e fruizione è di per sé contraddittoria. L’ambivalenza del dibattito all’interno della cultura proletaria e gli esiti finali dell’Agitprop, come del resto la lettura in chiave evolutiva che gli studiosi della Germania orientale hanno dato del fenomeno Agitprop, dal semplice al complesso, dalle forme brevi al dramma proletario, dal dilettantismo al professionismo, dalla propaganda all’arte, dal teatro Agitprop al Teatro, lo confermano.

L’adeguamento delle forme del teatro alle esigenze della lotta è la parola d’ordine che porta il teatro operaio alla collaborazione con i professionisti, alla qualificazione artistica.

L’esigenza di spettacoli artisticamente pregevoli non era un’astratta soluzione estetica, ma nasceva dalle necessità quotidiane della lotta di classe. Dovendo portare la propaganda tra strati sociali con i quali la comunicazione era difficile, era indispensabile rispecchiare la realtà il più fedelmente possibile (Asja Lacis)[5]

E’ anche il livello non utopico, il livello organizzativo che deve fare necessariamente i conti con la realtà.

\Le forme dell’ultimo periodo di clandestinità del teatro operaio che vedono convivere opere di ampio respiro messe in scena da complessi ormai professionalizzati in autentici teatri e azione di strada, provocazioni imprevedibili e repentine, derivano ugualmente dalla accettazione delle leggi della cultura e della politica dominanti. Il rientro nell’istituzione e la fuga nella guerriglia ideologica viste comunemente come soluzioni strategiche per permettere comunque l’azione anche nell’illegalità, sono ugualmente leggibili come fallimento dell’idea utopica di omogeneità che pareva informare l’attività del teatro rivoluzionario: riconoscimento delle leggi di produzione teatrale che prevedono una fruizione indifferenziata e come tale sottoposta a canoni estetici e a canali istituzionalizzati, riconoscimento della divisione in classi della società esistente al cui cambiamento non giova la chiusura nel mito della propria autocreativa diversità.

Altre generose ambiguitò di fondo problematizzano la lettura del fenomeno teatrale Agitprop, la volontà e la convinzione di creare forme teatrali nuove, di dar vita a un teatro miticamente originario, di inventare un’arte popolare le cui radici affondino unicamente nei valori più intimi del proletariato, sono inquinate alla sorgente dalla presenza in filigrana di quegli stessi valori che intendono contrastare. Le categorie del teatro, dell’arte, della cultura, ben vive nella mente degli intellettuali alla guida del teatro operaio o aderenti alla Lega degli scrittori proletari rivoluzionari, guidano l’attore-operaio al rientro negli statuti del teatro, dove il suo “professionismo” nella vita della classe e nella militanza politica non è più sufficiente e diventa indispensabile il “mestiere”, il professionismo artistico.

L’uguaglianza arte/arma che pareva cambiare la sostanza dell’arte ne modifica in realtà soltanto le condizioni d’uso e contiene in sé il proprio inevitabile destino. E Balazs stesso riconosce che “una cattiva arte  è un’arma inutilizzabile e e chi ne rifornisce il proletariato in lotta lo danneggia. Una cattiva arte è quindi, anche se involontariamente, controrivoluzionaria”.

“Me-ti chiamava la migliore specie di conoscenza quella che assomiglia alle palle di neve. Queste possono essere buone armi, ma non le si può conservare a lungo. Per esempio non si conservano a lungo neppure in tasca”.

 

Da. AA.VV., Cultura e cinema nella Repubblica di Weimar, Venezia, Marsilio Editori, 1978, pp- 117-125-

 

[1]Queste e le seguenti citazioni degli stessi autori sono tratte da Das Arbeiter-Theater, Neue Wege und Aufgaben proletarischer Buhnen-Propaganda, Berlin, DAThB, 1928. In particolare: F. Rubiner, Arbeitertheater im Klassenkampf, pp. 9 ss.; E. Piscator, Uber die Aufgaben der Arbeiterbuhne, p. 3; F. Wolf, Kunst ist Waffe!, pp. 4 ss.

 

[3] I. vov Wangenheim, Mein Haus Vaterland. Erinnerung einer jungen Frau, Berlin, Tribune Verlag, 1959, riportato in L. Hoffmann e D. Hoffmann-Ostwald, Deutsches Arbeitertheater, cit.

[4] Le citazioni di Maxim Vallentin sono tratte da Agitpropspiel und Kampfwert, in “Linkskurve”, n. 4, aprile 1930.

[5] A. Lacis, Professione: rivoluzionaria, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 159.

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