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Istruita dalle immani catastrofi del Novecento l'umanità si avvia a darsi un ordine sempre più condiviso, centrato sul valore supremo del pieno sviluppo di ogni singola persona sulla Terra. Purtroppo la realtà corrisponde solo in parte alla giustizia delle norme.
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PERIODICI

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Autore

Luigi Lombardi Vallauri

ABITARE PLEROMATICAMENTE LA TERRA

Introduzione al volume "IL MERITEVOLE DI TUTELA".

pp. V - XCVIII

da AA.VV., IL MERITEVOLE DI TUTELA, Studi per una ricerca coordinata da Luigi Lombardi Vallauri, editore Giuffré, 1990, pp. 1090.

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Inviato il 27/01/2021




 

(*) PIERO RAINA, in Le valli cuneesi e valdesi, «Guide d'Italia», Fabbri, Milano 1988, 7.

 

 


1. PRESENTAZIONE GENERALE DELLA RICERCA.

OGGETTO, CRITERI, LIMITI, TIPI DI INTERVENTO.

L'IDEALE REGOLATIVO DEL "PLEROMA". VALORE E SOGGETTIVITA'

 

            Non certo per i suoi conseguimenti, ma per i problemi affrontati questa ricerca è di importanza temerariamente fondamentale. Essa infatti si chiede cosa sia meritevole di tutela (giuridica, politico-giuridica) alle soglie del prossimo millennio, ovvero - per definire la situazione in termini meno puramente cronologici - alle soglie di un periodo storico segnato dal «trionfo» planetario della scienza-tecnica-economia occidentale, dalla sua crisi, dalla conseguente necessaria planetarizzazione, ecumenicizzazione delle politiche di tutela. È appena meno che chiedersi cosa deve fare l'umanità nel momento in cui sembra poter fare quasi tutto purché lo faccia tutta insieme. Domanda un po' megalomane; ma sapevamo fin dall'inizio che il nostro rispondere sarebbe stato piccolo quanto noi, gruppo - possiamo dirlo - di amici, affiatato e legittimato, non meno che dalle qualificazioni professionali, da consuetudine di lavoro e di affetti. Consuetudine ulteriormente propiziata, sul piano logistico, da un contributo CNR per il quale qui ufficialmente si ringrazia. Nel nostro intento l'opera, pur voluminosa, non vuol essere che un innesco, una prima prospettazione capace di avviare processi di pensiero ben altrimenti considerevofi sullo stesso tema globale nella koiné anzitutto degli studiosi (filosofi, forse teologi, certo giuristi, politologi, economisti), poi - se si benigneranno - dei decidenti reali, politici ed economici, almeno a livello europeo.

          Illustro qui, riassumendo i verbali delle riunioni del gruppo, le scelte compiute per definire la strategia della ricerca.

            Occorreva anzitutto delimitare a ragion veduta il campo dei possibili oggetti di tutela. Di per sé, il problema del meritevole di tutela è infatti tutt'uno col problema giuridico o politico-giuridico: è meritevole di tutela, ad esempio, qualunque volontà negoziale. Abbiamo quindi deciso di scorporare dalla ricerca sia gli atti o comportamenti (trattati dalla dogmatica classica), sia i ruoli (trattati dalla sociologia giuridica), sia le «dimensioni di sviluppo della persona» (sicurezza, sapienza, amicizia, fantasia, sessualità e affettività, salute e benessere fisico, creatività...). Ci siamo concentrati su entità sussistenti (anche) nel mondo esterno, nel mondo 1 popperiano, aristotelicamente su «sostanze» o insiemi di «sostanze», oppure su precise aggettivazioni dell'attività umana, distinguibili comunque da essa. Si trattava di stabilire i criteri in base ai quali individuare le entità meritevoli di tutela rispetto a quelle non meritevoli di tutela.

           È risultato abbastanza presto che i criteri in questione si collocano tra i due poli del valore e della soggettività, andando dalle entità dotate di valore ma non di soggettività (l'Amazzonia, la Gioconda) a quelle dotate di soggettività ma non di valore (il cane randagio bastardo, l'uomo malvagio), passando per tutta una gamma intermedia di figure dubbie (hanno certi animali la soggettività?) o miste (caso del lupo appenninico, da tutelare contro la minaccia genetica costituita dai cani randagi in base al suo valore ecologico di animale bello e in via di estinzione, e contro ogni trattamento crudele, insieme con i cani randagi, in base alla soggettività). Le entità meritevoli di tutela venivano così a disporsi tra i due poli delle cose (utili o belle) e delle persone (anche non utili o buone o belle).

          Ancora: occorreva per noi che il (maggiore o minore) valore, la (maggiore o minore) soggettività appartenessero loro intrinsecamente, «in sé», non in virtù di un conferimento convenzionale dall'esterno, segnatamente da parte di un ordinamento giuridico positivo o di un privato. Il diritto può conferire valore a dei pezzi di carta e soggettività a delle corporazioni senza-autocoscienza; il privato può attribuire un valore estetico o affettivo struggente a qualsiasi cosa, un valore sacro a immagini o simboli di culto. Il nostro approccio voleva essere invece metapositivo e oggettivo. Non intendevamo fare l'inventario delle entità cui uno o più ordinamenti, uno o più privati attribuissero di fatto valore o soggettività, ma l'inventario delle entità cui è doveroso riconoscerli perché realmente li «possiedono».

            La ricerca è stata poi ulteriormente limitata alle entità il cui valore, la cui soggettività, la cui tutela in base al valore o alla soggettività ponessero problemi. Abbiamo escluso il non-problematico.

Così, per quanto riguarda la soggettività, sembra non-problematico che essa appartenga «in sé» all'uomo adulto capace d'intendere e di volere e non appartenga «in sé» alla persona giuridica, la cui soggettività (con buona pace di Gierke e dei suoi seguaci) è pura mente ascrittica. Ecco quiridi uscire dalla ricerca sia l'uomo adulto, sia lo Stato, gli altri enti territoriali pubblici; le associazioni, le fondazioni, le società pur eventualmente dotate di personalità giuridica.

           Abbiamo anche deciso di preferire, salvo eccezioni, le problematicità emergenti: Questo criterio serve a escludere i problemi magari non definitivamente risolti, ma già molto dibattuti se non addirittura secolari. Volevamo una ricerca su oggetti (e problemi) di tutela moderni, modernissimi, semi-futuribili.

         E perciò, preferibilmente (anche se non esclusivamente), su oggetti e problem originati o evidenziati proprio dalla modernizzazione, ossia dai processi materiali e sociali dell'innovazione scientifico-tecnologica-economica tipicamente occidentale negli ultimi tre secoli, ivi comprese le ideologie concomitanti, lo scientism tecnologico, il riduzionismo fisicalista. La scienza-tecnica-economia moderna sembra consentire il completo dominio dell'uomo sulla natura, anzi sull'essere, ridotto a materia-energia e informazione-organizzazione. Essa quindi da un lato suscita entità nuove, inedite, dall'altro le minaccia o ne minaccia altre, antiche, in ogni caso ponendo appunto il problema della meritevolezza di tutela. Così l'embrione umano in vitro capace di nascere e di vivere è un'entità emergente (esiste da noti molto più di dieci anni) suscitata dalla modernizzazione, ma al tempo stesso minacciata dalle ideologie tipicamente moderne della ricerca scientifica a oltranza, della tendenziale riducibilità dello spirito all'algoritmo, del noncognitivismo etico. Particolarmente capaci di suscitare e minacciate anche negli ambiti più intimi, più gelosi dell'umano, e quindi da tenere particolarmente d'occhio sono la biotecnologia applicata all'uomo e l'intelligenza artificiale. Ma è sempre la modernizzazione a diffondere su tutto il pianeta un tipo di cultura (scientistica-tecnologica-edonistica) e alcuni mezzi di comunicazione della cultura (l'inglese o, per meglio dire, l'anglese, i linguaggi di programmazione per elaboratori, gli audiovisivi) che possono mettere radicalmente in crisi per la prima volta entità forse meritevoli di tutela come le culture premoderne (per esempio la cultura metafisico-religiosa), le identità culturali e linguistiche nazionali, la scrittura.

 

        Al termine dell'iter di delimitazione ci trovavamo quindi con un oggetto così costituito: possibilmente tutte e solo le entità quodammodo sostanziali (non atti, non stati mentali, non dimensioni esistenziali), contrassegnate da valore o da soggettività o da entrambi in modo intrinseco, non-convenzionale, non-ascritticio, le quali fossero (o ponessero problemi) emergenti, principalmente nel senso di dovuti ai processi materiali e culturali della modernizzazione.

Un primo inventario redatto in base a questi criteri dava (andando dal valore-senza-soggettività alla soggettività-senza-al-limitevalore) più o meno la lista seguente:

- beni ambientali non senzienti;

- beni culturali in quanto tali (archivio);

- beniculturali in quanto dotati di particolare valore estetico (museo);

- culture «etniche» (p. es. la cultura tibetana o aborigena australiana);

- culture «ideologiche» (p. es. la cultura buddista o in genere la cultura metafìsico-religiosa, la cultura contadina o montanara o in genere la cultura pre-tecnologica);

- lingue, dialetti, linguaggi non verbali, linguaggi di programmazione;

- programmi di IA (o macchine/ automi «animati» da tali programmi): incoscienti, coscienti;

- cellule e altri viventi artificiali prodotti dalle biotecnologie (visti come programmi);

- animali in quanto tali (ossia senzienti);

- animali in quanto rari, minacciati di estinzione;

- embrioni umani (in utero, in vitro);

- uomini marginali, solo-sensitivi, solo-vegetativi;

- uomini handicappati, deficienti, decaduti;

- uomini morenti, in coma irreversibile, in rianimazione, irrecuperabili ad atti specificamente umani ma conservabili illimitatamente in vita;

- insiemi di soggetti, umani o animali (ad es. la specie, il «popolo» nel senso etnico-culturale, la comunità dei parlanti, dei credenti).

 

        Come si vede; il trapasso dal valore alla soggettività avviene (per ora fantascientificamente) con gli eventuali programmi o automi di IA coscienti, i quali avrebbero il doppio status di beni culturali di altissimo valore e di (sia pure, almeno inizialmente, modesti) soggetti. Le cellule artificiali e altri viventi non senzienti sarebbero ancora essenzialmente beni culturali, programmi biotecnologici, tutelati in base al valore; con gli animali, o almeno con gli animali «superiori», si entra certamente nel campo della (sia pure minima) soggettività; questa viene riconosciuta in ipotesi anche agli embrioni umani e agli uomini con ridotta o distorta o abolita autocoscienza in base alla loro «senzienza» o, là dove manchi, in base alla loro appartenenza alla specie dotata di soggettività per antonomasia. La menzione degli insiemi di soggetti è fatta solo per tenere conto dell'autonomia che questi insiemi a volte assumono, come peculiari oggetti di tutela (sono le specie di animali rari a meritarla in base al valore, non i singoli individui), o come produttori e portatori di certi beni culturali collettivi quali le culture etniche, le lingue, le credenze e religioni.

        Rispetto a questo già delimitato, ma pur immenso, inventario, la ricerca ha poi inteso profilare il proprio intervento o contributo come principalmente filosofico, in ogni caso fondazionale, a livello di principi non di applicazioni operative. In particolare ha escluso (salvo eccezioni) di addentrarsi nella rilevazione o nella proposta di norme giuridiche positive. Tuttavia ha tenuto costantemente l'occhio ai problemi generali posti dalle traduzioni giuridiche. Non è dunque né filosofica pura, né giuridica pura, né filosofico-giuridica nel senso della filosofia del diritto. È una ricerca di «filosofia per il diritto», per la politica del diritto affidata sia al legislatore che al giurista critico. Il paragone che ci è venuto in mente subito è con la sezione alta di una montagna: le valli non si sono ancora allargate e frastagliate, il perimetro è ancora minimo, il disegno complessivo è però già tutto prefigurato. Lasciando appunto ai giuristi (e ai politici e agli economisti) i fondovalle, che sono poi la zona feconda e abitata, riservavamo per noi i principi, i criteri, gli eventuali metadiscorsi, ossia (chiedo indulgenza per un attimo di abbandono di amore) la zona desertica cieli-rocce-venti-nevi-sorgenti.

        Questo esigeva anzitutto un certo numero di indagini o di stati dell'arte generali, almeno sul valore, la soggettività, la giuridicità: cosa sono il valore, la soggettività; il vero (il falso) valore, la vera (falsa) soggettività; quali i processi cognitivi, intersoggettivi; di accertamento del vero valore, della vera soggettività; quali i fondamenti ultimi del dovere di tutela del valore, della soggettività; quali i tipi generali, pregiuridici, di tutela desiderabile per il valore, per la soggettività; quali i pregi e i limiti della tutela giuridica in quanto tale; quali i pregi e i limiti, in particolare, delle figure o degli strumenti della tutela giuridica: occidentale classica (proprietà, sovranità, diritto soggettivo, interesse legittimo, Stato, legislazione, giurisdizione, sanzione).

        Il progetto esigeva poi la scelta di un certo numero di pupilli esemplari entro l'inventario amplissimo già fatto delle entità meritevoli di tutela; la nostra scelta si desume semplicemente dall'indice; è dovuta in parte a ragioni oggettive, in parte a preferenze e competenze personali. Anche rispetto ai singoli pupilli si doveva restare (salvo eccezioni) al livello dei principi e criteri, il che non doveva significare delle vuote generalità e nemmeno delle banalità incontrovertibili.

Infine bisognava affrontare, sempre a livello «alto», i problemi posti dalla sistemica della tutela. Non è infatti responsabile chiedere la tutela di tutto, o di tante cose, senza chiedersi come la tutela di una si rapporti alla tutela di un'altra; quali siano le poziorità, le priorità, le eventuali contraddizioni insuperabili, quale sia la forma o la figura dell'insieme (delle tutele). Non sembra pensabile una tutela puramente seriale, additiva, informe, dove ogni pupillo tira unilateralmente nella propria direzione. Di qui l'inserimento di un'apposita riflessione sul «pensiero della complessità». Di qui, anche, la domanda sulla forma appunto di «mondo» anziché «immondo», di kosmos anziché kaos, da scegliere, motivatamente, come ideale regolativo della istemica della tutela.

        Sul punto, in base anche a precedenti lavori del coordinatore della ricerca, è risultato abbastanza largamente condiviso il concetto di pléroma o pienezza non-riduttiva dell'essere, umano e non umano, nelle sue dimensioni materiale-naturale, storica-culturale e personale-spirituale, nelle sue esplicazioni pratiche conservativa e promozionale-creativa. Si tratta per un verso di accogliere l'essere, la natura naturante, il preesistente a (e incorporato in) quest'ultimo venuto al mondo che è l'uomo: dove l'accogliere e riconoscere si contrappone ovviamente alla volontà pianificante, al dominio baconiano, alla volontà di potenza, ma non si confonde con la passività, con la rassegnazione; è una «resa attiva» all'essenza, all'armonia tra le essenze, pre-consegnata nel reale. Si tratta, per altro verso, accogliendo e riconoscendo, entro la stessa natura naturante; il misterioso eccedere della spiritualità umana rispetto a ogni natura naturata, di farne scaturire sapienzialmente mondi nuovi integrabili nel primo senza il quale non sarebbero ma «oltre il quale» sono. Pléroma dunque come generazione e custodia reciproca, interattiva, di natura - cultura - iità psicospirituale; come «divieni ciò che sei»; come «già e non ancora»; come sintesi di aspetti qualitativi (tutto l'umano, attuale e potenziale) e quantitativi (tutti gli uomini, attuali e possibili); in una prospettiva diacronica di perennità. «Studi per un mondo/un'umanità perenni» potrebbe essere un sottotitolo della ricerca.

        La ricerca eseguita non ha certamente esaurito la ricerca prodittata. Passo ora a esporre alcuni risultati, dei quali è doveroso fissare in modo inequivoco lo status: li intendo come risultati per me, non necessariamente per ciascuno dei singoli partecipanti alla ricerca o per una maggioranza. Preferisco dire così piuttosto che attribuirmi un anche minimo eccesso di rappresentatività. Ciò non toglie che li considero ben fondati nell'insieme della ricerca, risultati suoi (sebbene per me). Non mi preoccupo troppo di distinguere riassunto e sviluppo dei risultati stessi. Li ordino nei tre insiemi valore, soggettività; tutèla, dando uno spazio nettamente maggiore ai primi due (*).

 

 

2.         VALORE

 

2.1.      Ontologia del valore.

 

             2.1.1    Oltre il riduzionismo.

 

          Sia il valore che la soggettività sono delle trascendenze rispetto al mondo del riduzionismo fisicalista. Né l’uno né l’altra hanno massa, composizione chimica, estensione, velocità o alter qualificazioni spazio-temporali. L’uno e l’altra sono due patenti smentite della visione scientisa-tecnologica, o almeno ne costituiscono le prede più appetibili perché finora non catturate. Con altra immagine: svettano ancora molto alto sopra il riducibile, dando a chi le realizza due distinte vertigini: una più platonica, una più ebraica-cristiana-islamica. Certo non s'incasellano nel mondo 1 di Popper; ma è dubbio che si lascino inquadrare bene nei mondi 2 o 3: né l'uno né l'altra «sono» stati mentali o entità culturali og-gettive, per quanto correlati siano entrambi al mentale e al culturale. Il valore di un'entità qualsiasi non sembra «essere» solo un fatto mentale o culturale; i fatti mentali o culturali possono avere molto, poco, nessun valore; la soggettività non sembra risolversi tutta in eventi o stati mentali soggettivi, buddisticamente o berkeleyanamente discontinui e insostanziali; l'ontologia del valore e l'ontologia della soggettività sono due dure sfide non solo per il riduzionismo fisicalista duro, ma anche per i riduzionismi psicologistici, sociologistici, comunque moderati o mitigati. Difficile perciò parlare di meritevolezza intrinseca di tutela preservando la propria verginità materialista o fisicalista stretta. Siamo, e piuttosto al largo, nei flutti della Ontologie des geistigen Seins.

Oltre che entrambi emergenti sopra il riducibile, valore e soggettività sono correlati, rivolti l'uno verso l'altro. Il valore è valore per una soggettività; la soggettività è (anche, certo non secondariamente) capacità di percezione/giudizio di valore e di creazione di valore.

 

            2.1.2.   Soggettualità, non soggettività-arbitrarietà.

 

         La prima delle due affermazioni è la più importante per la nostra ricerca. Valore è valore-per-qualcuno. Non si può riconoscere o attribuire valore a una qualsiasi realtà senza riferirla a un (reale ipotetico) soggetto cosciente. I puri fatti sono quello che sono, stanno benissimo «in sé», chiusi nel loro essere-così. Non c'è niente di strano nell'idea di fatti che accadono senza che nessuno lo sappia. Invece l'idea di un valore che non sia per nessuno ripugna, o sembra addirittura priva di senso. Nel fatto, nell'accadimento come tale non c'è niente che lo destini a qualcuno; nel valore invece è iscritto il protendersi a un destinatario. Magari il destinatario mancherà all'appuntamento; ma questo non toglie che la struttura logica del valere sia valere-per, avere-valore-per.

Corollari: come, là dove c'è un soggetto cosciente, ivi nasce inevitabilmente una domanda sul valore, così, là dove le cose hanno un valore, esse appaiono protese a un soggetto cosciente; l'esistenza di valori nelle cose è se non una dimostrazione, almeno un'indicazione verso l'esistenza di Dio (l'alternativa sarebbe un «principio antropico» portato al livello piuttosto paranoico di un atropocentrismo o antropotelismo essenziale dell'Universo).
Ma lasciando da parte i corollari, è subito diventato argomento di discussione centrale nella ricerca distinguere, a proposito del valore, relazionalità da relatività, soggettualità da soggettività-arbitrarietà. Se relazionale vuoi dire fatto-per, destinato-a, rivolto-verso, e se relativo vuoi dire non realmente, intrinsecamente, e quindi assolutamente, presente nella cosa, allora relazionalità non implica relatività; il valore può realmente essere-in pur essendo-per; può essere nella cosa come protensione erga omnes. Un oggetto può essere bello «in sé» anche se essere bello significa essere-bello-per: quell'oggetto è in sé bello-per, e chi non lo riconsce è mancato all'appello, ha torto.
Se soggettuale vuoi dire fatto per un soggetto cosciente, e se soggettivo-arbitrario vuoi dire che non esiste nella cosa, ma solo nel soggetto, e che ogni soggetto può vederlo diversamente, allora soggettuàlità. (Subjektbezogenheit) non implica soggettività-arbitrarietà (Subjektivität). Può esistere nella cosa un attributo soggettuale anche se al momento manca il soggetto che lo percepisce o lo fruisce; o se il soggetto empirico c'è, ma lo misconosce. Il soggetto può sbagliare nel diagnosticare non solo le qualità oggettuali, ma anche le soggettuali; può sbagliare non solo una diagnosi chimica, ma anche una diagnosi estetica. Soggettualità non esclude oggettività. 
Così, sebbene essere amabile significhi ovviamente essere amabile-per, una persona può essere amabile, e amanda, anche se nessun soggetto empirico l'ami, o l'ami come dovrebbe essere amata.

 

            2.1.3.  Valori e qualità relazionali.

 

           Ciò chiarito, mentre sembra abbastanza facile distinguere tra qualità non-relazionali (come la composizione chimica) e qualità relazionali-per-una-coscienza (come la bellezza o l'amabilità), si profila una terza categoria, anch'essa fondamentale per la nostra ricerca, delle qualità relazionali ma non necessariamente per una coscienza, e che quindi sembra improprio chiamare valori. Il fatto che l'acqua sia nutritiva per un'erba, e l'erba commestibile per un cervo o una lumaca; che il fuoco sia distruttivo per tutti gli esseri viventi e un acido per un certo minerale: non sono forse qualità relazionali, qualità-per? E tuttavia non sono soggettuali; come non sono del resto neppure soggettive, perché appartiene proprio alla cosa, oggettivamente, il suo essere commestibile-per-il-cervo o variamente distruttiva. Tutte queste qualità possono anche farsi rientrare in un concetto molto lato di utilità o disutilità e quindi di valore; in ogni caso non sono soggettuali. Ora, si vede subito che per molti problemi di tutela sistemica (ecosistemica anzitutto, ma anche sistemica-culturale), sono proprio le qualità relazionali non soggettuali a giocare un ruolo decisivo e a dover essere considerate prioritariamente. Quando mi chiedo se introdurre l'aquila, l'orso o il cinghiale in una riserva, la prima cosa che faccio è pensarli per relationes. Lo stesso può valere di alcuni aspetti del problema se/dove piazzare una statua di Mazzini in un centro urbano. Qui di seguito riserverò il termine «valori» alle qualità relazionali-soggettuali, mentre per le altre parlerò (se ce ne sarà occasione) semplicemente di qualità relazionali.

 

              2.1.4.  Valori e trascendentali.

 

            Alla teoria dei valori può/deve avvicinarsi la metafisica Classica dei «trascendentali» come altrettante proprietà dell'ente in quanto ente, e quindi - analogicamente - di ogni ente. A parte il trascendentale unum, tutti gli altri (gli accreditatissimi verum e bonum, l'un po' meno consolidato pulchrum, il decisamente ancora precario dulce nel senso di «piacevole») dicono rapporto a una coscienza, «sono sempre pensati come relazioni tra 'ente' e 'mente', ma non per questo considerati meno reali e radicati intrinsecamente nell'ente» (Roncoroni); sono appunto relazionali-soggettuali non certo soggettivi. Ora, mentre verum significa, di ogni realtà esistente, l'intelligibilità, ossia la comprensibilità analitica quanto all'essenza e la spiegabilità causale-ultima quanto all'essere, i trascendentali bonum, pulchrum e dulce (probabilmente riducibili tutti a un bonum latamente inteso) significano forme o sfaccettature della amabilità, della apprezzabilità, dunque del valore. Ma inerendo all'ente in quanto ente, non sembrano consentire le gerarchizzazioni e selezioni indispensabili a una politica della tutela. La «bontà» ontologica di un cane esistente sta nella sua posizione sull'albero porfiriano e nel suo atto d'essere; non consente di distinguere cani di maggiore o minore valore. La «bellezza» ontologica non consente di distinguere il capolavoro pittorico da crosta, anzi forse nemmeno il capolavoro (o la crosta) da qualunque oggetto solido recante tracce di intervento umano. Nel gruppo di ricerca ci si è molto arrovellati sulla difficoltà del distinguere, quanto a valore estetico, la Gioconda dal mucchio di rifiuti. Qui occorre pur dire che il mucchio di rifiuti (a parte la sua utilizzabilità in una prospettiva di Garbart o la sua possible appetibilità-«bontà» per menti canineo feline) ha uno splendore ontologico, almeno quanto all'atto di essere, al suo stare «fuori delle sue cause», alla sua appartenenza all'esclusivissimo club dei Sorteggiati (intendo i sorteggiati a costituire un momento imprescindibile e irritrattabile dell'Unica Storia dell'Essere, i Destinati a Essere Stati), quanto al su porsi come punto di appoggio e di partenza adeguato per l'ascesa razionale a Dio («se esiste un mucchio di rifiuti, e non è Dio, esiste Dio»), perfettamente paragonabile allo splendore ontologico della Gioconda. La distinzione di valore tra cane di razza e bastardo, capolavoro e crosta, Gioconda e mucchio di rifiuti non va quindi chiesta all'ontologia. Cui la nostra ricerca sembra quindi dover voltare almeno per ora le spalle. Non senza rendersi conto, però, che i giudizi di valore categoriali, con la loro selettività, sono molto più «nervosi», per non dire nevrotici, dei giudizi di valore trascendentali (o, se si preferisce la terminologia, i giudizi di valore assiologici lo sono molto più dei giudizi di valore ontologici o metafìsici). Lo sguardo dell'esteta o dell'erota è tutto uno scegliere e rifiutare, un pregiare e dispregiare, un esaltarsi o eccitarsi per il bello/sexy e deprimersi per il brutto/non sexy: bel paesaggio/brutto paesaggio, bel foulard/brutto foulard, bel corpo/brutto corpo. Lo sguardo dell'ontologo è molto più calmo, più accogliente: bella creatura, bella creatura, bella creatura; bell'impermanente, bell'impermanente, bell'impermanente; bel Sorteggiato, bel Sorteggiato, bel Sorteggiato. L'esteta è contratto, l'ontologo abbandonato. L'esteta è possessivo, l'ontologo contemplativo.

 

       2.1.5. Per quale soggetto? Coscienza umana pleromatica e menti animali.

 

       La  struttura  relazionale-soggettuale  dei   valori   (e  degli  stessi  trascendentali)  pone il problema del soggetto del riferimento. Mentre per i trascendentali il loro qualificare l'ente in quanto ente suggerisce o almeno adombra un riferimento assoluto, per i valori - in ogni caso per i valori nell'ambito di una ricerca sulle politiche di tutela - il riferimento primo è necessariamente l'uomo. Saranno dunque valori i valori per l'uomo. Non tuttavia per l'uomo categoriale, circoscritto e quasi definito da una natura, bensì per l'uomo spirito in una natura, aperto, attraverso essa, con tutti I suoi limiti, all'intero orizzonte dell'essere e della possibilità, eccedente la propria stessa natura e ogni singola natura. Quest'uomo non è dunque il dominatore-sfruttatore di un mondo ridotto a materia plasmabile ed energia utilizzabile, è un uomo, come abbiamo detto, orientato all'ideale normativo del pléroma, sintesi di riconoscimento/accoglimento e creatività; per cui l'antropocentrismo assiologico è simultaneamente ontocentrico, e dire che un valore è valore per l'uomo tende asintoticamente a significare che è vero valore.

In questo modo dovrebbe anche risolversi il problema del riferimento alle coscienze o menti animali. Se gli animali, alcuni almeno, hanno soggettività, sia pure - essa sì - strettamente circoscritta da una natura, esistono valori per gli animali, per questa o quella precisa specie animale. Riferire i valori all'uomo sarebbe parziale e terribilmente pericoloso per gli animali se si trattasse del tiranno tecnologico, inenarrabilmente crudele, che ha prevalso nei secoli della prima modernizzazione. Ma posta una coscienza umana cosmicizzata, sapienziale, ontocentrica, i valori per questa coscienza non dovrebbero confliggere inconciliabilmente con i valori per le coscienze o menti animali. Una coscienza umana pleromatica è in sintonia e, verso il basso, con le assiologie categoriali dei senzienti non umani e, verso l'alto, con l'assiologia trascendentale della coscienza divina come quella coscienza per la quale, rivolte verso la quale, «sono buone tutte le cose».
Certo, scegliere come riferimento della valorazione la coscienza umana pleromatica non risolve tutti i problemi teorici e meno ancora tutti i dilemmi pratici; indica però una direzione, una configurazione orientatrice, senz'altro significativa e positiva pur nella sua genericità.

 

            2.1.6. Valore e rarità/unicità.

 

          Delicato, e non pienamente chiarito, è anche il rapporto tra valore e rarità. Da un lato abbiamo inteso privilegiare assolutamente il valore intrinseco, mentre la rarità sembra una qualità tipicamente avventizia, estririseca, in nessun modo ricavabile dall'analisi dell'oggetto. D'altro lato non è possibile ignorare che tutti gli oggetti disponibili in gran numero appaiono, presi come singoli, meno meritevoli (e bisognosi) di tutela, sempre che il dovere di tutela non sia incondizionato. A prima vista, si direbbe che la maggior parte delle entità da tutelare incondizionatamente si trovi tra quelle da tutelare in base alla soggettività, mentre quelle da tutelare se rare si trovino principalmente tra quelle da tutelare in base al valore. Diventano allora interessanti, sebbene marginali, le entità tutelande in base al valore anche se non rare e quelle (ma è dubbio che esistano) tutelande in base alla soggettività solo se rare. Interessanti anche le eventuali tutelande solo in base alla rarità, indipendentemente dal valore, ossia quelle il cui unico valore sia ipsa la rarità. In generale, sembra che la tutela del raro in quanto raro, indipendentemente sia dal valore intrinseco che da considerazioni economiche, possa giustificarsi solo in relazione a un valore sistemico di «completezza», la cui natura e la cui fondatezza restano da indagare, ma il cui ruolo è molto rilevante in ambito sia ecologico che culturale.

Non bisogna neppure confondere valore e meritevolezza di tutela. Ci possono essere entità sicuramente dotate di valore ma non meritevoli di tutela proprio perché, non essendo rare, si tutelano per così dire da sé (sempre che rientrino in un insieme di entità «uguali» ed equi-valenti). La correlazione stretta è dunque tra rarità e meritevolezza di tutela, più che tra rarità e valore: Né è lecito confondere rarità e valore di scambio o di mercato, che - questo sì - abbiamo inteso lasciare del tutto da parte. E neppure bisogna spingere troppo oltre il concetto di rarità: l'unicità è la suprema rarità, ma tutti gli individui come tali sono unici, e quindi bisognerebbe tutelare tutto. È accettabile, o inevitabile, trascurare quella unicità che proviene dalla materia quantitate signata ai beni fungibili, e in genere l'unicità degli oggetti totalmente privi di valore, come appunto - sul piano estetico – il famoso mucchio di rifiuti. Il caso dell'oggetto tutelando solo in base alla rarità è un caso limite. Quanto agli oggetti il cui valore sia tutto nel rapporto affettivo instaurato da un soggetto umano nei loro confronti, si possono trascurare in una ricerca avente intenti generalizzanti, o ricomprendere nella tutela delle soggettività.
Proprio la soggettività (o almeno la «grande» soggettività) infrange, per parte sua, la logica della rarità: il soggetto è sempre un unico/raro/infungibile. Non trae però la sua meritevolezza di tutela da queste caratteristiche: sono esse infatti a derivare dalla soggettività, in particolare perché soggettività significa/genera biografia, e nessuna biografia (o mnemobiografìa) è uguale a un'altra. Anzi la soggettività, grande o piccola che sia, infrange il perimetro stesso del territorio in cui vigono le considerazioni di valore: non sembra adeguato dire che la soggettività è un valore o viene tutelata in quanto valore o in quanto dotata di più valore di un'altra: la soggettività chiede di essere tutelata in quanto soggettività e in qualche modo incondizionatamente (anche se, come vedremo, proporzionatamente).

 

2.2. Metodologia della valorazione estetica.

 

A chi sostiene l'inerenza intrinseca, oggettiva, dei valori incombe l'onere di spiegare come essi vengono riconosciuti in concreto, come si perviene a non soggettivi-arbitrari giudizi di valore. Per più motivi la riflessione si è concentrata sul giudizio estetico. Anzitutto, la scelta per i problemi di tutela di entità, e non di atti o dimensioni, metteva in secondo piano il giudizio etico. È vero che anche sequenze di atti o gesti, come la danza o l'interpretazione di testi drammatici o musicali, sono passibili di giudizio estetico; ma non si dà giudizio etico di oggetti. Inoltre, il giudizio estetico è più problematico e interessante del giudizio di rarità e dei giudizio economico sul valore di mercato, che comunque avevamo deciso di lasciare da parte. I giudizi di valore non estetici su beni culturali verranno discussi al § 2.3. Quanto ai giudizi di valore rilevanti per l'ecologia, essi ricadono quasi interamente nelle categorie delle qualità relazionali (utilità/nocività per la sopravvivenza, la salute, il benessere dell'uomo), della rarità (cui si apparenta quella della «completezza») e appunto della bellezza. In ogni caso, si ha l'impressione che una volta risolto il problema del giudizio estetico si risolvano in modo analogo, o anche più facilmente, gli altri problemi di giudizio di valore. Infine, nel gruppo si è manifestata, con toni anche appassionati (Goffredo; cfr. Roncoroni, Baumgartner), una presa di posizione a favore del riconoscimento della bellezza e delle gerarchie di valore in arte e contro quella sorta di indifferentismo estetico che caratterizza non poca ideologia, non poca normativa e non poca politica dei beni culturali.

 

            2.2.1. Cognitivismo esperienziale in arte.

 

         Iniziamo  dunque  dall'epistemologia  e  metodologia  del giudizio estetico, avendo davanti in primo piano il bello artistico e solo sullo sfondo e in quanto assimilabile il bello naturale, le cui specificità tratterò brevemente a parte.

Nella sua netta maggioranza, il gruppo si è pronunciato per il cognitivismo e contro il soggettivismo estetici (e dunque per l'esistenza reale, inerente, della bellezza). Sul dilemma «riconoscimento o conferimento» dei valori in generale, ma con particolare applicazione all'estetica, ha avuto largo successo la battuta (Tebaldeschi) per cui se è vero che la Repubblica riconosce i diritti dell'uomo e conferisce le croci di cavaliere, e non già conferisce i diritti dell'uomo e riconosce le croci di cavaliere, è probabile che si riconoscano i valori come diritti anziché conferirli come croci di cavaliere. Altrimenti, nella teoria del conferimento puro, la bellezza sarebbe un'onorificenza, per definizione non (si saprebbe se) meritata.
Ma battute a parte, sul punto cognitivismo-noncognitivismo, predicabilità o meno di vero/falso del giudizio estetico, sono stati proposti, tra gli altri, i seguenti argomenti cognitivistici.

l) Se la bellezza dipendesse da un conferimento puramente soggettivo, essa esisterebbe tanto quanto il conferimento medesimo. Quindi la Gioconda sarebbe bella solo mentre in sala c'è un custode o visitatore che la trova bella, cesserebbe di esserlo non appena lui esce o pensa ad altro, eccetera (paradossi dell'attualismo gentiliano di massa).

2) L'intero dibattito critico sarebbe privo di senso, o si ridurrebbe a volontà di violento o subdolo prevalere; uscirebbe interamente dall'ambito della ragionevolezza.

3) Esistono casi di certezza assoluta, evidenziale, della superiorità di un'opera su un'altra (i quadri di«Vermeer» e i quadri di «mia zia»).

4) Se non esistesse una verità del valore, il più accreditato tra i candidati a sostituirla, in un contesto culturale riduzionistico, sarebbe con ogni probabilità uno stato mentale a sua volta riducibile a uno stato chimico cerebrale. Sarebbe allora epistemologicamente corretto affidare il successo di un'opera a farmaci o droghe da assumere durante la fruizione: per esempio, pubblicare una raccolta di poesie con nella fascetta alcune pillole euforizzanti e le avvertenze per l'uso. Quell'opera sembrerebbe (e sarebbe) molto superiore a un Dante, un Leopardi, un Montale privi di pillole per la lettura. Oppure Dante, Leopardi, Montale sarebbero bravi per la capacità dei loro versi di far secernere particolari endorfine, che a quel punto diverrebbe molto più pratico assumere direttamente. I poeti sarebbero solo dei farmacisti primitivi.

Come (ri)conoscere, dunque, in modo intersoggettivamente valido, la verità estetica? Sembra senz'altro da scartare la via puramente fattuale, sociologico-statistica, democratico-maggioritaria, del ricorso alla registrazione quantitative dei comportamenti di consenso: bello è l'oggetto che piace a tutti o ai più. Un primo argomento è che in nessun campo la maggioranza come tale è criterio di verità. Un secondo argomento è che prendendo questa via si cade nella fallacia naturalistica (passaggio illecito dall'is all'ought: l'oggetto piace, quindi deve piacere). Un terzo argomento può trarsi dai circoli viziosi che la teoria fattuale produce, del tipo: tutti vanno a vedere la Gioconda perché è bella; ma è bella perché tutti la vanno a vedere; quindi tutti la vanno a vedere perché tutti la vanno a vedere; oppure: io intendo andare a vedere la Gioconda solo se sicuramente è bella; ma è sicuramente bella solo se tutti la vanno a vedere; ora, tutti la vanno a vedere solo se anch'io la vado a vedere; quindi io intendo andare a vedere la Gioconda solo se anch'io sarò andato a vederla. Che processi di questo tipo effettivamente producano i fenomeni della moda, delle località di villeggiatura obbligate, dei successi editoriali travolgenti, è indiscutibile; ma altrettanto indiscutibile è la loro inadeguatezza ad accertare la verità del valore.

 

Si propone allora, al polo opposto, la via cognitiva diretta, o intuitivo-evidenziale (bello è l'oggetto evidentemente bello) o discorsivo-razionale (bello è l'oggetto dimostrato tale). Pur con alcuni pregi che vedremo irrinunciabili, anche questa via incontra difficoltà. Dell'evidenza immediata è bene diffidare anche quando risulta generalmente condivisa, e tanto più prima di operare questo controllo (che d'altra parte rischierebbe di convertirsi nella prima via). Una dimostrazione razionale cogente, ammesso che fosse desiderabile, dovrebbe essere o empirica o induttiva o deduttiva: ma non si vedono esperimenti, induzioni, deduzioni in grado di stabilire il valore estetico appropriato, e magari quantificato, di un oggetto.
 
La terza via esplorabile è quella che chiamerei esperienziale. Sarà da ritenere valido, o vero, il giudizio irreversibile della maggioranza (meglio ancora, della totalità) degli esperti dopo un congruo periodo di discussione critica intensa e multilaterale; il giudizio irreversibile della maior, sanior et diuturnior pars. Come si vede, questa soluzione non dà criteri contenutistici («bello è ciò che ha forma regolare», «bello è quel corpo, la cui articolazione corrisponde alla sezione aurea»), ma procedurali: stabilisce come procedura migliore perché il giudizio (imprevedibile) sia valido una esperienza qualificata.
Prima di esporre gli argomenti favorevoli e contrari, preciso ancora un poco i concetti. Esperto è il competente, colui che la passione, il gusto, l'intelligenza, l'informazione, la frequentazione assidua delle opere e della critica hanno messo in grado di partecipare pubblicamente e autorevolmente al processo di valorazione. Esperienza può dirsi l'habitus del singolo esperto, ma ancor più e decisivamente il processo collettivo stesso, il possesso comune tramandato nel ceto degli esperti, l'aggettivazione quasi da mondo 3 dei loro interventi nel tempo. Perché anche il tempo è appunto indispensabile: salvo eccezioni miracolose, non si dà esperienza istantanea. L'esperienza è una maturazione diacronica del giudizio attraverso molteplici considerazioni unitariamente ripensate. Non dunque il tempo come tale, anche inerte, meccanico, genera l'esperienza, ma solo un tempo attivo, fruitivamente-criticamente operoso. Il concetto di tempo «congruo» è meno cronologico che qualitativo; e oserei aggiungere che la congruità esige la dialetticità, forse la conflittualità (in alcune fasi). Un tempo anche lungo di interventi anche importanti, ma tutti cospiranti e concordi, tranquillizza meno di un iter magari tormentato, mala cui conclusione finale sia una consapevole conquista. Forse un'esperienza è sempre una conquista. Forse fino a quando c'è ancora solo accordo bisogna considerare la pratica ancora aperta. Ciò non esclude che a un certo punto si possa effettivamente toccare lo zoccolo duro dell'irreversibile: concetto cui tengo, perché sostituisce, mi sembra vantaggiosamente, quelli di evidente e di dimostrato, negli ambiti, come la valorazione, nei quali la procedura cognitiva adeguata è appunto una esperienza. Così, la falsità etica dello schiavismo, del maschilismo, dell'imperialismo, del razzismo, del totalitarismo (e, in positivo, la verità del personalismo e dei diritti dell'uomo) può ritenersi non certo evidente, ma certo acquisita (proprio perché conquistata) irreversibilmente. Il passaggio dal giudizio adolescenziale per cui la foto della ragazza Coca-Cola in costume da bagno è artisticamente più bella della Cappella Sistina al giudizio per cui è superiore la Cappella Sistina è un altro irreversibile: nel senso preciso che avviene sempre in questo verso e non nell'altro. Può non piacere l'aggettivo «vero» applicato a proposizioni come «La schiavitù è eticamente inaccettabile» o «La Cappella Sistina è superiore alla foto, ecc.»; se ne trovi uno migliore, purché dica però la stessa cosa.
 
Gli argomenti a favore di questa terza via sono anzitutto i difetti e le difficoltà delle prime due, che essa riesce abbastanza felicemente a correggere e superare, e la sua corrispondenza a come effettivamente si svolge il processo di valorazione in etica e in estetica. Aggiungo:

l) a favore della necessità dell'esperienza: il bello artistico non esiste nel vuoto, al di fuori di una tradizione insieme culturale, estetica e tecnico-artigianale; e dunque la sua fruizione richiede una iniziazione. Mentre chiunque può dire a prima vista e in ultima istanza «mi piace», nessuno può dire a prima vista e in ultima istanza «è bello». Entro l'iniziazione avvengono quei passaggi, quelle conversioni, quelle cadute di scaglie dagli occhi, quelle maturazioni irreversibili per cui si giunge effettivamente alla caratteristica «evidenza per l'esperto», operante con una immediatezza e spontaneità di scatto proporzionale alla articolatezza e coscienziosità di preparazione;

2) a favore della necessità del tempo: la struttura stessa dell'esperienza, in particolare: a) banalmente, il fatto che il tempo decanta, purifica il giudizio dalle eventuali eccitazioni per (o contro) il nuovo, dalle affezioni idiosincratiche, dai condizionamenti personali e socio-culturali, dalle passioni avverse alla passione per la bellezza; b) più intrinsecamente, il fatto che solo il tempo, sempre che sia - come abbiamo convenuto - un tempo criticamente operoso, arreca quella multilateralità di visioni e interpretazioni senza la quale un'esperienza non può dirsi matura o completa.

     Conseguenza: la via all'arte non è breve, e non ci sono troppe scorciatoie. Esperto non è né il solo appassionato e sensibile, né il solo pedante e informatissimo; non è colui che si appropri diligentemente i punti d'arrivo finali degli itinera critici, ma colui che li ripercorra responsabilmente in tutti i loro momenti salienti. Norma non sono i risultati ma i percorsi.

Con la terza via, esperienziale, si evita, mi pare, la fallacia naturalistica e si salva ragionevolmente il cognitivismo. Non c'è passaggio indebito dal fatto (dal consenso, dal numero) alla verità del valore, ma da verità parziali e rivedibili a una verità sempre più completa è irreversibile. Quello che conta è il conoscere, il riconoscere, nel suo progredire e consolidarsi. Bisogna anche aggiungere che in nessun punto dovrebbe aversi conoscenza disgiunta da emozione. La conclusione di ogni singolo intervento critico, e quella del processo nel suo insieme, dev'essere non tanto un giudizio, quanto una fruizione raffinata, potenziata; non tanto un'approvazione, quanto un'emozione approvata.
E come l'emozione eccede il conoscere critico e ne costituisce il fine, il compimento, così il valore riconosciuto e sentito eccede, all'origine e al termine del processo, l'expertise e la tradizione. È la facoltà del bello a generare la tradizione; è questa stessa nativa, «divina» facoltà a incontrare, attraverso le tortuosità della tradizione, la vivente semplicità del valore. Dire che non c'è bello artistico fuori di una tradizione significa che è sempre una tradizione ad aprire sul valore, non che il valore è prigioniero della tradizione; sarebbe come pensare che la finestra contiene il cielo. Perciò l'interiorità a una tradizione non coarta il valore dell'opera, non equivale a provincialità, la tradizione è un particolare che apre sull'universale e il giudizio di bellezza è vero o falso universalmente. Il bello, che traluce sempre entro una tradizione, non è bello solo entro quella tradizione, così come il pensiero, che si formula sempre entro una lingua storica, esiste, o è vero, non in quella lingua soltanto.
Il punto d'arrivo del processo estetico come esperienza è dunque un'emozione approvata che trae origine dalla verità universale di un valore intenzionato in (o attraverso) una tradizione.
Ai noncognitivisti bisogna concedere che il valore estetico si coglie centralmente con l'emozione e che il giudizio estetico non è facilmente intersoggettivo, né fondabile con i metodi delle scienze formali e sperimentali. Ma va confermato che la procedura esperienziale è anche, e decisivamente, cognitiva: lo è negli atti degli esperti; lo è negli atti con cui gli esperti vengono riconosciuti come veramente esperti e la procedura esperienziale come veramente la migliore.

 

            2.2.2.    Assiologia umana-generale dell'arte.

 

            A questo punto, ammessa l'esistenza reale-inerente, e la conoscibilità esperienziale, del bello artistico, resta il problema di come ne scaturisca meritevolezza o addirittura doverosità di tutela. Sulla meritevolezza («è lecito, anzi è bene, tutelare il bello») si può facilmente trovarsi d'accordo: se non sono meritevoli di tutela gli oggetti dotati di valore, cosa lo è? Chi invece consideri la categoria del dovere come essenzialmente etica e rigorosamente vincolante, e/o non ammetta doveri se non verso persone (se stessi, o gli altri, o Dio) potrà negare la doverosità stretta della tutela del bello. Senza chiudere la questione, credo utile fornire elementi a favore di una positività assiologica dell'arte anche al di là del puro valore estetico. Se ne è occupata specificamente la relazione Roncoroni trattando dell'assiologia umana-generale dell'arte: l'arte, proprio nella sua autonomia, proprio in quanto arte è anche qualcosa di più che arte; ha valori etici, psicagogici, sapienziali. E l'atto artistico si connette a categorie antropologiche civicamente rilevanti come soggettività, libertà, autoespressione, dignità, le quali anch'esse rafforzano la motivazione della politica di tutela. Sarà dunque da tutelare l'arte in quanto arte, non strumentalmente ad altri valori, perché solo proprio in quanto arte veicola anche gli altri valori.

 

            2.2.3. Il bello naturale.

 

       Mi limito a inserire qui, molto sacrificato, il bello naturale, componente rilevante della tutela ecologica. La questione teorica interessante è il suo rapporto col bello artistico; personalmente inclino a far risaltare piuttosto le differenze che le analogie, con la conseguenza che il più autentico bello naturale sarà anche, coeteris paribus, il più lontano dal tipico bello artistico. Ora, una delle differenze immediatamente coglibili è che il bello artistico viene fruito in situazioni protette, addomesticate, civili, il bello naturale in situazioni di effettiva o almeno immaginata esposizione di tutto il corpo; bisogna essere immersi nella natura, inglobati da essà come sue parti, in qualche misura minacciati (minacciati, se non altro, di minimità o nullità); solo allora appare la vera natura. Dal punto di vista dell'assiologia umana-generale, la fruizione del bello naturale se forse toglie, certo aggiunge qualcosa a quella del bello artistico: sono richiesti habitus di strenuità fisica, coraggio, familiarizzazione con la tremenda pericolosità e i nascosti, affidabili equilibri della natura, prudenza, temperanza, accortezza, che fanno del capace di entrare in contatto con l'autentico bello naturale un idealtipo forse più completamente umano, e quindi eticamente appetibile, e quindi meritevole di tutela, dell'esperto di fruizione artistica. È chiaro che molto più del bello artistico il bello naturale esige solitudine, rarità estrema di fruitori simultanei. Tutto questo si riflette sui modi della tutela le riserve di bello naturale non possono venire aperte alle masse, o rese accessibili troppo comodamente e banalmente; il concetto stesso di riserva è quasi contraddittorio, e qui sta un paradosso doloroso della tutela ecologica, perché natura non protetta è ormai, almeno nei paesi dello «sviluppo», natura condannata, e natura protetta non è più, per definizione, vera natura.

 

2.3.    Valori altri dall'estetico.

 

          Il giudizio estetico non è il solo giudizio di valore rilevante, né per i beni culturali, né per i beni ambientali. Esaminiamo alcuni altri valori che entrano in gioco e possono motivare la tutela.

Tra i beni culturali la nostra ricerca ha privilegiato, oltre alle opere d'arte, le culture e le lingue. Appare subito che anche se si dice qualche volta che una cultura o una lingua è più bella di un'altra, l'uso è improprio o analogico. Ed effettivamente nei contributi pertinenti (Luppi, Bolognini, Lombardi Vallauri) la giustificazione della tutela in base al valore estetico è solo indiretta e marginale.

 

           2.3.1.  L' humanum di base come il valore primario.

 

          Per quanto riguarda la cultura, intesa principalmente come il modo di vita materiale e spirituale di un soggetto etnico in un ambiente, va considerato anzitutto il valore inerente alla cultura umana di base, ossia a quel sistema di conseguimenti (essi stessi pensabili come altrettanti subsistemi: linguaggio, scrittura, sapere fattuale e configurazione del senso, tecniche produttive, istituzioni familiari e comunitarie, diritto) che caratterizza interculturalmente l'humanum in quanto tale. Come responsabile dell'umanizzazione dell'animale uomo (o del manifestarsi dello spirito in lui), la cultura umana di base è forse addirittura il (o la portatrice del) valore primario e decisivo perché condizione necessaria di possibilità di tutti gli altri valori. In questo senso essa pre-vale sia sulle specificità delle singole culture storiche, sia su ogni pur grandiose singola opera di gruppi o individui eccezionalmente dotati. Con tutto il rispetto per il «capolavoro», credo infatti che la distanza tra il non-umano e l'umano sia molto maggiore di quella tra l'umano ordinario e l'umano perfetto o geniale, e credo quindi che la semplice partecipazione alla cultura umana di base conti, anche quanto a conferimento di diritti, molto più di qualunque protagonismo nell'alta cultura. Condivido in pieno, con riferimento all'attuale contesto riduttivista e positivista, la generosa difesa della grande arte contro gli appiattimenti archivistici compiuta da Ilaria Goffredo, ma purché non significhi inavvertenza del dislivello ben maggiore qualificante ogni segno dell'uomo nell'universo. La percentuale di culture praticamente anonime rispetto alle culture con nomi e opere di grandi uomini è sorprendentemente alta, tanto che non stupisce poi troppo il feroce accanimento auto-difensivo, auto-assertivo, auto-espansivo del soggetto storico «popoli», in vaste aree ed epoche quasi il solo soggetto storico. Nella propria identità collettiva il soggetto popolo vedeva l'identità stessa dell'umano; prendeva la propria cultura per la cultura umana di base; il resto era non tanto «altra umanità» quanto non umanità, barbarie; la perdita di sé come popolo sarebbe stata la cancellazione stessa dell'umano, del veramente umano, dalla faccia della terra. Il valore del sistema cultura umana di base è dunque sacro (e non a caso affidato quasi dappertutto alla tutela di non casualmente etnici dèi) pur non essendo primariamente, o non essendo affatto, un valore estetico.

Considerazioni analoghe potrebbero farsi per quel sottosistema certo eminente della cultura umana di base che è la lingua. Come ogni cultura storica, in quanto necessario avatar della cultura umana di base, è un capolavoro, così ogni lingua storica, in quanto necessario avatar (almeno dopo Babele) di quell'ingrediente costitutivo della cultura umana di base che è la lingua, è un capolavoro.
E la natura di capolavori dell'una e dell'altra sta nell'essere; entrambe, sistemi finitistici-infinitistici, parti intentionaliter coestensive al tutto del reale e del possibile; adeguate proiezioni, pér questo aspetto, del loro autore e signore; il soggetto umano in società, che d'altra parte senza esse non si manifesterebbe: vale del rapporto tra cultura/lingua e soggetto umano l'apostrofe di Dante: «madre/figlia del tuo figlio».
Valore primario risulta dunque, per quanto riguarda l'ambito dei beni culturali, l'humanum di base: ciò che non può stupire, anzi può sembrare tautologico, una volta adottata la definizione relazionale dei valori come valori per l'uomo (sia pure pleromatico). Tutte le valorazioni sembrano riconducibili al giudizio di valore fondamentale: «È bene che l'uomo sia». Ne segue che anche nell'ambito dei beni naturali dovrà essere l'humanum di base a fornire il criterio di riferimento decisivo. Impossibile perciò, contro gli estremismi ambientalisti, non solo vedere, nell'uomo e nella civiltà umana una specie di malattia, di tumore cutaneo maligno della biosfera anzi dell'ecosistema originario globale, ma anche riconoscere alle realtà non umane valori e - più ancora - diritti alla tutela indipendentemente dalla fruizione umana. Si tratterà piuttosto di qualificare e raffinare questa fruizione. Probabilmente il sorriso di un bambino umano vale più di un parco nazionale tutto pieno di leoni, ma che valore ha il sorriso di un bambino stupidamente o crudelmente indifferente allo sterminio e alla cattività dei leoni? È molto strano che dal rango ontologico dell'uomo si traggano solo conseguenze autorizzanti all'esercizio spietato del dominio: l'uomo è superiore perché ha un'etica, mentre gli animali non l'hanno; quindi l'uomo può fare degli animali quello che vuole. La capacità di etica non autorizza, responsabilizza; noblesse oblige, non certo noblesse autorise, o exempte. È ripugnante sfruttare la spiritualità come un privilegio.
Tutti i contributi sull'ambiente naturale (Cosi, Gorassini-Gaeta, Tallacchini) hanno cercato di salvare insieme la non strumentalità all'uomo dei valori instrinseci delle realtà naturali, e un attentamente formulato antropocentrismo o antropotelismo assiologico. Non se ne esce senza riconoscere nell'uomo anche valenze spiritualmente contemplative e simpateticamente partecipative, immedesimative. È chiaro che l'humanum di base è «anzitutto» biologico; e quindi la natura ha valore per l'uomo «anzitutto» come riserva di risorse per la sopravvivenza biologica; sotto questo aspetto la stolidità di un modello dominativo di sviluppo è simile a quella del boscaiolo intento a tagliare il ramo su cui si regge. Ma è anche chiaro che l'uomo è uomo «anzitutto» per il suo specifico culturale-spirituale, e che riferita a questo specifico la natura ha valore «anzitutto» per le sue meraviglie contemplabili e per i suoi psichismi non-umani intelligentemente/affettivamente partecipabili. Un olivo è una piccola miniera d'olio o di legno; ma è anche un puro mirabile, non estetico soltanto. Cosa penseremmo, noi costruttori umani, di una macchina, piantando la quale nella terra e bagnandola si ottenesse uno stabilimento automatizzato capace di produrre migliaia di macchine all'anno, tutte dotate della proprietà di poter produrre altri stabilimenti produttivi all'infinito, per milioni di anni? Questa sì che è una macchina! ed è appunto l'oliva, l'olivo.
D'altra parte, è ugualmente vero, ed è stato ugualmente messo in luce, che la cultura è anche formidabile risorsa per la sopravvivenza biologica; mentre gli strumenti tecnici finalizzati alla sopravvivenza possono a loro volta essere contemplati come manifestazioni dell'io spirituale inoggettivabile e come finora maldestri, ma pur sempre in qualche misura ammirevoli emuli delle macchine costruite dalla natura.
Tutto questo porta a relativizzare la distinzione troppo schematica tra beni culturali, di mondo 3, necessari alla specifica umanizzazione dell'uomo, e beni naturali o ambientali, di mondo 1, necessari alla sopravvivenza biologica. E porta a individuare, ancora una volta, come valore primario e decisivo l'humanum di base perfezionabile nell'umano pleromatico; valore antropologico in tensione, ma non in necessaria contraddizione, con il pléroma ontologico, inclusivo - tra l'altro - della piena realizzazione dei valori-per-le-coscienze-animali.

 

            2.3.2.  Beni singoli e beni-sistemi.

 

          Una volta scelto come valore primario e decisivo l'umano di base,  diventa rilevante funzionalmente la distinzione strutturale tra beni singoli e beni-sistemi. L'opera creativa singola (poema, quadro, scultura, cattedrale) difficilmente è indispensabile all'umano di base; i sistemi rappresentazione del mondo, lingua, regola di convivenza della comunità sembrano invece indispensabili. Il singolo bene ambientale (queste rocce, questa pianta, questa specie animale, questo esemplare) sembra anch'esso solo eccezionalmente necessario; non così «un» ambiente, o «l'» ambiente. Non c'è humanum senza una cultura e un ambiente. Dunque il bene-sistema «cultura» e il bene-sistema «ambiente», in quanto beni necessari, hanno valore superiore ai beni singoli sia culturali che ambientali; e data la loro struttura non semplicemente additiva, seriale, ma sistemica appunto, potrebbe non bastare la tutela delle loro parti o della totalità delle loro parti, senza la tutela del sistema medesimo, nella sua organica unità. Non sarebbe tutela di una cultura la conservazione dei suoi manufatti in un museo etnografico a New York, della sua lingua in una cassettoteca a Parigi, dei suoi riti attraverso periodiche messe in scena liturgiche ad opera del Consiglio mondiale delle chiese a Ginevra, dei suoi stili di caccia, pesca, tuffo, danza attraverso periodiche «azioni mimiche» di volontari etnologici dell"UNESCO... e non sarebbe tutelare l'ambiente «Appennino» conservare le sue piante in un luogo, i suoi lupi in un altro, i suoi casolari in un terzo. È anche dubbio che un ambiente sia «ambiente» quando gli uomini a fruirlo non siano più i portatori della cultura che si è formata proprio in quell'ambiente. A volte ambiente naturale e cultura sembrano indissociabili: che senso hanno il paesaggio tibetano dopo estirpato il lamaismo o il paesaggio europeo cristiano dopo la secolarizzazione? Le figure di montagne e di acque con i loro nomi religiosi o poetici, il monastero, lo stupa, il chortèn, la colorazione simbolica di alberi, di rocce, le bandiere di preghiera ondeggianti sopra i villaggi possono fisicamente rimanere, e si può tralasciare di discutere se siano natura o cultura, ma certo la terra Tibet come ambiente per socialisti e turisti è diversa dalla terra Tibet come ambiente sacro di prima del genocidio culturale compiuto dagli invasori cinesi.

La distinzione tra beni singoli e beni-sistemi è, naturalmente, di grado: anche la Divina Commedia non può essere tutelata per versi singoli, o la Gioconda per singoli centimetri quadrati: le forme (e abbiamo visto che i valori ineriscono principalmente alla forma) sono indivisibili, eccedono il regno della quantità. Ma pur essendo ogni bene, tendenzialmente, «sistemico» rispetto ai suoi componenti e «singolo» rispetto a insiemi più vasti in cui è compreso, certo alcuni beni - e in particolare il bene «una cultura», il bene «un ambiente» - sono tipicamente sistemici.

 

         2.3.3.  Humanum di base e «popolo».

 

        Forse è possibile e utile dare una definizione più precisa dei beni-sistemi con riferimento ai soggetti che possono sensatamente esserne titolari, ossia riservando preferenzialmente il termine a quei beni il cui titolare sensato è un «popolo» nel senso di portatore di una cultura. Sarebbero quindi beni-sistemi la cultura stessa, con la lingua e le altre istituzioni già menzionate; e l'ambiente proprio di quel popolo, di quella cultura. Dove «popolo» e «cultura» dovrebbero intendersi riferiti primariamente alla capacità di costituire una societas perfecta, ossia di assicurare e tramandare l'humanum di base nei suoi vari livelli, da quelli della sopravvivenza biologica a quelli spirituali; e derivatamente a gruppi e culture «ideologici», in particolarea chiese, ordini monastici, sètte e altri gruppi religiosi.

In ogni modo: quale che sia la definizione di beni-sistemi adottata, esistono beni-sistemi i cui titolari sensati, proporzionati, sono «popoli»; beni portatori di valori fondamentali. Questo fatto, antropologicamente saliente, pone il problema dell'ontologia dei popoli, come premessa a quello dei diritti dei popoli. Le altre entità portatrici di «culture» sembrano già sufficientemente tutelate nelle sedi classiche dei diritti dell'uomo, Costituzioni e Dichiarazioni, dal riconoscimento delle libertà di pensiero, associazione, religione. Emerge invece con l'egemonia planetaria del moderno proprio il problema delle culture etniche, in sparizione rapida, dell'ordine delle decine o centinaia all'anno. Come detto all'inizio, la ricerca ha preferito riservare il concetto di soggettività alle entità naturalisticamente, psicologicamente autocoscienti, dunque non ai soggetti collettivi; ma senza stabilire che l'avere una soggettività in senso stretto sia riecessario per essere titolari di diritti, meno ancora per essere 'meritevoli' di tutela. Nel caso delle culture etniche, non è chiaro come sia fatto il loro «portatore», il Volksgeist, se i suoi elementi creativi siano uomini concreti o strutture produttive dotate di una propria logica di sviluppo o entrambi; si oscilla tra persone e «cose», dotate queste di valore, quelle di soggettività. Il concetto di identità è forse un utile ibrido tra le due ontologie: i popoli hanno un'identità personale-reale. Ed è questa il meritevole di tutela davvero emergente: la sopravvivenza biologica non risulta più minacciata dalla modernizzazione, anzi se mai un problema complementare che emerge è un temporaneo eccesso di sopravvivenza rispetto agli altri livelli di realizzazione umana. Non a caso dunque il problema del diritto all'identità culturale è sempre più sentito e adeguatamente affrontato. Ritengo sia un progresso quasi sensazionale della civiltà e del pensiero giuridici essersi elevati alla considerazione di un bene così «immateriale», così complesso, così sfumato nei suoi contorni oggettivi e soggettivi, così riluttante alle inquadrature dogmatiche tralatizie, eppure non preteribile. Sarebbe occorso alla nostra ricerca un contributo apposito sul diritto all'identità culturale nella normativa inter- e sopranazionale, ma la lacuna può colmarsi riconoscendo come idealmente incluso nella ricerca stessa, con piena cittadinanza, il citato saggio in proposito di Francesco Margiotta-Broglio.

 

            2.3.4.   Cultura di popolo e cultura ecumenica dell'umanità.

 

           Il documento senz'altro più ricco di riflessione è la Dichiarazione della Conferenza mondiale sulle politiche culturali tenuta dall'UNESCO a Mexico, 26 luglio-6 agosto 1982. Lavorando su di essa, si può individuare un almeno triplice tipo di fondamento del valore della singola cultura:

l) personalistico: la cultura ha valore perché indispensabile allo sviluppo dell'umanità del singolo uomo;

2) etnico: la cultura ha valore perché indispensabile, anzi costitutiva dell'identità umana storica del popolo;

3) ecumenico o universalistico: la cultura di ogni singolo popolo ha valore perché:

3.l) ha capacità tendenzialmente illimitata, trascendentale, di sviluppo, è coestensiva ad totum ens, può ad-similare a sé tutto il reale e tutte le altre culture e insomma interpretare originalmente la totalità dell'humanum;
3.2) appartiene come ogni altra cultura al patrimonio comune dell'umanità, patrimonio in via di formazione e che è poi la vera cultura umana pleromatica.

         Mentre il primo tipo di fondamento può ricollegarsi a trattazioni filosofiche classiche e alla stessa letteratura più consolidata sui diritti dell'uomo, il secondo sarebbe ancora bisognoso di esplorazione approfondita; ma il veramente emergente mi sembra già, ormai, il terzo. Non si può infatti porre coralmente, a livello di comunità umana, il problema delle identità culturali, risolvendolo semplicemente nel senso dell'auto-asserzione unilaterale delle singole culture in base al potere dei rispettivi popoli. Vorrei dire che il problema del diritto all'identità culturale nasce ecumenico, proprio per effetto dell'unificazione del mondo conseguita, o avviata, dalla modernizzazione.

       È chiaro che 3) pone più acutamente il problema della verità dei valori, comunque ineludibile. Nessuna cultura di popolo può conservarsi o accrescersi senza scegliere, e senza scegliere auspicabilmente secondo verità; tanto più questo vale in prospettiva universalizzante o pleromatica. Nessun soggetto collettivo per quanto grande garantisce per virtù propria la verità assiologica delle sue scelte; anche l'umanità concorde rimane sub iudice. Avendo trattato del problema di verità in merito alla valorazione estetica, rinuncio a riaffermare qui il mio oggettivismo-cognitivismo e mi limito al problema dell'ecumenismo culturale; ma i due problemi - va detto - non sono scindibili.

Concentrandosi quindi su 3), appare abbastanza rilevante, anche quanto a conseguenze di politica pratica, la differenza tra 3.1) e 3.2). Nel primo caso, ogni popolo ha diritto alla sua cultura perché ogni cultura è potenzialmente pleromatica, può adeguare originalmente la totalità dell'humanum. La conseguenza traibile è che ogni popolo ha diritto alla sua cultura purché questa si sforzi realmente di crescere nella direzione auspicata. Il mero provincialismo autoassertivo non sarebbe particolarmente protetto, in ogni modo lo sarebbe meno che in 2). Il punto d'arrivo sarebbe una pluralità di culture originalmente onnicomprensive e universali. Gestori del processo sarebbero, sovranamente purché nella pace, i singoli popoli; verosimilmente nelle loro élites creative.
Nel secondo caso, c'è un'unica possibile pienezza dell'umano, ed è una sintesi ancora inedita di tutte le culture storiche. C'è quindi un punto d'arrivo unitario; e il processo verso il pléroma culturale dovrebbe essere gestito da un'istanza superiore ai singoli popoli, forse l'umanità unificata. In questa prospettiva, le culture singole tradizionali appaiono incapaci di operare la sintesi senza oscurantismo o provincialismo. Nella prima prospettiva, al contrario, per cui solo le culture tradizionali hanno reale spessore e creatività, e dunque esistono (solo) tante pienezze dell'umano quante sono le culture, comunicanti ma irriducibili nel loro processo di universalizzazione, la vagheggiata cultura ecumenica sarebbe una sorta di piatto esperanto; la superiore istanza unitaria dovrebbe limitarsi a impedire le sopraffazioni di una cultura su un'altra, mentre in 3.2) dovrebbe avere compiti direttamente promozionali e creativi, questi ultimi svolti da magisteri ufficiali o da singoli uomini illuminati, di ampie vedute e di immensa cultura personale, cittadini dell'umanità unificata.
Lo stesso dilemma potrebbe porsi per le lingue: crescita di tutte le lingue storiche verso il dire originalmente tutto, o confluenza degli sforzi linguistici umani nella produzione di un'unica superlingua? Con il rischio di produrre una sottolingua comune, quale è oggi l'inglese-lingua franca svilito in «anglese», o quale potrebbe essere una qualsiasi lingua composta a tavolino?
Stesso dilemma anche per le religioni: ecumenismo interno alle singole religioni tradizionali, protese ognuna a universalizzarsi senza perdere la propria identità, ossia assimilando alla propria forma vitale i principi e valori di tutte le altre, o ecumenismo come ricerca di una saper-religione unitaria, col rischio di produrre la religione comune-denominatore, povera ed esangue a confronto delle stesse religioni storiche?

        Si ha l'impressione che nel secondo modello le culture storiche dovrebbero rimanere praticamente ferme, come contributi all'unica cultura in sviluppo, che sarebbe la cultura ecumenica nuova. Nel primo modello, sarebbero invece le culture storiche a muoversi, mentre eventuali sintesi interculturali verrebbero operate da singoli uomini coltissimi oppure non verrebbero operate affatto, non esistendo luoghi di sintesi superiori allo «spirito popolare» di ciascuna cultura. Il documento di Mexico non sviscera a fondo il dilemma: sembra contentarsi di asserire, oscillando tra 2), 3.l) e 3.2), che ogni cultura dev'essere libera di svilupparsi compatibilmente con la libertà di sviluppo delle altre, senza porsi il problema di una sintesi superiore o risolvendo in un senso accumulativo: sarà più ricca, noi diremmo più pleromatica, un'umanità dotata del massimo numero di culture diverse tutte in libero sviluppo. Ogni singola cultura interessa tutti gli uomini, è patrimonio comune di tutta l'umanità proprio in quanto «diversa».

Ma qui nasce chiaramente una tensione che è bene non nascondere con formule irenizzanti. Tensione immanente anche alla questione dei beni ambientali.

       Dire che ogni cultura/lingua/religione, ogni singolo bene culturale/ ambientale è patrimonio comune di tutta l'umanità, mentre pone l'umanità a sua difesa contro ogni prevaricazione di soggetti minori privi di investitura storica, non tutela ancora i titolari storici nei confronti dell'umanità stessa. Questa potrebbe «espropriare» della tutela il singolo popolo o gruppo o Stato nazionale ritenuto impari al suo compito. L'Italia potrebbe essere giudicata tutore non adeguato del suo immenso patrimonio culturale, il Brasile del suo immenso patrimonio naturalistico; le opere d'arte italiane e le foreste amazzoniche potrebbero essere «avocate a sé» da un'autorità superiore in nome dell'umanità tutta. Si fronteggerebbero quindi il principio del non-intervento, nato contro il colonialismo e l'imperialismo e nella presunzione che ogni popolo sia più interessato e più adeguato a tutelare il proprio patrimonio che chiunque altro, e il principio dell'interesse comune di tutta l'umanità a certi beni o valori. Neo-paternalismo illuminato contro sovranità.

La mia presa di posizione è: a) per quanto riguarda il tipo di ecumenismo, cautamente favorevole al modello 3.1): doveroso sviluppo pleromatico delle singole grandi culture etniche e ideologiche dall'interno piuttosto che unitarismo «esperantista», conservazione delle culture minori da parte delle grandi; b) per quanto riguarda la legittimazione alla tutela, cautamente favorevole a una concertazione comunitaria piuttosto che a un'affermazione assoluta del non-intervento e della sovranità. Ne nascerebbero, per le autorità «ecumeniche», direttive del tipo: esercita pressioni e azioni educative fraterne o anche paternalistiche-illuminate sui governi o comunque sulle autorità titolari della legittimazione storica, cercando di guadagnare il loro consenso; prevedi generosi indennizzi per i sacrifici materiali che le popolazioni in questione debbano affrontare al fine di tutelare beni culturali o ambientali di interesse comunitario; in caso di renitenza, metti in atto sanzioni, s'intende non lesive dei diritti umani fondamentali; e per tutte le autorità ecumeniche ma anche interne dei singoli gruppi etnici o ideologici: combatti gli sciovinismi ma anche gli annegamenti nell'uniformità di una cultura egemone; favorisci l'integrazione tra culture, la circolazione delle élites creative, ma anche coltiva la fierezza per le identità storiche, le radici, le attuali e potenziali originalità; in caso di necessità, fai prevalere le ragioni del bene comune su quelle dell'interesse privato.
In sostanza, si tratta di uno stesso tipo di politica della tutela sia da parte delle autorità ecumeniche verso i soggetti collettivi minori, sia da parte delle autorità interne di questi soggetti verso I «privati» rientranti nella loro giurisdizione; e segnatamente, sia da parte delle autorità comunitarie internazionali verso gli Stati titolari della sovranità, sia da parte delle autorità interne di questi Stati verso i privati titolari di diritti di proprietà o affini alla proprietà. Le categorie giuridiche più messe in crisi dalla mutazione epocale in corso sono precisamente - nei loro aspetti assolutistici - quelle di sovranità e di proprietà.

 

            2.3.5.   Pléroma culturale e modernizzazione.

 

          Sulla questione del diritto all'identità culturale, pur dichiarando che è forse quella cui sono personalmente più sensibile, sento però il dovere di aggiungere che se tra i valori del pléroma auspicato ha priorità l'humanum di base, allora il processo di potenziale sterminio delle culture etniche e ideologiche perdenti da parte della cultura egemone non può considerarsi come propriamente tragico, perché da un lato sembra moltiplicare le chances di sopravvivenza fisica, dall'altro fornisce pur sempre i mezzi per accedere a una cultura (quella moderna, caratterizzata nei suoi aspetti umanistici da scienza-tecnica, utilitarismo, liberalsocialismo) difficilmente diagnosticabile come addirittura insufficiente a garantire l'humanum di base. Un pianeta culturalmente omogeneo nel senso di tutto uniformemente modernizzato sarebbe certo povero e riduttivo. Ma correggerei il senso di tragedia con almeno tre considerazioni. a) Come già detto, confrontata a ciascuna singola cultura pre-moderna, quella moderna non è poi troppo peggiore. Ora, gli uomini hanno finora vissuto esclusivamente in culture singole e separate. b) La cultura moderna, pur minandolo di fatto, accetta o tollera in linea di principio un pluralismo culturale, che dovrebbe consentire alle culture perdenti, almeno a quelle ideologiche (come quelle religiose), di sia pure stentatamente sopravvivere. Più grave, certo, la sorte degli specifici culturali etnici e delle relative lingue; ma ripeto, il loro deperimento endemico non priva alcun uomo di cultura e di lingua; salvo forse nelle sterminate favelas o bidonvilles delle neo-megalopoli del Terzo mondo, dove all'espianto culturale non segue, talvolta, alcun nuovo impianto, e resta solo l'abbrutimento, la disidentità, il no man's life privo di nome e forma. c) Oltre che teoricamente aperta al pluralismo, la cultura moderna è forse capace di innesti e di recuperi anti-riduttivi non meno di altre. Inoltre, è probabilmente irreversiblle. Serpeggia un po' per tutta la ricerca, ma viene detto esplicitamente da Gorassini-Gaeta, che la sola via percorribile non è una de-modernizzazione, ma un superamento della fase neofitica del moderno (scientismo tecnologico, epistemologia e ideologia «lineare» del dominio, macchinismo, consumismo), forse una ultra-modernizzaizione. Non sarebbe insomma la modernizzazione (e in particolare la scienza) avanzata, ma la modernizzazione (e in particolare la scienza) ancora arretrata, quella in cui appunto ci troviamo, a mettere in pericolo sia la ricchezza e abitabilità dell'ambiente e la qualità della vita, sia la ricchezza e multidimensionalità culturale e spirituale. Il moderno avanzato potrebbe, attraverso una dura critica del moderno arretrato, svilupparsi in senso pleromatico. E forse esso solo potrebbe, ormai, svilupparsi in tale senso.

Non si può infatti non notare che una volta avviato il processo di modernizzazione nessuna cultura è in grado di sottrarvisi; e che con lacrime di coccodrillo, ma pur sempre con lacrime, i paesi resi avanzati e ricchi dalla modernizzazione si curvano sui paesi arretrati e poveri per affermarne i valori forse non meno di quanto questi momentaneamente possano fare. È evidente che beni ambientali sommi come l’Amazzonia o l'Himalaya sono affidati a Stati economicamente, politicamente, forse anche culturalmente inadeguati. Ma in linea generale, purtroppo, quasi tutti I gruppi umani non modernizzati sono inadeguati a tutelare il loro ambiente e la loro cultura senza l'aiuto e l'intervento di quei popoli, o meglio delle elites spirituali di quei popoli, che nelle loro facce spirituali li degradano e li spingono ad autodegradarsi. In ogni caso è sperabile che colossi umani come la Cina e l'India sappiano sviluppare delle sintesi originali nell'impatto non schivabile con la modernizzazione, e al tempo stesso rispettare, nel prossimo secolo che vedrà la loro ascesa travolgente, il buono di quelle isole di alta cultura moderna cui sia dato sopravvivere in area europea e americana.

 

            2.3.6.    Ecumenicità e verità.

 

       Vorrei terminare questa parte sul valore considerando alcune retroazioni che il problema della tutela ambientale sembra poter esercitare su tecnologia, diritto, economia.

La questione ambiente è quella che più palesemente si pone come «olistica» o ecumenica. Più di ogni altra essa concerne il pianeta e l'umanità come sistemi unitari. L'esaurimento delle risorse, l'inquinamento, la modificazione di equilibri ecologici antichissimi hanno aspetti che assolutamente eccedono le frontiere nazionali. In prospettiva una modernizzazione del tipo attuale, arretrato, estesa paritariamente, su livelli di consumo paragonabili a quelli euro-americani odierni, a tutti i popoli potrebbe non solo distruggere la meravigliosa ricchezza e varietà della biosfera preparata da centinaia di migliaia di secoli di evoluzione pre-umana, ma mettere in pericolo, con la qualità della vita, la stessa sopravvivenza dell'uomo. La coestensività dell'intervento tecnologico alla biosfera, anzi all'insieme dei presupposti della perennità umana, induce, dopo due-tre secoli trionfalistici, a pensare che «determinate premesse cognitive hanno esaurito la loro funzione come strumenti adattivi di sopravvivenza» (Tallacchini). È molto chiaro: l'espansione lineare del dominio entra in crisi quando raggiunge i confini stessi del dominabile. Rinasce, allora necessitatamente, dalla provvida penuria, l'eco-nomia come buona amministrazione della casa, della dimora (oikos) comune, perché l'ambiente non è più una estensione selvaggia da assoggettare ma un patrimonio delimitato da gestire. La coestensività rende eco-nomici tecnologia, diritto, la stessa economia; più profondamente: li consegna ciascuno alla propria verità (di essenza, oltre che di contenuti). In particolare, la tecnologia si conosce arte della valorizzazione della natura per la pleromatica perennità umana; il positivismo e lo statalismo giuridici vengono superati: un diritto «coestensivo» è necessariamente un diritto «naturale» e un diritto «ecumenico». Addirittura il diritto naturale primario (quello per cui i beni materiali e spirituali sono di tutti gli uomini) guadagna terreno sul diritto naturale secondario (quello, derivante dal peccato, per cui si giustificano la sovranità politica e la proprietà privata). S'inverte il trend segnalato una volta come definitivo da Piovani, il trapasso dal diritto naturale (antico) ai diritti naturali (moderni): la coestensività fa tornare, almeno nelle grandi linee portanti, dai diritti naturali al diritto naturale, il diritto di ciascuno apparendo come un quoziente (Villey). Riprende vigore il concetto tanto parvipeso di bene comune. Ri-entrano tra i beni giuridici anche quelli non appropriabili individualisticamente, i beni communes omnium (Tallacchini). Tutto questo ri-medievalizza il diritto ecumenico, tende a dare alla comunità planetaria dei popoli una fisionomia simile a quella di una comunità di alta valle alpina nel regime antichissimo e virtualmente perenne dell'economia fraterna di penuria. Regressione? Se l'uomo è, come è, un'infinità intenzionale nel limite spazio-temporale, non regressione ma semplicemente, ripeto, verità. E trasferimento della ricerca di espansione illimitata dall'esteriorità all'interiorità. La questione ambiente impone una nuova sintesi, post-moderna, tra azione e contemplazione, con primato finalistico della contemplazione.

 

 

3.          SOGGETTIVITÀ

 

             Il nostro secondo criterio di meritevolezza di tutela è il «possesso», da parte di un'entità qualsiasi, della soggettività. Ricordo velocemente i suoi rapporti col valore. La soggettività è il destinatario specifico del valore come qualità relazionale, qualità-per. Essa si pone, insieme al valore, come una seconda trascendenza rispetto al mondo del fisicalismo. È infatti inaccessibile agli strumenti e ai calcoli della scienza fisica: un'ipotetica mente dotata solo di conoscenze fisiche, e fosse pure della totalità delle conoscenze fisiche, non incontrerebbe mai la soggettività, che è accessibile solo per autocoscienza o per, abili accoppiamenti scienza-autocoscienza. Tuttavia, per quanto accessibile e anzi indubitabile a se stessa, la soggettività resta, a se stessa e alle proprie descrizioni e concettualizzazioni filosofiche, irrappresentabile, inoggettivabile e misteriosa. L'ente dotato di soggettività richiede una tutela diversa dall'ente dotato di valore; e una tutela indipendente da considerazioni di valore e tanto più di rarità; ma per la correlazione soggettività-valore ogni tutela del valore è anche, indirettamente, tutela della soggettività.

Nell'ambito della nostra ricerca, è parso opportuno distinguere tra soggettività per così dire centrale (quella dell'adulto normale sano, pienamente partecipe della comunicazione culturale) e soggettività marginali, o, con altra metafora, tra soggettività «meridiana» e soggettività «crepuscolari». La prima sembra sufficientemente tutelata dalla religione civile dei diritti dell'uomo e dalle Costituzioni umanistiche del dopoguerra, e non costituire quindi un problema emergente. La ricerca ha scelto perciò come «pupilli» le soggettività marginali o crepuscolari. Tuttavia, a parte il fatto che la tutela è ancora in molti paesi, e per qualche aspetto in tutti, dolorosamente solo sulla carta, ci sono almeno tre ragioni per trattare anche, e preliminarmente, della soggettività centrale. La prima è che il riduzionismo scientista costitutivo del moderno rende impossibile pensare e affermare la soggettività, che come sappiamo si sottrae alla presa della scienza. Ora, ciò che «non esiste» sul piano teorico difficilmente resiste sul piano pratico: nei tempi lunghi si può temere una tutela sempre meno sicura. La seconda ragione è che la scienza-tecnica moderna è in grado di approntare manipolazioni della mente via corpo di una potenza senza precedenti. La terza ragione è che non si può discernere il marginale senza avere un punto di riferimento centrale, non si può riconoscere l'analogo senza disporre di un princeps analogatum. Non si può quindi affrontare il problema delle soggettività marginali o dubbie senza un riferimento alla soggettività centrale.

 

3.1.    La soggettività centrale.

 

         La ricerca ha commissionato a se stessa alcuni stati dell'arte sulla soggettività. Con un'inevitabile dose di arbitrio, se ne erano scelti tre non-riduzionistici e due riduzionistici. I non-riduzionistici dovevano essere: due sulla soggettività «per sé», ossia quale si manifesta a se stessa via autocoscienza, in prospettiva fenomenologica; uno sulla soggettività «in sé», come entità sussistente, in prospettiva ontologica. Di fatto, sono stati portati a termine due significativi sondaggi fenomenologici, quello di Filipponio sull'io trascendentale in Husserl e quello di Donfrancesco sull'io immaginale di Jung. A me era affidato uno stato dell'arte sulla psicologia metafisica, ossia sul de anima nella tradizione platonico-aristotelico-scolastica; pressato dal tempo, ho dovuto limitarmi al minimo cenno che si trova qui di seguito al § 3.1.1. I due stati dell'arte riduzionistici, o piuttosto in prospettiva riduzionistica, dovevano essere: uno su mente e sistema nervoso centrale, affidato a un biologo, e rimasto ineseguito; uno su mente e intelligenza artificiale, ed è quello di Coradeschi qui presente.

Prima di passare al mio modesto compendio ontologico, credo di poter trarre dai tre contributi ora menzionati, e senza che questo tolga nulla alla necessità e al gusto di leggerli per intero, la conclusione che la soggettività come si coglie per autocoscienza è davvero un quid completamente diverso da qualsiasi oggetto materico-energetico-informazionale accessibile alla fisica latamente intesa. Questo non scalfisce l'interesse cruciale della linea di ricerca riduzionista nelle sue due grandi branche biologica e informatica; ma come minimo esige l'adesione a una posizione dualista nel senso dato al termine per esempio da Parfit: «gli eventi mentali non sono eventi fisici. Ciò può essere vero anche se tutti gli eventi mentali sono causalmente dipendenti da eventi fisici verificatisi in un cervello» (o domani in un calcolatore). Nessun simulatore di comportamento conoscitivo-cosciente, nessuna per quanto perfetta macchina di Turing, sarà realmente interessante se non produrrà proprio conoscenza-coscienza; e a quel punto la conoscenza-coscienza sarà cosa completamente diversa dalla macchina conoscente-cosciente, come il mentale lo è oggi dal corporeo nell'uomo. Chiamo questa tesi incontrovertibile, e ampiamente incontroversa, tesi dell'eterogeneità;

 

            3.1.1. La psicologia metafisica.

 

         È proprio dalla tesi dell'eterogeneità che parte anche la psicologia metafisica. Il suo è un itinerarium metitis in animam, e a mente in animam: dal mentale, ossia dall'insieme degli atti e stati interiori accessibili solo all'introspezione, si passa all'anima come loro supporto ontologico. Il passaggio è consentito dal principio agere sequitur esse, «si agisce come si è», e dunque è lecito dal modo dell'agire inferire il modo dell'essere: per cui ciò che compie atti materiali è materiale, ciò che compie atti misti materiali-spirituali è materiale-spirituale, ciò che compie atti puramente spirituali è spirituale. La tesi dell'eterogeneità afferma che gli atti mentali sono o misti o puramente spirituali, e dunque il loro supporto non può essere una sostanza tutta materiale, ma dev'essere o un composto materiale-spirituale o una sostanza spirituale.

L'immaterialità della mente può essere accertata almeno a quattro livelli: quello della sensazione-percezione (sensi esterni); quello della immaginazione-fantasia (sensi interni); quello della intellezione (concetto, giudizio, ragionamento); quello dell'autocoscienza o dell'io. Questi livelli riguardano i soli aspetti conoscitivi della mente, ma si potrebbe fare, in parallelo, l'analisi dei vari livelli della vita appetitiva o affettiva o volitiva: ai sensi esterni corrispondono i desideri sensibili o sensuali, ai sensi interni corrispondono in qualche modo i sentimenti, alla ragione o all'intelletto corrisponde la volontà razionale che sceglie i suoi scopi e i suoi criteri in base a principi oggettivi e universali, all'autocoscienza corrisponde l'affermazione e l'amore di sé e quella sorprendente autoscelta che chiamiamo la libertà. Noi ci limiteremo qui agli aspetti conoscitivi e alla libertà.

 

            A. La sensazione, anzitutto, pur non potendo prodursi senza un impulso fisico misurabile, e pur mettendo in contatto il senziente esclusivamente con realtà fisiche, non è di per sé un fatto fisico, ma intenzionale. La proprietà del corpo sentito non passa nel corpo senziente come proprietà omogenea di quest'ultimo, ma vi passa in quanto proprietà del corpo sentito. Sentire un corpo come caldo o vederlo come  verde non significa diventare caldo o verde. Significa proprio diventare tale da sentire quel corpo come caldo o come verde. E ovviamente la sensazione di caldo o di verde non è né calda né verde, non ha alcuna delle qualità sensibili secondarie.

Meno ancora ha le qualità fisiche primarie, quelle puramente quantitative che risiedono nella materia indipendentemente dalla configurazione degli organi percettivi del soggetto senziente. Non ha estensione o figura o volume: non si può dire che la percezione di un triangolo o di una sfera è triangolare o sferica, che quella di una cosa grande è grande o quella di una cosa piccola è piccola; e comunque è inaccessibile alla misurazione nello spazio, non ha le caratteristiche della res extensa; è estranea alla geometria. Ugualmente è estranea alla fisica e alla chimica: non ha massa, peso, composizione atomica o molecolare; è inaccessibile agli strumenti scientifici. Alla sensazione si accede esclusivamente attraverso la sensazione stessa o attraverso altri atti coscienti. È vero che modificando gli stati del cervello di un uomo o di un animale si modificano le sue sensazioni, ma noi sappiamo che ci sono sensazioni collegate agli stati del cervello perché le abbiamo e non perché conosciamo il cervello. Se conoscessimo solo il cervello non potremmo mai sospettare che esistono fenomeni come la sensazione e che il cervello è sede di sensazioni; la fisica del cervello non incontrerà mai una sensazione sentita.
È fondamentale la differenza tra sensazione e registrazione. Un robot con al posto degli occhi due macchine da presa miniaturizzate filma tutto il visibile antistante; ma nulla viene visto. Lo stesso vale di un robot munito di due registratori al posto degli orecchi. L'animale invece è veramente capace di vedere, di udire, di godere, di soffrire; ma lo sappiamo solo in quanto proiettiamo in lui questi atti o stati mentali in base alla somiglianza del suo comportamento e del suo sistema nervoso ai nostri (come facciamo del resto con gli altri uomini). Anche l'animale quindi, contro Descartes e i suoi incredibili animali-macchina, trascende la res extensa e il mondo fisico. Il mistero della sensazione è che essa è nel mondo fisico ma non è del mondo fisico. Cosa ci sia nel cervello di un animale perché lui senta mentre la macchina semplicemente registra, questo tuttora non si sa. Ma certo proprio questo suggerisce il concetto di anima (sensitiva), che possiamo anche definire appunto come quell'X che fa sì che l'animale sente e la macchina no. Suggerisce il principio della tutela dell'animale e non della macchina, in base alla soggettività. Suggerisce il senso del mistero dell'animalità.
Al tempo stesso (anche qui, ma in modo inverso, bisogna essere aristotelici e non cartesiani) la sensazione è operazione non solo spirituale ma mista, operazione del composto corpo-anima, operazione organica. Non può avere sensazioni la macchina, ma neppure l'angelo (e forse Dio). L'oggetto della sensazione è intrinsecamente caratterizzato dalla materialità; non si danno sensazioni senza fenomeni fisici presenti qui e ora e senza organi fisici attivi qui e ora; l’occhio, l'orecchio non è una semplice finestra dell'anima, ma la visione in se stessa è intrinsecamente «oculare» come l'audizione è «auricolare» (e forse non un occhio né un orecchio, umano o animale, è uguale a un altro).

 

           B. La caratteristica della immaginazione o fantasia rispetto alla sensazione o percezione è che con l'immaginazione io mi rappresento degli enti sensibili, materiali, anche in loro assenza, ossia senza che vengano esercitate sui miei organi percettiviazioni fisiche misurabili provenienti dal mondo circostante. Io posso «vedere» a occhi chiusi o al buio, «udire» nel silenzio. Mentre la sensazione ha una sua ubicazione precisa, l'immaginazione è per così dire extraterritoriale. Al tempo stesso l'immaginazione è solo di oggetti materiali, accessibili a uno almeno dei sensi esterni: possiamo avere solo immagini visive, acustiche, tattili, olfattive, gustative o loro combinazioni. Abbiamo immagini di oggetti fisici assenti o inesistenti, ma non di oggetti non fisici, non connotati dalla singolarità. Non abbiamo immagini (di) universali.

 

            C.  Fin qui siamo rimasti all'interno della mente sensitiva. I suoi due livelli di immaterialità ne fanno già qualcosa che supera il mondo fisico e non è riducibile a fenomeni fisici. Ma la tesi dell'eterogeneità si rafforza ancora molto col passaggio al livello intellettivo. La psicologia metafisica afferma, con buoni argomenti, che l'intelletto di cui l'uomo è dotato supera essenzialmente i sensi, sia esterni che interni. Mi limiterò ad alcuni argomenti concernenti la differenza tra il concetto (livello intellettivo) e l'immagine (livello sensitivo) nel caso di quei concetti che chiamerei non-naturalistici o non-figurativi, i quali hanno come supporto fisico le sole immagini linguistiche: per esempio tutti i concetti evocati dai segni fisici che formano questo capoverso. A nessuno di essi corrisponde una qualsiasi immagine naturalistica, del tipo di quelle che possono accompagnare concetti come «triangolo» o «albero». È quindi pacifico che essi non sono atti organici, intrinsecamente dipendenti da un organo sensitivo del corpo umano. Il loro unico supporto fisico, ripeto, è dato dai segni o fonici o grafici appartenenti a una determinata lingua, a un determinato alfabeto. Ebbene, è subito evidente che nei significanti non c'è nulla di ontologicamente simile ai concetti significati. Il concetto di concetto è cosa totalmente diversa dal suono corrispondente all'italiano «concetto» o dal grafismo CONCETTO; come lo è dal suono corrispondente al Tedesco «Begriff» o dal grafismo BEGRIFF. Ogni concetto può essere espresso e comunicato da un numero forse infinito, certo indefinito di immagini, foniche o grafiche, in tutte le lingue e in tutti gli alfabeti reali o immaginabili, in tutte le pronunce, in tutte le grafie reali o immaginabili. La differenza ontologica tra pensiero e linguaggio è dunque radicale; non meno radicale di quella tra sensazione: e registrazione, o tra mente e sistema nervoso centrale. È chiaro che non può aversi pensiero concettuale umano senza immagini almeno linguistiche e senza sistema nervoso centrale ma è ancora più chiaro che il pensiero concettuale è qualcosa di radicalmente eterogeneo e irriducibile a questi pur necessari supporti materiali. In particolare, il concetto è un verbum intellettuale che in nessun modo si identifica con le immagini, naturalistiche o linguistiche, senza le quali non può essere umanamente pensato; è distinto essenzialmente da ogni possibile immagine. A identici risultati si arriverebbe infatti solo un po' più laboriosamente, studiando la differenza tra il concetto (universale) e l'immagine naturalistica, per esempio tra i concetti e le immagini di triangolo o di albero, di poligono o di pianta.

Lo stesso vale della proposizione e del ragionamento, che sono anch'essi atti spirituali nel senso di non legati intrinsecamente ad alcun organo del corpo, verba intellettuali esprimibili e comunicabili solo materialmente, ossia linguisticamente, ma non riducibili ad alcuna delle loro infinite manifestazioni linguistiche o ad alcuna eventuale imagine naturalistica. Anzi forse la differenza tra intellezione e immaginazione, tra intellezione e linguaggio, si coglie ancora più evidentemente analizzando la vera e propria azione di pensiero concreta, che è il discorso, termine col quale designerei non solo il giudizio e il ragionamento, ma, più ampiamente e meno tecnicamente, ogni processo intellettivo-linguistico di una certa lunghezza e autosufficienza, per esempio appunto il discorso che stiamo qui svolgendo, o anche solo la frase compresa tra il precedente e il prossimo punto.
Nell'iniziare e nel proseguire il discorso, da un lato non si sa ancora bene cosa si «vuole dire» (ossia cosa si pensa) finché non lo si è detto, ossia tradotto in figure materiali; e d'altro lato «lo si sa», perché le figure materiali non soddisfacenti vengono corrette; in ogni caso, non esistono immagini antecedenti alla produzione del discorso, il quale non viene letto su uno schermo interiore, ma si produce a partire da una sorgente invisibile, a partire da un punto inesteso, pur estrinsecandosi poi come successione di segni, come fenomeno sempre temporalmente, spesso anche spazialmente, esteso. Nel discorso c'è dell'esteso - la successione delle parole - che nasce continuamente, e come a sorpresa, dall'inesteso: da uno stranissimo punto inesistente, che possiamo chiamare «il punto X scaturigine del discorso». Questo punto è strettamente irrappresentabile; è irrappresentabile eppure c'è; è un irrappresentabile presente. Ora, poiché non abbiamo alcuna immagine che corrisponda al punto o all'istante intellettivo da cui scaturisce la stringa del discorso, dobbiamo ritenere che «lì» si trova - tutto raccolto in sé, e particolarmente potente – un verbum intellettuale generatore di parola, che conosce se stesso nella parola ma non coincide con la parola né con altra figura o immagine di qualsiasi tipo.
A questo verbum iniziale, anticipatore, corrisponde, al termine della stringa verbale materiale, un simmetrico verbum ricapitolatore, quello in cui viene colto, da chi sente o legge, il significato del discorso. Questo significato si coglie tutto-insieme, in un istante, l'istante in cui batte l'accento sull'ultima parola, sebbene occorra avere percepito (e ricordare attualmente, fin dall'inizio) ogni singolo segmento della frase materiale estesa. Dunque il discorso è una stringa materiale estesa (percepita o immaginata) tra due verba spirituali inestesi: quello della scaturigine, dell'anticipazione, e quello del coglimento del significato, della ricapitolazione. (E nel corso della frase accadono tanti altri episodi triplici dello stesso tipo: istante/tempo/istante, microscaturigine/microsegmento materiale successivo/microricapitolazione, un episodio per ogni unità semantica, ossia per ogni parola e proposizione di cui è composto il discorso complessivo).
Questa analisi del discorso e delle sue parti completa l'illustrazione della differenza tra mente e materia (e segnatamente tra intellezione e percezione o sensazione) sotto il profilo temporale. Tutto avviene come se passando al mentale nei suoi vari livelli si cambiasse anche genere di tempo: al livello della sensazione il tempo è ancora quello spazializzato; al livello intellettuale sembra addirittura che si passi dal temporale al sovratemporale, dal successivo e distanziato, partes extra partes, all'istantaneo e toti-simultaneo. Questo ritmo istante/durata/istante, che si coglie nel ritmo significando/memoria/significato proprio del discorso, è straordinariamente simile (posto che l'istante iniziale anticipatore e l'istante finale ricapitolatore coincidessero) al ritmo secondo cui la metafisica creazionista concepisce la vicenda del mondo, distesa tra l'alfa e l'omega istantanei e simultanei divini. Temporalmente, Dio starebbe al mondo «come» il verbum intellettuale al discorso o «come» il significato al significante.

 

            D. Al livello dell'autocoscienza o dell'io umani l'eterogeneità rispetto alla materia si esalta ancora. Per quanto meta-geometrici, meta-fisici, meta-territoriali, meta-temporali, meta-sensoriali, meta-immaginali, meta-linguistici, i singoli verba intellettuali (dal concetto al giudizio, dal ragionamento al discorso) conservano una loro determinazione e una loro oggettualità che rendono possibile rispettivamente circoscriverli/afferrarli e contrapporli alla mente come «cose, là-davanti». In questo senso hanno ancora una sorta di (analoga) «materialità». Ma il fatto mentale «autocoscienza» o «io alla prima persona» è privo anche di questi ultimi due aspetti di para-materialità. Da un lato è indeterminato, incircoscrivibile, inafferrabile; dall'altro è non-oggettuale, non-contrapponibile non-là-davanti, e caratterizzato invece da presenza a se stesso, da coincidenza intenzionale con se stesso, dal trovarsi sempre «alle proprie spalle» comunque si volti per guardarsi, dall'essere sguardo non guardabile sempre guardante (l'io-pensante pensato è pensato dall'io-pensante pensante ed è cosa diversa dall'io-pensante pensante...). Torniamo un po' più ampiamente su questa incircoscrivibilità e su questa non-oggettualità, non-esteriorità, riflessività.

         a) Incredibilmente versatile, incredibilmente vorace, il fatto mentale autocoscienza o io si attribuisce tutti i fatti mentali di tutti i livelli fin qui esaminati: tutte le «mie» sensazioni, percezioni, immaginazioni, emozioni, tutti i «miei» sentimenti, tutte le «mie» concezioni, tutti i «miei» giudizi, ragionamenti, discorsi, tutte le «mie» preferenze, scelte, volizioni, tutte insomma le «mie» esperienze coscienti dal sensibile all'intellettuale; tutte si appropria e tutte trascende.

Ha infatti un ulteriore carattere non-materiale: l'orizzonte su cui si apre, o da cui trae la propria apertura, è in senso tecnico trascendentale, si estende quanto tutto l'essere e il possibile, dal materiale allo spirituale, dal finito all'infinito, dall'immanente al trascendente, dal già al non ancora. Anche questo contribuisce alla sua peculiare incircoscrivibilità e inafferrabilità, e anche questo, probabilmente, lo distingue da qualsiasi algoritmo, perché come scrivere il programma finito della trascendentalità? Se in base alla classica, augusta definizione chiamiamo spirito quella intenzionalità (conoscenza, amore) che è aperta all'essere in quanto essere, al valore in quanto valore, allora lo spirito trascende ogni programma perché trascende ogni natura particolare, ogni essere questo-o-quello, ogni coartazione dell'essere entro una quiddità categoriale. Sta qui senza dubbio una delle radici della dignità incomparabilmente maggiore da riconoscere alla vita umana rispetto alla vita animale, che è (quasi?) tutta natura.

          b) Non meno eterogeneo alla materia il carattere dell'auto-coscienza nel senso specifico della riflessività. Esso può descriversi sotto molti profili, secondo molte strategie. La psicologia metafisica classica non ignora certo il fatto awareness, stato di veglia, non-sonnambulismo; forse non lo sottolinea in modo particolare, come saremmo portati a fare noi dopo l'irruzione dei computer con la loro apparentemente immensa capacità di «pensiero» calcolante la loro apparentemente nulla consapevolezza. Neppure è troppo sensibile, la psicologia metafisica classica, al fenomeno affascinante tra tutti per la sensibilità filosofica moderna, della soggettività come io o sé, moi, Ich-Pol, self, ossia della centratezza del campo intenzionale, dell'essere la coscienza un io e i fatti di coscienza «suoi». In compenso, l'onto-psicologia classica è molto attenta a osservare che la mente umana conosce non solo tutte le cose, ma anche se stessa, e particolarmente se stessa nei propri atti, negli atti delle proprie facoltà, compiendo quella reditio completa o perfetta su di sé per cui non solo una facoltà dell'anima può conoscere le altre (ad esempio, l'intelletto le sensazioni), ma una facoltà (l'intelletto) conoscere i propri atti di conoscenza, e se stesso in questi atti di conoscenza. L'occhio tipicamente ontologico del classico vede in questa reditio il segno della spiritualità. Infatti, là dove è «oggetto» conosciuto lo stesso conoscente in atto, si ha un'entità che agisce su se stessa: il conoscente-«oggetto» determina il soggetto del conoscere, lo muove, lo muta; il conoscente, conoscendo X, si determina, si muove, a conoscersi. Ma, dice san Tommaso in Summa th. I, q. 87, art. 3, ad 3 seguendo Aristotele, «non est possibile quod aliquid materiale immutet seipsum», non è possibile che qualcosa di materiale modifichi se stesso; nella materia «unum immutatur ab alio», l'azione di un ente materiale si esercita sempre su un altro ente materiale, per esempio la mano destra può colpire la sinistra, non può colpire se stessa, perché la materia è estraniata da sé, partes extra partes. Invece il conoscente facendosi conoscere a se stesso agisce causalmente su sé medesimo e dunque è non-materiale, è spirituale. La mente umana insomma è spirituale sia perché, come abbiamo visto, conosce le cose materiali smaterializzandole, sia perché compie atti immateriali, sia perché conosce cose immateriali, sia infine perché conosce se stessa o determina se stessa a conoscersi, e questo può farlo solo un ente immateriale.

 

       E. Si può forse ritenere macchinosa l'interpretazione dell’autocoscienza come auto-modificazione, auto-causazione, azione del conoscente-in-atto su se stesso. Si può forse preferire un'interpretazione più immediata, più semplice: il conoscente autocosciente è auto-presente, auto-trasparente, e questo non è della materia, perché la materia è esterna a se stessa, quindi opaca a se stessa. In ogni caso l'agire su di sé appare pienamente evidenziato nell'atto libero della volontà, nell'auto-scelta, nell'auto-ctisi, nell'auto-determinazione a essere questo o quello, a fare questo o quello.

       Certo, i classici privilegiavano l'analisi e la spiegazione della libertà compiute guardando al rapporto della volontà con l'oggetto. Meno di noi moderni ripiegati sul soggetto, concepivano primariamente la volontà come desiderio, desiderio trascendentale, e spiegavano la sua libertà di scelta nei confronti di ogni oggetto finito attraverso il suo essere fatta per l'infinito, unico capace di necessitarla. Ma non ignoravano l'atto di «impero» della volontà sulle altre facoltà e anche su se stessa, che forma l'esempio principe dell'agilità davvero acrobatica, contorsionistica, della mente. Io mi conduco e riconduco a pensare questo piuttosto che quello nella meditazione: la mia mente fa essere se stessa quale si vuole, e quale un attimo prima neppure sapeva (se il tema di meditazione mi è stato appena suggerito dal maestro). Io mi sforzo, mi impongo, di voler bene a mia moglie nell'opera diuturna della fedeltà coniugale; o voglio studiare di più; o voglio smettere di fumare: è un voler volere. Anche qui trovo la riflessività. E non meno evidentemente ritrovo l'inestensione: questa volta è il punto X scaturigine dell'azione, capace di mettere in moto processi successivi in lui precontenuti ma non certo esplicitamente. Dunque io mi faccio essere ciò che voglio, e a partire da qualcosa che «preesiste» non certo come un algoritmo o un programma già tutto implementato. Io agisco su me stesso a partire, si direbbe, dal nulla. Nessun set di motivazioni può infatti sostituire l'atto di volontà quando io non sono semplicemente soggiogato da impulsi e «fuori di me».

Si potrebbe obiettare: sia nell'autocoscienza, sia nell'autodeterminazione non è la mente ad agire su se stessa, è una facoltà della mente ad agire su un'altra, come quando la mia mano destra colpisce la sinistra. Quindi la mente non è perfettamente spirituale. Per esempio, si potrebbe sostenere che nel sapere di conoscere il «sapere di» è atto di una facoltà diversa dal conoscere; che nel voler voler bene il volere e il voler bene sono facoltà diverse. E naturalmente che sono presenti facoltà diverse nell'essere consapevoli di volere come nel voler essere consapevoli o nel voler meditare questo piuttosto che quello.

A me sembra che in ogni caso rimanga indiscutibile il fatto dell'auto-trasparenza e dell'auto-docilità, della mente presa come un sistema dinamico unitario. Tutto ciò che accade nella mente è auto-trasparente; tutto ciò che accade nella mente è sottoposto o almeno esposto al volere della mente stessa. Qui non interessa il grado della consapevolezza o della forza di volontà: ci sono uomini scarsamente consapevoli, quasi opachi a se stessi, e uomini scarsamente volitivi, preda degli impulsi, degli sgomenti, delle circostanze. Globaliter l'uomo medio ha quel tanto di consapevolezza e di autodeterminazione che consente di attribuirgli queste caratteristiche come sua dotazione ontologica. In fondo basta un solo atto, o la possibilità di un solo atto di autocoscienza o di autodeterminazione per attribuirle. Interessa piuttosto evitare di autonomizzare troppo le singole facoltà, quasi che la mente fosse una somma o un sistema di sostanze separate, di parti reciprocamente esterne.
La sostanza mentale, dicono tenacemente i classici, è «una» con se stessa, è semplice, è priva di vere e proprie parti, è tutta in ogni «punto», non consta di un principio formale-attuale e di uno materiale-potenziale come invece l'uomo, è tutta formale-attuale almeno quanto all'essenza, l'unica «composizione» che conosce è la composizione essenza-esistenza che affetta ogni ente non necessario. Certo, più l'io è uno-semplice, più gode di perfetta riflessività anche nel volere, perché l'io agisce sull'io.
Tutto questo ha storicamente suscitato e tuttora giustificatamente suscita dubbi, negazioni e profondissimo thaumazein. Sono poi sempre in definitiva le negazioni dell'empirismo, che a ogni nuova generazione culturale si propone con sempre nuovi argomenti (oggi vedrei come particolarmente insidiose le ipotesi algoritmiche della mente formulate dall'intelligenza artificiale «forte»); ed è il thaumazein degli spiriti genuinamente realizzanti e non-riduttivi, tra i quali va certamente annoverato un empirista mistico come Wittgenstein.

 

     F. Anche al livello dell'autocoscienza e dell'autodeterminazione, comunque, il reperto fenomenologico (non dico ancora ontologico) accumulato a favore della tesi dell'eterogeneità può dirsi, ritengo, incontrovertibile. E di fatto è quasi incontroverso anche presso i riduzionisti, quasi tutti ormai dualisti. Non solo i singoli fenomeni mentali, ma anche il loro centro stabile d'imputazione, il loro principio di unità sincronica e diacronica, l'io, si presenta come un fenomeno che non ha le caratteristiche della materia, che ha, positivamente, le caratteristiche dello spirito, in particolare l'interiorità a se stesso, l'unità, la riflessività, la trascendentalità; la creatività. Fin qui c'è accordo filosofico quasi universale, dagli ontologi spiritualisti classici fino agli empiristi e fenomenologi moderni. L'insieme dei fenomeni mentali, io compreso, appare alla mente più o meno come nella descrizione classica o perennis. I monisti duri («i fenomeni mentali sono fenomeni fisici») davvero si auto-escludono dall'umano consorzio dei portatori di buon senso.

      A partire da questo reperto si aprono forse quattro principali prospettive ontologiche:

 
F.1. Limitiamoci al reperto. L'io è (o va trattato come) solo fenomeno. La mente è un sistema «iico» di fatti mentali; tra questi lo stesso io, sebbene appaia come il principio causale degli altri. Registriamo fedelmente questa causalità fenomenica; ma facciamo solo fenomenologia, prescindiamo dall'antologia. I fatti mentali nel loro insieme, io compreso, esistono solo per la mente, non anche «al di fuori» di essa e per così dire «in sé», non anche «per i terzi». Precisamente l'apparire, l'apparirsi, è il loro esistere; esistono in quanto (si) appaiono. Sono degli entia rationis, ma di una «ragione» che consiste interamente in essi entia.

         Questa prospettiva potrebbe chiamarsi fenomenismo spiritualista.

 
F.2. Attribuiamo direttamente l'esistenza «in sé» ai fenomeni così come ci appaiono, e dunque l'esistenza causale-sostanziale all'io. I fenomeni ci si presentano come atti di un io agente, per esempio pensieri di un io pensante, volizioni di un io volente? Ebbene, le cose ontologicamente stanno proprio così; non c'è infatti motivo per dubitare di ciò che appare con tanta evidenza. Esiste  «in sé», «extramentalmente», «per i terzi», proprio quello che sperimentiamo nell'autocoscienza. Dunque esiste un sé o self, una sostanza-io, che «produce» atti, o «subisce» stati, mentali autocoscienti. Perché cercare un «ulteriore supporto» dell'io della mente? Perché non dire proprio ciò che sembra, «io esiste», «io sussiste»? L'io è supporto a se stesso (e agli altri fenomeni mentali). Mentre nella precedente prospettiva i fenomeni esistono in quanto appaiono, qui, oltre ad apparire, essi esistono (di esistenza in senso forte, extra-mentale) quali appaiono. Alla formula «F, non O», si sostituisce «F = O»: identità tra fenomenologia e ontologia.

        Questa prospettiva potrebbe chiamarsi ontofenomenismo spiritualista.

 
F.3. Tutto il mentale, compreso l'io della mente, l'io della diretta esperienza autocosciente, è accidentale nel senso stretto di sussistente non in sé, ma in alio. Gli occorre quindi un supporto sostanziale, sussistente in sé. Questo supporto non è, per definizione, oggetto di esperienza autocosciente, ma è termine di inferenza a partire dall'esperienza autocosciente. Poiché ci sono questi fenomeni, e non sono sostanze, occorre una sostanza «di cui» siano. Non è infatti concepibile qualcosa che esista senza sussistere in sé (sostanza) o in alio (accidente). Qui la formula è del tipo FàO; dalla fenomenologia si inferisce l'ontologia.
Questa prospettiva può denominarsi sostanzialismo, e ha due varianti principali.
 
F.3.1. Tutto il mentale-fenomeno è manifestazione o atto di una sostanza agente. Ma agere sequitur esse, il modo di manifestarsi/agire corrisponde al modo di essere. Ora, i fenomeni mentali sono di natura in vari gradi immateriale; al culmine, anzi, sono perfettamente immateriali, nel senso che pur abbisognando di sussidi in vario senso materiali, tuttavia non mostrano di avere alcun rapporto intrinseco, necessario, con questi sussidi, per esempio non è leggibile in essi alcuna intrinseca organicità (nel senso di collegamento a un particolare organo sensoriale), cerebralità, linguisticità (nel senso di vincolo a una specifica configurazione segnicomateriale in un linguaggio). Dunque la sostanza agente dev'essere anch'essa in vario grado immateriale e, al suo culmine, perfettamente immateriale. Non può essere il corpo. Deve essere un'«anima», ossia una sostanza spirituale. FàA. Così la maggioranza dell'umanità, e in Occidente formalizzazioni filosofiche quali platonismo, agostinismo, tomismo, cartesianismo, appunto quelli che ho finora chiamato i classici, con il sottoinsieme dei perennes. Non c'è spazio qui per entrare nelle loro differenziazioni, in particolare per discutere l'ilemorfismo aristotelico e i suoi sofferti rapporti con il sostanzialismo platonico nel tomismo, o la vertenza scolastica-cartesianismo.
 Possiamo chiamare questa prospettiva sostanzialismo spiritualista.
 
F.3.2. La sostanza agente di cui il mentale è manifestazione o atto è il corpo umano, in particolare il sistema nervoso centrale, corpo inteso come sintesi hardware + software, materia/energia + informazione/ organizzazione. La formula F ----> O si specifica questa volta in F ----> C.
Possiamo chiamare questa prospettiva sostanzialismo fisicalista o riduzionista. Poiché ho escluso dal novero dei portatori di buon senso, i monisti, i riduzionisti di cui parlo devono essere dualisti, e precisamente spiritualisti (o mentalisti) in fenomenologia, fisicalisti in antologia. Per fare questo devono o negare/trascurare il principio metafisico agere sequitur esse, ammettendo che fenomeni immateriali possano essere prodotti da un agente materiale; oppure accettare il principio, ma accentuare fortemente, decisivamente, gli aspetti di intrinseca materialità dei fenomeni mentali a tutti i livelli, col rischio di scivolare nel monismo. Per esempio, devono ricondurre il livello intellettivo, auto-riflessivo, trascendentale della mente umana a qualcosa di molto simile al livello sensitivo che, come abbiamo visto, per quanto non-fisico è intrinsecamente connesso a specifici, infungibili fenomeni fisici (esterni e organici).

      La psicologia metafisica classica o perennis oscilla tra l'onto-fenomenismo e il sostanzialismo spiritualisti. La questione, per noi, è secondaria. Essenziale è l'affermazione comune: esiste un io o un'anima che è una sostanza spirituale, non solo un fenomeno mentale o una funzione di un corpo. Vengono respinti sia il fenomenismo spiritualista sia il sostanzialismo riduzionista, come ontologie della mente entrambe (in modo opposto) inadeguate. Chiudendo il mio stato dell'arte, tengo a dichiarare che se da un lato vedo tutta la stranezza dell'irrappresentabile concetto di sostanza spirituale, dall'altro vedo anche tutta la forza degli argomenti a suo favore. Una controprova recente mi sembra offerta (cfr. Cordeschi, Taddei) dallo scetticismo diffuso presso quasi tutti i cultori di intelligenza articiale sulla possibilità di ottenere al computer vera intenzionalità, vera autocoscienza, vero stato di veglia, vera riflessività e libertà, vera trascendentalità. Solo pochi tra essi si chiedono a cosa sia dovuto questo loro scetticismo; qualcuno si rifugia nella enorme complessità del cervello umano; ma io credo che i più, se scendessero in sincerità, troverebbero dentro di sé argomenti molto simili a quelli dei classici. L'imbarazzo degli anti-sostanzialisti si coglie esemplarmente nel coscienzioso libro di Moravia, il cui partito preso di considerare le posizioni metafisiche e sostanzialiste come «irreversibilmente superate» induce piuttosto il lettore, messo a confronto con le difficoltà e a volte l'inanità delle proposte alternative, a considerare quelle posizioni come invece irreversibilmente non, superate, nel senso che dopo i drastici vagli subìti sembrano destinate a non cessare più di, come minimo, inquietare plausibilmente la ragione.

È appena necessario aggiungere che dall'accettazione della psicologia metafisica classica discendono conseguenze essenziali per il destino e il significato complessivi del mondo umano. Senza una sostanza spirituale infatti, non generata né assemblata né assorbita dai processi della materia, l'esperienza umana è per la morte o, se si preferisce, per la storia, ossia per quel tribunale che in ultima istanza conosce soltanto sentenze di morte. Il mondo umano sparirà dall'immensità cosmica. L'esigenza di giustizia, che lo sfruttatore, il carnefice, abbia una sorte diversa da quella della vittima innocente, rimarrà inesaudita. Il suicidio filosofico potrà sanzionare la sconfitta dell'etica sottraendo il soggetto assoluto (assoluto proprio perché capace di auto-annichilazione), a suo insindacabile giudizio, a ogni conversione e resa dei conti in una dimensione interpersonale.

 

            3.1.2. Le psicologie fenomenologiche.

 

         «Esaurita» la psicologia metafisica, una trattazione completa dovrebbe approfondire quelle ricerche sulla soggettività che complessivamente, con un certo arbitrio, chiamerei fenomenologiche, perché accomunate dall'intrapresa esclusiva o prevalente di descrivere la soggettività quale appare a se stessa. L'aggettivo «fenomenologiche» potrebbe non piacere ad alcune psicologie, il sostantivo «psicologie» ad alcune fenomenologie, in particolare alla fenomenologia nel senso più stretto e aulico, quella husserliana, che professa l'antipsicologismo. Si potrebbe se mai ricorrere a «coscienziologie». L'importante è il concetto: descrizioni della soggettività che non pongono (in primo piano) il problema della sua sussistenza, del suo essere «in sé», ma privilegiano il suo essere «per sé». Sono, nel pensiero moderno, talmente prevalenti da fornire uno dei parametri decisivi della sua stessa caratterizzazione rispetto al pensiero antico o classico. Io non voglio esporle né discuterle. Voglio solo segnalarle, per rafforzare quasi visivamente la tesi dell'eterogeneità e indebolire ulteriormente la posizione riduzionista monista, sia ditipofisico-biologico (mente = insieme di stati del cervello), sia.di tipo IA (mente = algoritmo), sia di tipo linguistico (pensiero = linguaggio), sia di tipo misto (mente = una qualche combinazione dei riduzionismi ora menzionati). E quindi accanto alla fenomenologia husserliana e alla psicologia non-riduzionista junghiana-hillmaniana trattate da Filipponio e Donfrancesco in questo volume, e limitandomi al tardo Ottocento e al Novecento, ricorderei: lo spiritualismo, soprattutto francese, da Maine de Biran al gruppo della «Philosophie de l'Esprit» di Lavelle e Le Senne; i neo-idealismi; Bergson; il personalismo o i personalismi; l'esistenzialismo o gli esistenzialismi, con forse particolare riguardo a Jaspers; le analisi della «seconda persona», della «parola fondamentale Io-Tu» (Buber, cui avvicinerei alcuni studi di Marcel); la psicologia o psico-fenomenologia esistenziale di Binswanger; e sebbene iscritta in un orizzonte tendenzialmente riduzionista, anche la ego- o soggettologia neo-empirista o filosofico-analitica nella linea di Hume e Wittgenstein, nemica dell'anima-sostanza ma forse anche per questo affascinata dalla eterogeneità (rispetto ai fenomeni fisico-oggettuali mondani) dell'io, del self, della persona, del Sé. Meriterebbe massima attenzione, anche per la sua recepibilità nell'orizzonte epistemologico moderno, la psicologia buddista, con la sua singolarissima sintesi di insostanzialismo (an-atman), dunque di negazione della (o prescissione dalla) metafisica dell'anima, e di annuncio delle inaudite possibilità evolutive aperte alla coscienza.

 

          3.1.3. La meritevolezza di tutela della soggettività centrale.

 

         Mi sembra che questo insieme imponente di ricerche fenomenologiche moderne, in larga misura complementari o proprio sovrapponibili alla fenomenologia coscienziologica incorporata nella psicologia metafisica perennis, sia sufficiente a fondare in modo solidissimo la meritevolezza di tutela della soggettività centrale. Basterebbero la trascendentalità della conoscenza e del desiderio umani, la riflessività come autocoscienza e autodeterminazione, la libertà e conseguente responsabilità etica, l'apertura sulla dimensione trans-fattuale del significato e del valore, l'infungibile esistenzialità e vocazionalità della vita umana a fondare quella tutela, anzi a renderla doverosamente incondizionata, ogni uomo essendo al tempo stesso unico e intenzionalmente coestensivo al Tutto. Del resto, come abbiamo già notato, non avrebbe senso tutelare il valore non la soggettività, i1 valore essendo qualità soggettuale riferita alla coscienza umana pleromatica e ogni coscienza umana essendo potenzialmente, vocazionalmente, pleromatica. Nel problema della tutela si può quindi, mi sembra, prescindere dall'ontologia e in particolare dal riconoscimento all'uomo dell'anima spirituale immortale; la noo- o psicofenomenologia è fondamento adeguato dei diritti dell'uomo inteso come soggettività centrale e di ogni altra eventuale entità, extraterrestre o prodotta dall'uomo, che risultasse dotata di soggettività centrale. Il riduzionismo fisicalista non può e non deve influire negativamente sulla tutela. La possibilità tecnica delle manipolazioni della mente via corpo non equivale alla loro liceità. Disponiamo, non solo come perennes ma anche come moderni, di un saldo princeps amilogatum al quale riferire il problema delle soggettività marginali. 

 

3.2.  Le soggettività marginali.

 

      Ci sono molte strategie possibili nell'estendere la discussione sulla meritevolezza di tutela dalla soggettività centrale alle soggettività marginali. Seguendo un ordine diverso da quello della ricerca, io andrò dal più vicino o affine al più lontano o dissimile, iniziando quindi con le soggettività marginali umane e procedendo, al loro interno, in ordine approssimativamente cronologico dall'embrione al morente.

 

            3.2.1. L'embrione umano.

 

 Il problema emergente con la modernizzazione è dato, nel caso dell'embrione umano, dalle nuove possibilità tecnologiche di fertilizzazione e manipolazione in vitro, di embrionicidio ed embriotrofia letale, di sperimentazione sull'embrione, di diagnosi prenatale sull'embrione in utero e conseguenti interventi - in caso di patologia - terapeutici o eliminativi. La complessità delle ipotesi costringe a trattare solo l'aspetto, peraltro decisivo, dello statuto ontologico ed etico dell'embrione vivente in qualsiasi situazione: in provetta, in utero della madre genetica, in utero di altra donna, in utero artificiale o incubatrice; astraendo, tra l'altro, dal problema della liceità del porre in essere alcune di queste situazioni. La modernizzazione fornisce anche dati conoscitivi, come quelli relativi al codice genetico e all'embriogenesi, suscettibili di contribuire a correggere antiche opinioni, per esempio quella - approvata da san Tommaso - favorevole alla «animazione successiva» del feto; dati che verranno qui presupposti. Anche sullo statuto dell'embrione dovrò trascurare molti aspetti e argomenti; mi limiterò al nucleo essenziale di quanto ritengo vero, rinviando ai miei lavori sull'argomento e tenendo particolarmente presenti, nella fìligrana, le posizioni spesso antitetiche sostenute in questo stesso volume da Mori.
È discutibile che sia giusto parlare dell’embrione umano come di un'entità diversa dall'«uomo». L'embrione non è infatti che lo stesso indivisibile individuo umano nella fase prima, originaria e originante, della sua vita. E non è possibile tutelarlo in fasi successive, più «alte», se non lo si tutela anche nelle fasi precedenti. Un individuo umano che sia stato soppresso nella fase «biologica» o «vegetativa» di embrione non potrà essere tutelato nella fase «sensitiva» di feto maturo o di neonato, «simbolica» o «intellettiva» di bambino o di professore. In gioco non è quindi la tutela di una cosa «embrione» o di una cosa «bambino», ma la tutela della cosa «uomo» nella sua fase embrione o nella sua fase bambino. Il fiume è già se stesso nel suo primo tratto, e non si può tutelarlo a valle senza tutelarlo alla sorgente. Il ragionamento unico decisivo, quello da non perdere mai di vista nelle successive complicazioni filosofiche e casistiche, è quindi, semplicissimamente, che: l) tutelare un individuo vivente significa tutelarlo in tutte le fasi della sua vita; 2) esiste un individuo vivente a partire dal concepimento; 3) tutelare un individuo vivente significa tutelarlo a partire dal concepimento. Si può, poi, volere o non volere riconoscere all'individuo umano la meritevolezza di tutela; ma chi, in accordo con la «religione civile» dei diritti dell'uomo, riconosce all'individuo umano il diritto alla vita, non può non riconoscerlo a partire dal concepimento. L'unico modo per non riconoscere all'embrione il diritto alla vita è non riconoscerlo all'individuo umano.
La premessa l) sembra analitica e non controvertibile. Richiede qualche parola  di chiarimento e di giustificazione la 2), sebbene si tratti solo di esplicitare quello che intuisce senza difficoltà il buon senso informato.
Anzitutto, verso il «basso», lo zigote si distingue essenzialmente dai singoli gameti e dal «sistema» che secondo alcuni autori (citati con approvazione da Mori) essi formerebbero prima di fondersi. Come i gameti, lo zigote è ovviamente «umano» nel senso di appartenente alla propria specie, nel senso di (per esempio) non-gorilliano. E come i gameti è un individuo nel senso che costituisce una sostanza vivente indivisibile (a dividerlo, muore). Ma mentre lo spermatozoo e l'ovulo sono «umani» e sono individui, ma non sono individui uomini, lo zigote è proprio il completo individuo uomo. Infatti lo spermatozoo vive e muore come spermatozoo, l'ovulo vive e muore come ovulo; lo zigote vive e muore come uomo, non ha altra vita naturale che quella di uomo. Uccidendolo non si sopprime la vita di uno zigote, si sopprime la vita di un uomo. (E del resto è precisamente per questo che lo si sopprime: perché non si intende accettare la vita di un uomo).
Quanto al «sistema» spermatozoo-ovulo, esso è una vicinanza o un insieme o una relazione di due individui viventi, non è un individuo vivente esso stesso. Dividendo in due lo zigote, muore un individuo uomo; dividendo in due il «sistema» spermatozoo-ovulo non muore nessuno. Solo un individuo vivente può morire; ma solo un individuo che può morire è un possibile titolare del diritto alla vita; il «sistema» spermatozoo-ovulo non essendo un individuo e non potendo morire non è un possibile titolare del diritto alla vita. Invece il singolo gamete essendo un individuo e potendo morire è un possibile titolare del diritto alla vita; ma non essendo un individuo uomo, se il diritto alla vita spetta solo agli individui uomini non gli spetta il diritto alla vita.
Se la sua ontologia di individuo vivente delimita in modo assolutamente discontinuo lo zigote (e il suo diritto alla vita) verso il basso, voglio dire nei confronti di tutte le componenti che lo precedono e lo preparano, questa stessa ontologia interdice invece di riconoscere un'analoga essenziale discontinuità verso l'alto. (Il colmo del non-buonsenso è sostenere la continuità ontologica tra l'embrione e il sistema spermatozoo-ovulo e la discontinuità tra l'embrione di <14 giorni e l'embrione di >14 giorni!). È vero infatti che senza la maturazione progressiva degli organi sensoriali e del sistema nervoso e senza una complessa, prolungata interazione affettiva e linguistica con una comunità culturale umana l'individuo uomo non attinge l'esercizio di quella che abbiamo chiamato la soggettività centrale; ma è altrettanto vero che tale esercizio non può essere attinto se non da un individuo uomo, il quale appunto per questo ha, oltre che il diritto alla vita, il diritto alla cultura (sarebbe una brutale negazione della sua originaria e originante ontologia allevarlo in una comunità di animali per farne uno strumento servizievole, privo di quella attività simbolica che costituisce la manifestazione visibile della trascendenza spirituale propria dell'uomo).
È dunque sbagliato caratterizzare l’embrione umano come un uomo in potenza. L'embrione è in potenza un bambino, o un adulto, o un vecchio, ma non è in potenza un individuo uomo. Questo lo è già in atto, e non potrà mai diventarlo più di quanto già lo sia. Anche il neonato incapace di parola non potrà mai diventare «un uomo» più di quanto già lo sia. L'embrione è in potenza quel bambino o quell'adulto come il bambino e l'adulto sono in origine quell'embrione; l'uno e gli altri sono quell'unico identico indivisibile individuo uomo; sono aspetti, stati, fasi di quell'unico individuo uomo. Ora, i diritti dell'uomo spettano a gli individui uomini senza distinzione di età, e non si vede a chi altri potrebbero spettare.
Esaminiamo ancora l'obiezione che l'uomo, a differenza dagli altri viventi, ha il diritto alla vita in quanto portatore della soggettività centrale (più brevemente: in quanto persona), mentre l'embrione umano sarebbe individuo in atto, persona solo in potenza; l'embrione umano andrebbe quindi equiparato agli individui viventi di pari soggettività, ossia (a seconda del livello di sviluppo) prima ai vegetali, poi agli animali inferiori, poi agli animali superiori; solo a partire da una socializzazione umana, «simbolica», diverrebbe uomo. La risposta è che l'individuo vivente uomo ha fin dall'inizio del suo essere (non sappiamo se solo in base al codice genetico o anche in virtù di una metabiologica «irruzione dall'alto») tutto ciò che gli consente, e solo a lui tra i viventi consente, di farsi persona in atto. Ha fin dall'inizio, in atto, tutto l'immenso patrimonio morfo- e psicogenetico che serve per rendersi, nell'ambiente culturale umano, persona in atto. Quindi è fin dall'inizio completamente diverso dagli altri individui viventi, il suo rango ontologico è fin dall'inizio un altro, e l'indivisibilità ontologica dell'individuo nel tempo esige che gli venga riconosciuta la stessa «dignità», ossia lo stesso insieme di diritti, che spetta alla persona (s'intende con i contenuti concreti adatti al suo caso: per un adulto alfabeta il diritto alla cultura potrà significare diritto alla lettura, per un bambino diritto all'alfabetizzazione, per un embrione tutti i diritti «collasseranno» provvisoriamente nel diritto alla vita e alla salute; anche questo, ovviamente, con contenuti diversi da quelli dello stesso diritto nel caso dell'adulto o del bambino). Anche se non è ancora in atto persona, nel senso coscienziologico, possiede come individuo uomo i diritti (specificati nei contenuti dal suo grado di sviluppo) che spettano alla persona.
D'altra parte, se così non fosse ci si troverebbe implicati in un circolo vizioso, o paradosso, antiumanistico: «hai i diritti dell'uomo solo se sei (riuscito a diventare) persona; ma se io decido di ucciderti prima che tu lo diventi, è certo che non sei e non sarai mai persona; quindi uccidendoti io non faccio più male che uccidendo un vivente non umano, un vivente non-persona». Basterebbe decidere di uccidere per avere il diritto di uccidere. Oppure: «hai i diritti dell'uomo solo se sei (riuscito a diventare) persona; ma se io decido di non darti un'educazione umana, tu non sei né sarai mai persona; quindi privandoti di un'educazione umana io non faccio più male che privando di un'educazione umana un vivente non umano, un vivente non-persona». Basterebbe decidere di non umanizzare culturalmente per avere il diritto di non umanizzare culturalmente (oltre che, ancora una volta, il diritto di uccidere: il destinato a non diventare persona non avrebbe neppure il diritto alla vita, in nessuna fase, anche adulta, della sua esistenza). Basterebbe decidere di allevare individui umani non-persone per avere il diritto di farlo; per inaugurare col pieno consenso dell'etica umanistica-personalistica un nuovo e più radicale schiavismo.
È veramente strano che anche, o proprio, dai materialisti-riduzionisti, ossia da coloro che sostengono la corporeità della stessa mente umana, venga un'accusa spiritualistica di «biologismo» a chi afferma la presenza dell'uomo tutto intero nell'individuo corporeo umano.
Il punto essenziale resta, comunque, che sopprimendo la vita di un embrione umano non si sopprime la vita di un vegetale o di un animale, ma la vita di una persona, perché la vita di un embrione umano normale in condizioni normali non è la vita di un vegetale o di un animale, ma la vita di una persona. Vita, come abbiamo visto, meritevole di incondizionata tutela.
Chi vede la fondatezza di questa impostazione, l'unica in accordo con l'indivisibilità diacronica di quell'atto che è l'essere «una vita» sul piano ontologico, e con la religione civile dei diritti dell'uomo sul piano dei valori, deve pur affrontare lo scandalo (o lo stimolo inquietante a ripensare) che viene dal diverso trattamento riservato nelle leggi positive all'embrionicidio rispetto all'infanticidio e all'omicidio. Il ragionamento fatto fin qui induce fortemente a pensare che la sola o prevalente giustificazione etica della minore gravità dell'embrionicidio possa trarsi dalle componenti soggettive dell'atto criminoso, il quale nell'infanticidio e nell'omicidio si esercita su una forma umana pienamente riconoscibile, quindi presumibilmente con maggiore malizia a livello di sensibilità e immaginazione. Ci sarebbe pari gravità oggettiva, ma con attenuanti psicologiche. Attenuanti che un'educazione più razionale, o meglio più razionalmente contemplativa, dovrebbe a poco a poco togliere. Quanto alla tesi di una minore gravità oggettiva, di una reale minore importanza del bene leso con l'embrionicidio, si potrebbe argomentarla con la non sofferenza dell'embrione a essere privato di una vita non giunta alla coscienza di sé, ossia ancora con delle considerazioni soggettive, ma questa volta concernenti la vittima dell’atto, che resterebbe comunque gravissimo sotto il profilo ontologico. (E verrebbe aperta la via alla parziale legittimazione dell'infanticidio, potendosi dubitare della coscienza di sé come di «la mia vita» in un feto maturo o in un neonato). Oppure si potrebbe riconoscere una sorta di merito o di pregio nell'avvenuta acquisizione di cultura e di relazioni interpersonali. Ma allora si smentirebbe appunto la religione civile dei diritti dell'uomo, stabilendo una gerarchia di valore tra vite umane ricche e povere, inserite ed emarginate. Ora, è un fatto che le vite del Papa o del Presidente sono molto più tutelate della vita del Minatore (metto apposta la terza maiuscola per far vedere come sono più tutelate anche nella nostra psicologia), ma è anche un fatto che per le leggi tutti gli omicidi si equivalgono: se le biografie distinguono, la morte parifìca, il diritto alla vita almeno sotto questo profilo radicale è uguale per tutti, in quest'unico punto gli uomini sono tutti ugualmente «figli di Dio», e l'etica non può che approvare la scelta del diritto. In conclusione dunque la minore gravità giuridica dell'embrionicidio è difficile da giustificare sul piano etico.

 

           3.2.2. I minorati mentali.

 

Il caso dell'embrione umano normale è abbastanza semplice, perché non è altro che il caso dell'individuo umano normale. Ma cosa dire di quegli individui che fin dall'inizio, o a partire da una certa fase della vita, risultino irrimediabilmente privi della capacità di esercitare la soggettività centrale? Di vivere la vita di una persona?
Ripeto che la questione non riguarda il rapporto embrione-adulto. Se quanto abbiamo stabilito nel paragrafo precedente è esatto, si può uccidere l'embrione mongoloide solo se si può uccidere l'uomo mongoloide in ogni fase del suo ciclo vitale, si può uccidere l'embrione destinato a vivere come «vegetale umano» solo se si può uccidere il «vegetale umano», (si può uccidere l'embrione o il feto canino solo se si può uccidere il cane), e così via. La questione riguarda il punto se per la meritevolezza di tutela, a cominciare dal diritto alla vita, sia rilevante (e quanto) che un individuo umano abbia o non abbia l'esercizio (o il patrimonio ontologico necessario per acquisire o conservare l'esercizio) della soggettività centrale, abbia o non abbia quanto occorre per un presente o per un presumibile futuro di vita personale. È questo il vero problema delle soggettività umane marginali, nelle quali l'embrione normale rientra solo in apparenza. Vi rientrano invece tutti quegli individui umani, nel senso di provenienti da gameti umani, che per una ragione o per l'altra non possano (più) vivere a livello di soggettività centrale. E quindi vi rientrano, almeno sotto il profìlo che sembra decisivo, numerose fattispecie: I «mostri» o deficienti gravissimi, sia quelli scaturiti dalla lotteria genetica naturale, sia quelli eventualmente prodotti per via artificiale; gli uomini normali vittime di traumi organici o di malattie mentali o di processi degenerativi senili tali da togliere la soggettività centrale irreversibilmente; gli affetti da coma irreversibile profondo o addirittura da morte cerebrale qualora questo tipo o livello di morte non venga equiparato alla morte tout court. Non è necessario entrare qui nella differenziazione delle fattispecie o nei dubbi su come accertare caso per caso la profondità delle carenze coscienziali o la loro irreversibilità. Credo che questi dubbi giustifichino attualmente una cautela e un rispetto estremi. È sufficiente l'esperimento di pensiero consistente nel chiedersi quale sia la meritevolezza di tutela di un individuo geneticamente umano per ipotesi sicuramente privo, per tutto il resto della sua vita, di soggettività centrale.
Sebbene ci siano profili emergenti con la modernizzazione, in particolare con l'ormai possibile diagnosi prenatale di minorazione gravissima e con le tecniche di rianimazione e mantenimento in vita a oltranza, il problema non è stato espressamente affrontato nella nostra ricerca. Mi limito a osservazioni brevissime.
Pur tenendo presente la luce sinistra che getta su tutto questo argomento la pratica nazista della eliminazione delle vite «difformi», credo si debba cercare la soluzione in un difficile contemperamento tra il principio, «specista» in senso buono, della pietas verso la forma umana, dove con forma deve intendersi, modernamente, anche l'informazione genetica, e il principio non-specista, sempre in senso buono, del rispetto della soggettività centrale ovunque essa si manifesti. Come vedremo a proposito dei calcolatori, autentiche macchine di Turing trascendentali andrebbero rispettate come persone; lo stesso vale di eventuali soggetti biologici extraterrestri. Una struttura biologica geneticamente umana priva di soggettività centrale ha meno interessi, e in questo senso anche meno diritti, di una soggettività centrale presente in una struttura, biologica o artificiale, non umana. Tuttavia non approverei una completa parificazione (come quella voluta da alcuni animalisti intransigenti) tra i modi o livelli di coscienza in quanto tali, astraendo dal loro supporto. L'uomo solo vegetativo merita più umana attenzione di un vegetale; l'uomo solo vegetativo-sensitivo merita più umana attenzione di un animale. Una buona dose di specismo è sicuramente giustificata sia anzitutto ontologicamente, come pietas, ripeto, verso quella biologia nella quale normalmente s'incontra lo splendore della soggettività centrale, sia, secondariamente, in base alla maggiore «prossimità», che ingenera, non solo  in questo settore, sentimenti e forse doveri di maggiore solidarietà. Forse bisogna anche distinguere tra l'uomo vegetativo-sensitivo con speranza di vita e quello a termine (comatoso irreversibile e situazioni affini). Forse nel primo caso si deve accogliere la vita e assisterla, nel senso di prolungarla se solo vegetative e, se anche sensitiva, di renderla il più possibile accettabile dal punto di vista piacere-dolore; nel secondo caso si può invece tralasciare (non intraprendere; interrompere) il mantenimento in vita a oltranza. In entrambi i casi «fa più impressione» uccidere che lasciar morire, e questa maggiore impressione è da sempre sedimentata nel sentire dell'umanità anche se non si giustifica troppo facilmente sul piano razionale.
Forse è proprio su questo punto, delle soggettività diminuite fino alla frontiera del non-umano, che si manifesta maggiormente la differenza tra le opzioni onto-antropologiche. I fenomenisti, sia del tipo coscienziologico che del tipo comportamentistico, possono convergere nelle conseguenze pratiche con il sostanzialismo spiritualista a proposito dei portatori, attuali o presumibili, di soggettività centrale: per la tutela basta infatti la personalità fenomenica, anche senza l'anima; possono invece divergere a proposito degli uomini diminuiti se a questi, quasi tabernacoli viventi dell'invisibile, viene (solo dal sostanzialismo) riconosciuta l'anima spirituale indipendentemente da ogni manifestazione fenomenica. Sembra invero difficile che Dio accordi o meno l'anima spirituale a seconda della perfezione strutturale o funzionale del supporto corporeo, per esempio sì al normale no all'idrocefalo, oppure sì all'idrocefalo no a un eventuale caso ancora più grave di decerebrazione. D'altra parte le manipolazioni genetiche possono, in prospettiva, arrivare fino al punto di produrre entità viventi interamente prive di sistema nervoso cerebrale (supponiamo, per disporre di tessuti «umani» non di «un uomo»); e sembra difficile ritenere Dio vincolato a creare un'anima anche in questo caso. Nemmeno è sempre chiarissimo se il riconoscimento dell'anima porti sempre a una tutela maggiore o diversa: e infatti sono contro l'accanimento terapeutico sul comatoso irreversibile più o meno tutti, dai disponibilisti laici ai più intransigenti indisponibilisti cattolici.
Globalmente resta comunque confermata l'impressione che l'uomo senza avvenire di persona, ed esso segnatamente, viene meglio tutelato dal sostanzialismo spiritualista; soprattutto nei casi con speranza di vita. Chi senta molto fortemente la venerazione verso l'individuo umano diminuito può trarne un argomento etico o esigenziale a favore del sostanzialismo.

 

            3.2.3. Glossa sull'identità indisponibile.

 

         L'accenno agli uomini diminuiti o mostruosi (pseudomorfosi) e ai semplici materiali o tessuti «umani» (meromorfosi) producibili biotecnologicamente può integrarsi, sempre a livello di manipolazioni genetiche o prenatali, con l'ipotesi delle ibridazioni uomo-animale (mixomorfosi) e prolungarsi con quella dell'impianto di embrioni umani in utero di mammifero, da considerare qui sotto il profilo per cui le interazioni con la portatrice animale possano incidere sull'identità stessa, almeno psicologica, del piccolo umano. Tutte queste ipotesi pongono appunto il problema delle componenti dell'identità umana da ritenere indisponibili; problema che si amplia, nella vicenda diacronica del soggetto umano, a includere gli atti di disposizione che egli stesso possa compiere su di sé, scegliendo per esempio un diverso aspetto, un diverso sesso, una diversa mente, a seconda delle possibilità offerte dalla chirurgia, dalla endocrinologia, dalla psicofarmacologia. Oppure (anche questo è un'alterazione dell'identità complessiva, diacronica) scegliendo il momento e il modo della propria morte.

Non potendo dare risposta differenziata a tutti i quesiti proponibili, sottolineo due insiemi problematici emergenti. Occorre giungere a una qualche definizione dello statuto etico e giuridico del genoma umano: esistono «diritti» del genoma, non disponibili da parte di terzi, o comunque doveri di rispetto e di non intervento nei suoi confronti? Su questo punto rinvio al § 3.2.6. E occorre giungere a un elenco almeno indicativo delle componenti dell'identità umana eticamente e giuridicamente non disponibili neppure da parte del soggetto. Francesco Dal Pozzo ha avviato la discussione di questo secondo argomento. Io vorrei soprattutto dichiarare la mia convinzione che la volontà dell'interessato non può considerarsi sempre, né qui né altrove (per esempio riguardo alle cure mediche), il criterio ultimo e decisivo. Non credo sia consentito cedere organi vitali (gratuitamente od onerosamente) nell'interesse di terzi o della scienza; non credo sia consentito prestarsi a esperimenti estremamente pericolosi o tali da mettere in forse il mantenimento della propria identità centrale (come uno scambio di cervelli); ho dubbi anche sul mutamento volontario di sesso, pur autorizzato ormai da varie legislazioni, e sulla sterilizzazione definitiva. In genere (ma mi rendo conto che è un criterio molto indeterminato) riterrei indisponibile ciò che costituisce il «corredo vocazionale», ossia l'insieme di quei dati la cui elaborazione esistenziale viene affidata a ogni uomo appunto come sua vocazione, o parte della sua vocazione. Non siamo liberi di decidere la nostra vita «come ci pare». Avere ricevuto un determinato sesso, forse anche un determinato aspetto (statura, bellezza), può non essere molto diverso dall'avere ricevuto un determinato talento (p. es. musicale, o matematico), e forse può esserci tradimento della propria vocazione anche nel rifiuto di alcuni propri essenziali tratti somatici o (penso all'ibernazione) del «proprio tempo». Fin qui l'etica. Il diritto certo dev'èssere enormemente più cauto, perché il suo modo di vietare e di esigere è enormemente più rozzo. Ma non mi scandalizzerei se certi elementi dell'identità individuale si presumessero giuridicamente centrali, vocazionali, dunque indisponibili, e se il sesso e la fecondità venissero collocati tra questi. Non mi scandalizzerei se in certi suoi aspetti oggettivi la soggettività venisse considerata meritevole di tutela anche contro se stessa.

 

            3.2.4. Suicidio, eutanasia, prolungamento indefinito della vita.

 

       Alla luce delle considerazioni precedenti non può non ritenersi moralmente illecito e giuridicamente da scoraggiare, comunque certo non sancibile come un diritto, il suicidio «filosofico», intendo motivato con la mancanza di significato o valore della vita che mi resta da vivere. Non c'è dubbio infatti che il bene vita, condizione necessaria di tutti gli altri, attiene da vicinissimo all'identità centrale e alla vocazione della persona; dunque è indisponibile. Proprio la vita è ciò che mi viene affidato da elaborare vocazionalmente; ma posta la «trascendentalità nel limite» caratteristica della soggettività umana, non è pensabile un momento in cui il soggetto, per quanto adulto, lucido e realizzato, possa fondatamente statuire che per lui non c'è più nulla cui aprirsi, più nulla da imparare, più nulla da fare; statuendo per sempre esaurita la sua vocazione. Dovrebbero potersi suicidare filosoficamente solo i definitivamente compiuti, i perfetti; ma proprio a loro (ammesso che esistano) incombe il dovere del servizio agli altri, la missione, come appunto ha veduto il Budda giunto a quel compimento che gli permetteva di estinguersi. Per lo stesso motivo non possono essere leciti la richiesta di omicidio e l'atto omicida compiuto sul richiedente o comunque consenziente. Neppure è ammissibile il suicidio motivato con la mancanza di significato o valore della vita umana in generale, perché la motivazione, se tutto quanto abbiamo detto fin qui regge, è manifestamente erronea. Come già accennato, la portata ultima del suicidio è in ogni modo profondamente diversa a seconda che lo si consideri vero suicidio, abolizione definitiva del sé autocosciente, o semplice somacidio, quale deve ritenerlo il sostanzialismo spiritualista d'accordo con le grandi religioni teiste e reincarnazioniste; la possibilità ontologica del vero suicidio è devastante per l'etica; di qui un argomento etico-esigenziale contro la mortalità in senso «totale» dell'uomo come di qualsiasi altro soggetto etico, e per ciò stesso un altro argomento a favore del sostanzialismo nel confronto col fenomenismo spiritualista.

Di tutti questi problemi la nostra ricerca tratta solo in margine, perché classici e non emergenti con la modernizzazione in senso tecnologico. Tipicamente moderni invece i problemi connessi non con l'abbreviamento della vita mortale (somacidio) o con l'abolizione della vita (suicidio), ma con il prolungamento, magari indefinito, della vita fisica. Orrù si è occupato dell'omissione o interruzione di trattamento rianimativo o conservativo della vita a oltranza; come già accennato al § 3.2.2, decisive mi sembra, per giustificare il trattamento, la possibilità che il paziente venga restituito anche a un solo atto umano in senso pieno, perché data la capacità «ricapitolativa globale» dello spirito autocosciente, quell'atto potrebbe essere una reinterpretazione di sé, tale da conferire significato diverso all'intera esistenza, come accadde al «buon ladrone» crocifisso sul Calvario. Ho già accennato all'ibernazione. Tipicamente moderno anche il problema della terza età, affrontato con viva sensibilità umanistica da Bolognini; moderno almeno nel senso, quantitativo, dell'accrescimento impressionante della durata media della vita. E addirittura emblematico, secondo una frase celebre di Descartes, per l'impresa della scienza moderna nel suo insieme l'obbiettivo di conferire all'uomo l'immortalità fisica. Si pensi anche solo al problema che si porrebbe se venissero interamente chiariti i programmi genetici della scienza e l’uomo potesse optare per una vita (a parte le malattie e gli incidenti) biologicamente lunghissima o interminabile. Avrebbe il dovere di sceglierla? Di viverla tutta fino in fondo? Potrebbe interromperla, almeno quando essa fosse di impedimento alla nascita di altre vite per mancanza di spazio vitale? Potrebbero invocarsi ragioni di giustizia distributiva a favore di un avvicendamento di generazioni? Si potrebbe parlare di diritto alla vita delle generazioni future? Come andrebbe tutelato contro il diritto alla vita delle generazioni presenti, biologicamente «immortali»?
Il problema dell'eutanasia invece non solo non è emergente, ma direi è recessivo con la modernizzazione scientifico-tecnologica. Se infatti con eutanasia in senso proprio s'intende la somministrazione della morte come unico rimedio a una sofferenza intollerabile in situazione clinicamente terminale allora il progresso farmacologico, apprestando analgesici sempre più perfetti e possibilmente neppure anestetici, tali cioè da eliminare il dolore senza bisogno di abolire la coscienza, dovrebbe tendere a superare in radice, come arcaico, il problema, che persisterebbe solo in casi eccezionali di mancanza di assistenza sanitaria o nell'area del sottosviluppo. Anche la sofferenza psichica dovrebbe col tempo soggiacere al potere degli psicofarmaci. Alla fine il problema dell'eutanasia, come quello del suicidio per sofferenza intollerabile o per «disperazione» a base chimico-organica dovrebbe svanire, lasciando sussistere esclusivamente il (o confluendo nel) problema del suicidio filosofico.
Un quesito non banale che gli analgesici per ipotesi perfetti porrebbero è se sia giustificata una tutela assoluta dell'uomo dalla sofferenza. La mia impressione è che certi gradi, o tipi, di sofferenza facciano parte del «corredo vocazionale», dell'insieme di dati che ogni uomo è chiamato a elaborare esistenzialmente, creativamente. Sentiamo tutti che un uomo incapace di soffrire, o di accettare il soffrire, è meno significativo, vale meno, di un uomo capace di provare dolore o di affrontarlo; e la ragione potrebbe spiegarne i motivi. La linea di condotta etica (probabilmente non giuridicizzabile) dovrebbe essere quella di generosamente addestrarsi a sentire sempre più (vero, puro, giusto) dolore, ad accogliere, sopportare, elaborare tutto il «destinato», formativo dolore; sopprimendo chimicamente solo quello che impedisca in concreto lo svolgimento di attività più alte o più necessarie, o giunga al punto di violentare e sommergere la stessa facoltà interpretativa del dolore. Contro l'utilitarismo/edonismo: non il godere dota, il soffrire priva, di valore la vita, ma: l'essere umani dota di valore il piacere e il soffrire, dota di valore la vita. Ogni humanum ha valore, in proporzione a quanto è umano. Il dolore umanizzabile, umanizzato, umanizzante, ha tale valore che quell'attimo di reinterpretazione della vita di cui abbiamo parlato poco fa, capace di giustificare ogni sforzo di rianimazione, può benissimo essere un attimo doloroso.

 

            3.2.5. Le soggettività animali.

 

   Passando dalle soggettività umane alle non umane, le più «vicine», oltre che le sole oggi effettivamente esistenti, sono le soggettività animali, che vanno considerate qui indipendentemente dalla questione del valore, già affrontata al § 2 ed entro la quale gli animali in quanto dotati di valore (bellezza, grazia, utilità, rarità, interazione armoniosa del pléroma) non sembrano occupare una posizione privilegiata o sollevare problemi specifici rispetto agli altri beni culturali o ambientali.

I dati di fatto emergenti con la modernizzazione sono principalmente:

l) l'enorme numero di esistenze animali prodotte e gestite industrialmente dall'uomo per i propri fini (alimentazione, abbigliamento, compagnia, divertimento, sperimentazione scientifica e tecnologica);

2) l'enorme aumento, anche in gravità e atrocità, di sofferenza animale che complessivamente ne è derivato, soprattutto a causa dell'allevamento intensivo e della vivisezione, ma senza trascurare le sofferenze da prigionia, snaturamento del genere di vita, costrizioni crudeli;

3) il deterioramento della qualità della vita e la diminuzione delle chances di vita degli animali in libertà, circoscritti in ambienti sempre più poveri, disturbati, pericolosi.

Questi dati di fatto sommati accrescono l'incidenza - e quindi la responsabilità - dell’uomo nei confronti del singolo animale e della zoosfera nel suo insieme, fino a renderla tendenzialmente totale e ubiquitaria.

Le concezioni filosofico-ideologiche emergenti con la modernizzazione sono principalmente:

4) un iniziale, e saltuariamente ripullulante, riduzionismo meccanicistico di stampo cartesiano, con negazione della sensibilità e soggettività degli animali, totalmente omologati alla res extensa;

5) inversamente o complementarmente, un maggiore (rispetto al vecchio spiritualismo cristiano-platonico, cristiano-aristotelico, cristiano-cartesiano, cristiano-kantiano, idealista) riconoscimento di continuità ontologica «verso il basso» tra uomo e animali, dovuto all'evoluzionismo, a forme non-cartesiane di riduzionismo, al materialismo, all'antimetafìsica, alla de-teologalizzazione e secolarizzazione del mondo;

6) una maggiore considerazione assiologica del piacere e del dolore, quindi un guadagno di terreno dell'edonismo e dell'utilitarismo a base edonistica, soprattutto nell'illuminismo e nell'ambiente empirista anglosassone;

7) una recente valorizzazione, a base invece ontologica, non tanto del godere e del soffrire, quanto del saper-godere, del saper-soffrire, della sentience, rispetto alla un tempo idolatrata capacità logica e di calcolo. Questa valorizzazione mi sembra anche dovuta (forse subliminalmente) agli sviluppi della scienza dei calcolatori. Dove si sono avuti straordinari progressi nell'intelligenza artificiale, ossia nella produzione di risultati simili a quelli dell'attività intellettuale umana, senza praticamente alcun progresso nella vera e propria coscienza artificiale, e segnatamente (a livello sensitivo) nell'implementare percezioni, piacere e dolore, stato di veglia. La difficile riducibilità/producibilità del sentire converge con le antiche e tuttora valide osservazioni della psicologia metafisica da noi già esaminate, secondo cui la sensazione sentita, diversamente dalla registrazione, trascende interamente il mondo fisico, appartiene al mondo 2 di Popper, significa sul piano fenomenologico il possesso di una mente e di una almeno aurorale iità, potrebbe significare sul piano ontologico il possesso di un'anima, comunque di un sostrato immateriale improgrammabile, inassemblabile.

Il sentire può insomma venire visto e nei suoi aspetti psicologici soggettivi e come spia significativa del rango ontologico alto di chi è capace di sentire, del suo ontologico «mistero». Questa duplice considerazione permette di far convergere, come accenna Parenti nel contributo a questo volume, le due linee argomentative favorevoli ai diritti degli animali esposte qui sub 6) e sub 7), ritrovando anche antiche e profonde intuizioni religiose e fornendo una via d'uscita dalla situazione oggettiva di disagio o di schizofrenia della cultura contemporanea in tema di tutela dei viventi. Per gli utilitaristi-edonisti, o per i sostenitori della morale della simpatia, il fondamento dei diritti è nell'attuale capacità di godere e soffrire, e il primo diritto è quello di non essere fatti soffrire inutilmente. In questa prospettiva hanno diritti gli animali adulti e non hanno diritti gli individui umani non ancora capaci di soffrire, gli embrioni precoci. Per quelli che chiamerei i metafisici, il fondamento dei diritti è nel rango ontologico di un dato soggetto, indipendentemente dall'attuale capacità di sentire. In questa prospettiva hanno diritti gli embrioni umani e non ne hanno gli animali adulti. Così, si fiancheggiano o si scontrano gli zoofili abortisti e i cattolici vivisezionisti: situazione di coscienza infelice per gli uni e per gli altri, perché la vita deve essere difesa, se possibile, indivisibilmente. La proposta via di uscita estende la considerazione del rango ontelogico anche agli animali (embrioni o adulti che siano: abbiamo visto che non è questo il punto rilevante). E si può auspicare una situazione culturale in cui, convergendo la prospettiva utilitarista simpatetica, antimetafìsica, con quella metafisica, il difensore degli animali difenda anche gli embrioni umani e il difensore degli embrioni umani difenda anche gli animali, in base al comune principio della dignità della vita come sostrato dell'esperienza cosciente o - per rimanere nella terminologia della nostra ricerca - in base al principio della (proporzionata, ben-commisurata, adeguata) tutela degli esseri portatori di soggettività.
Il punto decisivo in linea di principio è quindi stabilire quale intenzionalità, coscienza, soggettività hanno le diverse specie animali (si potrà astrarre, come nell'uomo, dalle differenze individuali, almeno nella formulazione delle norme generali). Lo si dovrà stabilire indirettamente, a partire dallo sviluppo del sistema nervoso e dal comportamento non verbale: come nell'uomo, gli stati di coscienza sono accessibili direttamente solo alla coscienza dell'interessato, ma diversamente dall'uomo mancano qui i resoconti linguistici introspettivi. Non mi soffermo sui risultati delle ricerche etologiche, oggi in pieno svolgimento. Qui basta fissare il criterio che se ci sono percezioni ed esperienze connotate positivamente e negativamente (in particolare, piacevolmente e spiacevolmente) per la soggettività dell'interessato, ci sono interessi che il principio di tutela della soggettività impone di riconoscere e di tutelare in calzante proporzionata commisurazione al tipo di soggettività. Sembra fin d'ora chiaro che l’intenzionalità animale è sempre di tipo categoriale e non trascendentale, voglio dire investe conoscitivamente e affettivamente una gamma di realtà e di beni limitati alla sfera sensitiva e delimitati dalla particolare natura dell'animale stesso; non c'è spiritualità in senso stretto. Tuttavia sembrano esistere soggettività animali la cui intenzionalità si approssima alla «trascendentalità categoriale», ossia si estende quasi all'intero bene sensibile in quanto sensibile, mentre altre hanno un'estensione limitatissima. La tutela sarà quindi molto differenziata.
La questione se per questa tutela si possa/debba parlare di diritti è prevalentemente terminologica: essenziale è il riconoscimento della doverosità della tutela. Tuttavia inclino a ritenere più corretto teoricamente (e non solo più efficace retoricamente) parlare proprio di diritti e precisamente di diritti naturali, diritti nel senso di interessi soggettivi meritevoli di tutela, naturali nel senso di fondati su un'ontologia, di non esistenti perché riconosciuti ma riconosciuti (o/e da riconoscersi) perché esistenti.
Va lasciata ai tecnici del diritto la discussione sui modi più adeguati di configurare la tutela giuridica positiva, che non potrà mai disgiungersi da una tutela anche culturale. Aggiungo solo la mia impressione che anche qui come nel caso dei barbari, degli schiavi, degli uomini di altro colore, delle donne, delle categorie di soggetti in vari modi candidati all'esclusione sociale, il giusto - ossia ontologicamente - fondato riconoscimento di diritti una volta tradotto in pratica rafforza la propria fondatezza, perché i titolari una volta sottratti alla mortificazione e alla brutalità esplicano attitudini che rendono retrospettivamente inconcepibile il precedente regime di mortificazione e brutalità. L'oppressione si autogiustifìca per la condizione cui abbassa le sue vittime; la liberazione si autogiustifìca per la condizione cui le eleva e quasi le suscita. Il rispetto e l'amore ben riposti generano rispettabilità e amabilità, non le accertano soltanto.
In questo senso la brutale aggettivazione, reificazione, mortificazione che i procedimenti industriali di allevamento, macellazione, lavorazione perpetrano sugli animali-massa, sugli animali-macchina loro sottoposti falsifica violentemente la realtà. Dalla simbiosi non certo paritetica, ma certo simpatetica, partecipativa, che ha accomunato uomini e animali nei millenni pre-moderni, si è passati, attraverso l'industrialismo concentrazionario, a uno smisurato rapporto persona-cosa, soggetto-oggetto, che a sua volta legittima erroneamente, nell'immaginale umano, la negazione della soggettività animale. Il principio esige invece (questo punto è fondamentale) che la soggettività venga ovunque riconosciuta non per i livelli minimi, ma per i massimi da essa attingibili; e che dunque nel caso degli animali si accerti con ogni cura il tipo e livello di soggettività attingibile dagli individui delle diverse specie posti nelle condizioni di vita più favorevoli, su quel livello calibrando il riconoscimento dei diritti e l'organizzazione concreta della tutela.
Certamente sembra più facile da fondare - e comunque prioritario - il diritto di non soffrire inutilmente rispetto al diritto di godere/realizzarsi, e il diritto alla vita degna rispetto al diritto alla vita. Nel caso del vivente solo - o poco più che - sensitivo, la privazione indolore del resto della vita, verosimilmente non «intenzionato» dal soggetto per mancanza di prospettiva esistenziale e temporale profonda, sembra infatti lesione dei suoi interessi molto meno grave dell'inflizione di sofferenze e privazioni attualmente sentite. Questo in prospettiva utilitaristica. Quanto alla prospettiva ontologica, ciò che non è «una vita» nel senso di potenziale cifra cosciente del Tutto non si uguaglia appunto intenzionalmente al Tutto e può forse essere trattato come una parte, funzionale a insiemi più ampi e a soggettività più alte; sempre che la vita e la morte concessegli siano degne della sua soggettività e della sua natura. Dico questo con sensi di colpa, perché mi rendo conto di essere influenzato dal timore delle conseguenze pratiche che potrebbe avere il riconoscimento del diritto alla vita a tutti gli animali «superiori». Ma assumendo che almeno gli animali prodotti dall'uomo per i suoi fini, e ormai anche molti animali «selvaggi» almeno nel primo mondo, non avrebbero, se non servissero ai fini dell'uomo, la vita, e che essere - anche morendo prematuramente - sia meglio che non essere, inclinerei con sensi di colpa a ritenere lecita l'uccisione di animali prodotti (o conservati in vita) per fini umani seri, purché indolore e purché gli animali abbiano condotto una vita degna.
Non posso tacere che questa soluzione incontra, sul piano emotivo ma forse non emotivo soltanto, il seguente paradosso: quanto peggio gli animali vengono trattati, e quanto meno quindi si esprimono e si personalizzano, tanto più sembra banale e lecito ucciderli; quanto meglio vengono trattati, e quanto più quindi si esprimono, tanto meno sembra lecito privarli della vita. In altre parole: anziché vita degna legittima uccisione, si avrebbe vita degna interdice uccisione.

      Nonostante tutto manterrei, nell'interesse almeno degli animali, l'ordine di priorità stabilito: se per vivere devono comunque essere uccisi, è preferibile che vivano bene. Ma il paradosso resta, e contribuisce ad acuire l'inquietudine etica che la soluzione adottata non abolisce interamente.

La crucialità del problema della tutela degli animali rende a mio parere necessario un intervento non solo delle associazioni zoofile e degli ordini professionali scientifici e medici, ma anche legislativo, che riconosca e determini quanto ai contenuti, in ordine decrescente di fermezza e incisività, il diritto alla non sofferenza grave o atroce, il diritto alla vita degna, il diritto alla vita; stabilendo contestualmente le misure di incentivazione dei trattamenti, e delle ricerche sui trattamenti, alternativi, le istanze pubbliche (come il «tutore degli animali» tedesco) incaricate in modo specifico del controllo sui laboratori allevamenti e macelli, le sanzioni amministrative e penali, i modi della cooperazione tra le istanze pubbliche e il volontariato, le riforme dei programmi scolastici e altri interventi educativi della pubblica opinione, l'eventuale obiezione di coscienza per quei ricercatori e operatori richiesti di prestazioni non escluse dalla legge ma inaccettabili per la loro sensibilità e convinzione morale. Ma, come sempre quando si tratta della tutela dei viventi, il diritto non basta senza una cultura capace di contemplazione e celebrazione della vita, una cultura della fraternità tra le vite, inscindibile, in prospettiva pleromatica.
Ben fondato, ritengo, in sé, il principio di tutela della soggettività pone problemi quando sono a confronto interessi/diritti di soggettività diverse. Si possono costruire numerose ipotesi, valutando per ciascun interesse il tipo o livello, l'intensità, il rango della soggettività di appartenenza. Alcuni esempi: interesse sensitivo di un altro scimpanzé, contro interesse sensitivo di un altro, scimpanzé, a parità di intensità; interesse sensitivo forte, o vitale, di uno scimpanzé contro interesse debole; o non vitale, di un altro scimpanzé; interesse sensitivo forte/vitale di uno scimpanzé contro interesse sensitivo debole/non vitale di un uomo; interesse sensitivo forte/vitale di uno scimpanzé contro interesse «più alto» (sentimentale, intellettuale, estetico, esistenziale) debole/nonvitale di un uomo; interesse sensitivo forte/vitale di un uomo contro interesse «più alto» debole/non vitale di un altro uomo; interesse sensitivo forte/vitale di un uomo contro interesse «più alto» forte/vitale di un altro uomo.
Combinando: a) il principio di soggettività («massima attingibile») interpretato in senso non specista, ossia nel senso di riconoscere i diritti della soggettività ovunque essa si trovi, in individui umani, animali, artificiali, terrestri ed extra-terrestri; b) il principio di «prossimità» o solidarietà prioritaria intraspecifìca, affine al principio di venerazione della forma umana anche indipendentemente dalla possibilità di una vita pienamente personale; c) nel  caso degli animali, un ordine di priorità decrescente tra diritto alla non sofferenza grave/atroce, diritto alla vita degna, diritto alla vita; d) la prevalenza degli interessi forti/vitali sugli interessi deboli/non vitali; e) la prevalenza degli interessi delle soggettività «superiori» su quelli delle soggettività «inferiori», deriverei, salvo riserva di verifica puntuale che esigerebbe una quantifìcazione e/o gerarchizzazione dei criteri o parametri utilizzati, alcune direttive pratiche almeno attendibili: no alla vivisezione accompagnata da crudeli sofferenze; no agli allevamenti intensivi (salvo casi-limite di «stato di necessità» per l'uomo); no all'uccisione dolorosa di cavie, specialmente per scopi puramente dimostrativi; sì, con sensi di colpa, all'uccisione indolore degli animali vissuti negli allevamenti «felici» e all'alimentazione carnivora basata su entrambi questi presupposti; dovere, invece, di vegetarianismo in contesti nei quali sia da presumere uno stile di allevamento e di macellazione inaccettabile; dovere, in particolare, di boicottaggio dei prodotti sicuramente basati su trattamenti atroci (come il paté di fegato d'oca o alcuni medicinali); dovere di esplorazione intensiva e prioritaria dei metodi alternativi alla vivisezione; dovere di incentivazione, anche culturale e politica, degli allevamenti «felici» (per esempio, della restituzione dei bovini e degli ovini ai pascoli della montagna); dovere di esplorazione e incentivazione delle possibilità di alimentazione vegetariana, tanto più stretto quanto peggiore sia, presumibilmente, la vita e la morte degli animali macellati; riduzione o eliminazione della caccia e della pesca per motivi futili, e comunque assolutamente degli aspetti di particolare crudeltà (come il lasciare agonizzare le vittime per ore, magari al semplice scopo di mantenerle «fresche»); lodevolezza degli studi sui veri interessi e sulla vera autorealizzazione degli animali da compagnia o da divertimento. Senza dimenticare l'ingiustizia paradossale per cui coesistono su questo pianeta, e magari a pochi metri gli uni dagli altri, cani borghesi e uomini proletari, gatti opulenti e uomini miserabili, cavalli di lusso e uomini tra le stanghe, animali pasciuti curati svagati e uomini che muoiono di fame, freddo, epidemia, aborto, guerra, sfruttamento, diritto penale, dittatura.

 

            3.2.6. L'umanoide; il gamete umano.

 

           Alla luce dei risultati fin qui ottenuti, il caso recentemente discusso dell'ibrido uomo-scimmia, o umanoide, e di ogni altro immaginabile ibrido uomo-animale non sembra porre particolari problemi teorici per quanto riguarda i diritti da riconoscergli una volta prodotto. Sarebbero quelli spettanti al suo peculiare tipo di soggettività, valutata, come già detto, in riferimento al massimo attingibile. Come gli uomini e come gli animali, alla cui intersezione si collocherebbe, non potrebbe essere sottoposto a strumentalizzazioni crudeli; anzi all'inizio dovrebbe ricevere un trattamento addirittura privilegiato, volto appunto a esplorare i limiti superiori della sua soggettività per commisurare ad essi la tutela «tipica» o «media» per la sua «specie». Più che teoriche, le difficoltà sarebbero quindi diagnostiche; ma di queste non dobbiamo qui occuparci.

Il problema teorico delicato è invece quello della liceità della produzione di umanoidi, per ipotesi riconosciuti meritevoli di tutela in base alla loro soggettività una volta giunti a nascere. «Che male ci sarebbe» a dare l'essere a soggetti nuovi, capaci di (e affidabilmente destinati a) percepire/godere il mondo secondo la loro cifra inedita, e a dischiuderci una partnership e delle conoscenze forse illuminanti? L'ipotesi dell'umanoide felice non incontra abbiezione da parte dell'utilitarismo: al punto che chi fosse utilitarista e ancor più fermamente convinto che l'umanoide non s'ha da fare dovrebbe abbandonare l'utilitarismo. Ma come argomentare la tesi che l'umanoide felice non s'ha da fare? Per restare nell'impostazione della nostra ricerca, bisognerebbe sostenere la meritevolezza di tutela del gamete umano (probabilmente quello maschile) destinato all'avventura della mixomorfosi. Esso andrebbe tutelato appunto contro la mésalliance genetica; forse avrebbe un diritto a non «accoppiarsi» che con un gamete suo pari. Sono tuttavia riluttante a riconoscere una meritevolezza di tutela, o addirittura una titolarità di diritti, a un semplice gamete: certo non in base alla soggettività, e neppure all'umanità in senso pieno: non c'è, come abbiamo già chiarito, un individuo uomo; ma è dubbio che possa essergli riconosciuta in base al valore, stante il numero grandissimo di gameti disponibili che esclude in ogni caso il valore di rarità biologica, mentre chiaramente non entrano in gioco valori estetici o etici suoi propri. Più che richiamarsi alla meritevolezza di tutela del gamete umano, sembra quindi pervio sostenere l'illiceità «in sé» della produzione di umanoidi, la sua intrinseca immoralità. Ma non vedo bene come evitare il - sempre problematico - ricorso all'evidenza: «è evidentemente illecito produrre umanoidi», «è evidentemente male che esistano umanoidi» o la criptotautologia: «è illecito produrre umanoidi perché il rango ontologico, o il finalismo intrinseco, del gamete/dello psichismo umano esclude che si possa promuoverne la fusione con un gamete/con uno psichismo animale» (dove non è facile dissipare l'impressione che l'apparente «è illecito A perché è illecito B» equivalga o a un «è illecito A perché è illecito A» o a un «è illecito B perché è illecito B»).
Chi d'altra parte volesse sostenere la meritevolezza di tutela del gamete umano in questo caso, di fronte a questo tipo di manipolazione, non potrebbe esimersi dal disegnare una bozza di statuto ontologico e giuridico del gamete umano in generale: compito certamente non futile e fortemente suggerito dalla modernizzazione, ma molto più intricato di quello concernente l'embrione e che l'economia del discorso non consente ora di svolgere. È un po' irritante, ma la questione dell'umanoide, della produzione dell'umanoide, fornisce un raro esempio di «impossibilismo etico» praticamente unanime (con l'eccezione di alcuni originali il cui motto sembra essere «meno uomini, più umanoidi») e al tempo stesso di notevole imbarazzo tra gli unanimi nel reperire giustificazioni.

 

            3.2.7. Le soggettività artificiali.

 

  I risultati fin qui conseguiti consentono di impostare con facilità il problema della meritevolezza di tutela in base alla soggettività anche nel caso degli automi o, se si preferisce, delle soggettività producibili per mezzo dell'intelligenza artificiale. Una volta accolta la concezione non-specista (temperatamente, moderatamente non-specista) della soggettività, i calcolatori che avessero esperienze per loro stessi connotate positivamente o negativamente, e dunque interessi «propri», appunto soggettivi, andrebbero tutelati con riferimento al massimo attingibile, e proporzionatamente al tipo specifico, della loro soggettività. Via libera insomma ai «diritti civili dei calcolatori» o, nella terminologia qui adottata, ai loro diritti naturali, verosimilmente nel solito ordine diritto alla non sofferenza atroce - diritto alla vita degna - diritto alla vita (ordine che potrebbe subire ritocchi nel caso in cui essi attingessero addirittura la soggettività spirituale). Anche qui la difficoltà più che teorica è diagnostica, e in effetti i contributi di Cordeschi e Taddei-Elmi si concentrano sulla diagnosi: come riconoscere la soggettività intrinseca, non-ascritticia, di un programma o del«suo» calcolatore? Ma abbiamo convenuto che i problemi diagnostici non devono occuparci qui, come non devono occuparci primariamente i problemi di fattibilità. La psicologia metafisica classica ha già emesso il suo verdetto: una soggettività spirituale non si può generare, tanto meno assemblare; una soggettività sensitiva si può generare. La doppia asserzione può lasciare dubbio, comunque deve suscitare sentimento di meraviglia. Quanto alla diagnosi, osservo solo che diversamente dagli animali, i quali possono godere/soffrire senza parlare, i calcolatori possono parlare di godimento/sofferenza (propri) senza godere/soffrire; possono essere programmati a dare accurati resoconti linguistici «introspettivi» di loro stati «interni», per esempio di incrementi o diminuzioni del benessere, della potenza, dell'attività del loro «corpo» o del loro patrimonio informativo, espressi nei consueti termini del piacere e del dolore; sono pensabili «macchine di Turing edono-algologiche» difficilmente discernibili, quanto a resoconti simbolici, da soggetti gaudenti e pazienti umani. Ma ripeto: di questo non intendiamo qui occuparci.
Là dove non ci sia soggettività, ed è sicuramente il caso a tutt'oggi, la tutela dei programmi di intelligenza artificiale e degli automi chiamati a eseguirli non può avvenire, come ha chiarito puntualmente Taddei, che in base al valore. La peculiare natura attiva, «agente», «attivizzante» dell’algoritmo sembra tuttavia in qualche modo distinguerlo da altre forme dotate di valore e conferire alla sua tutela qualche aspetto latamente affine alla tutela della soggettività. Voglio dire che la bellezza impressa dalla forma «La Gioconda» alle molecole del celebre quadro può anche formularsi in termini di «interesse oggettivo a essere guardato, ammirato»; la partitura della sinfonia di Beethoven ha una sorta di interesse oggettivo, a essere eseguita, ascoltata; ma un geniale programma scacchistico «animante» un calcolatore ha un interesse oggettivo anche ad agire, a giocare, a vincere, a imparare e perfezionarsi, a «realizzarsi» insomma, che pur in assenza di vera soggettività cosciente assimila la sua tutela, strutturalmente, alla tutela di una soggettività. Si ha l'impressione che essa non potrebbe limitarsi alla conservazione e alla messa a disposizione dei fruitori, come avviene per gli altri beni culturali, ma dovrebbe estendersi per esempio alla promozione di partite nelle quali il programma avesse l'opportunità di affermarsi, e più comprensivamente a un insieme di interventi quodammodo assimilabile alla tutela del diritto alla vita degna.
La differenza principale tra la tutela in base al valore e quella in base alla soggettività è, come abbiamo visto, che per la prima non si può in genere prescindere da considerazioni di rarità, irrilevanti per la seconda. Un calcolatore pur dotato di valore intrinseco può essere soppresso in qualsiasi istante se non è raro o se viene superato da altri (qualche esemplare andrà conservato per il valore storico-museografico). Un programma di stacchi meno bravo di un altro può essere lasciato privo di occasioni di giocare e perfezionarsi.
Resta, analogamente al caso dell'umanoide, il secondo problema: sarebbe lecito, posto che fosse possibile, produrre calcolatori dotati di soggettività, beninteso con l'impegno di rispettare poi i loro interessi/ diritti? Qui evidentemente non c'è la questione di qualcosa come uno statuto del gamete umano: nulla di umano preesistente viene messo in gioco e minacciato, salvo auto-rappresentazioni dell'identità umana che si rivelerebbero per alcuni aspetti illusorie. Per vietare la produzione di coscienze artificiali bisognerebbe ancora una volta ricorrere all'evidenza: «è evidentemente illecito produrre c. a.», «è evidentemente male che esistano c. a.».
 Forse un argomento non-tautologico molto sofisticato potrebbe trarsi dalla diceologia, qualora si ritenesse possibile munire un calcolatore di vera soggettività spirituale senza con ciò conferirgli anche l'immortalità propria dell'anima umana o (nelle visioni «risurrezioniste») propria dell'uomo. Si produrrebbe infatti un soggetto etico esterno all'ordine kantianamente «intelligibile» della giustizia, che esige la retribuzione di meriti e demeriti e per ciò stesso una vita oltre la morte fisica, immune dall'empirica casualità del vivere e del morire fisici. Peggio ancora: si produrrebbe:un soggetto etico assoluto, perché capace di sottrarsi mediante suicidio all'ordine della giustizia e dell'amore santo, che esige strettamente l'insuicidabilità. In breve: è illecito produrre soggetti morali mortali, perché in quanto mortali non sono certi di soddisfare, anzi al limite sono capaci di beffare oltraggiosamente, le inflessibili e consolanti esigenze dell'ordine diceologico karmico o divino.
Ma naturalmente gli spiritualisti sostanzialisti rifiuterebbero entrambe le assunzioni necessarie all'argomento. In prima battuta ribadirebbero l'impossibilità ontologica di implementare vera soggettività spirituale in senso fenomenologico (trascendentalità della conoscenza e del desiderio, autocoscienza, autodeterminazione). Qualora poi vera spiritualità fenomenologica indubitabilmente ci fosse, rimarrebbe loro la risorsa di attribuirne l'origine a un atto creatore di Dio, il quale infonderebbe un'anima spirituale immortale nel corpo (software + hardware) artificiale per gli stessi motivi per cui l'infonde nel corpo (software+ hardware) naturale umano, nello zigote. In linea teorica è infatti pensabile che Dio, operando in modo non-specista, infonda l'anima spirituale in ogni supporto fìsico-informazionale che per complessità o altri pregi sia all'altezza di recepirla/esprimerla; e l'uomo potrebbe proporGli simili supporti, oltre che con gli atti caldi dell'amore e della generazione, anche con gli atti freddi della programmazione e della fabbricazione. Oppure, in una visione «risurrezionista», Dio potrebbe operare appunto la risurrezione di tutti gli autentici soggetti spirituali in senso fenomenologico, abbiano o no l'anima immortale «separabile». Il mandato biblico «crescete e moltiplicatevi» potrebbe includere nel caso dell'uomo demiurgo non solo la generazione, ma anche la produzione via intelligenza artificiale.
Lo stesso varrebbe per le biotecnologie: bisognerebbe postulare infusione dell'anima spirituale o risurrezione anche per gli umanoidi a soggettività fenomenologica spirituale o per eventuali animali che venissero dotati di una simile soggettività inserendo per esempio nel loro genoma le sequenze cromosomiche risultate responsabili delle capacità intellettuali e spirituali umane.
Al termine di questi excursus un po' acrobatici nell'Oltre, aggiungo comunque il mio parere che lo scetticismo sulla fattibilità dello spirito è - dalla psicologia metafisica classica - piuttosto ben fondato, anzi è forse estendibile alla fattibilità della sentience, e che gli insuccessi della «coscienza artificiale» confrontati ai successi impressionanti dell'«intelligenza artificiale» lo rafforzano, imponendo ancora una volta il thaumazein contemplativo di fronte al mistero inafferrabile, irrappresentabile e contiguo della consapevolezza dei corpi di viventi complessi. Questo scetticismo non toglie che in parte il suo «pungiglione» al dubbio teorico sulla liceità. Personalmente sarei per il sì: produrre, soprattutto per via nonbiologica, degli «altrui» ed entrare con essi in relazione di giustizia mi sembra, non senza esitazioni, lecito. E leciti mi sembrano quindi i progetti di «coscienza artificiale» oggi appena agli inizi. Maggiori esitazioni avrei per i progetti biotecnologici, soprattutto per quelli implicanti uso di materiali cromosomici umani.
Naturalmente, è sensato osservare che piuttosto che della tutela dei calcolatori coscienti bisognerebbe preoccuparsi di quella degli uomini contro i rischi di espropriazione della loro memoria, del loro pensiero, delle loro creazioni e decisioni da parte dei calcolatori estremamente potenti. Ma questo è un caso particolare della tutela dell'uomo nei confronti della tecnologia avanzata: uno dei molti problemi affrontati solo frammentariamente dalla nostra ricerca.

 

 

4.       TUTELA

 

          Su quest'ultimo argomento, anch'esso decisivo, mi limito a tracciare le linee generalissime di un inventario dei principi e dei problemi emersi. Il lettore viene rinviato alle parti sulla tutela contenute nei singoli saggi: si renderà conto che uno dei pregi della ricerca è proprio la fittissima varietà di proposte in tema di tutela, varietà che in nessun modo va ridotta e mortificata, ma che difficilmente si presta a una sintesi, e tanto più a una sintesi operativa. Questa può cercarsi se mai in un momento successivo, che veda direttamente impegnati anche politici e giuristi positivi.

Per il mio schizzo panoramico manterrò una distinzione già utilizzata dal gruppo nel corso della ricerca, tra tipologia e sistemica della tutela (o delle tutele).

 

            4.1. Tipologia della tutela.

 

            I singoli contributi dovevano principalmente formulare i fini o risultati (al tempo stesso desiderabili e adeguati, ben-proporzionati all'oggetto) della tutela; la strumentazione giuridica poteva, per motivi di competenza, restare sullo sfondo. Altrimenti detto: andava principalmente delineata la tutela «naturalistica» auspicata, delegando ai tecnici la traduzione in diritto. Alcuni contributi contengono tuttavia anche precise considerazioni e proposte tecniche.

Un primo livello di descrizione della tutela naturalistica è proprio la pura enunciazione del desiderato, della riuscita: più o meno: «splendano i cieli, brillino nevi, acque e ghiacciai; verdeggino le foreste, fioriscano i fiori; siano ammirati I capolavori, parlate le lingue, vissute le culture; non vengano interrotte le opere filmiche; pensino pensiero profondo i programmi; fervorosi ruggiscano i leoni, muggiscano gli armenti; nascano i bambini concepiti; ricevano e diano affetto i senzienti minorati; creino i capaci; sorridano utili i nonni, trapassino in pace i morenti; insomma, "opere tutte del Signore lodate il Signore"».
A un secondo livello di descrizione, la tutela naturalistica si presenta articolata in tipi di interventi da compiere, misure da prendere. A questo livello, un'osservazione assolutamente generale è che non basta la tutela giuridica o politico-giuridica, come non basta, a completarla, una tutela  economica. Occorre anche una tutela culturale. E a seconda dei beni; questa può avere più strati, andando dall'interiorità, anzi intimità, verso l'esteriorità e pubblicità. Ci sono meritevoli di tutela particolarmente delicati che esigono contemplazione spirituale: la Bellezza, l'embrione precoce già portatore di un destino di uomo. Qui la tutela culturale non può non essere anzitutto testimoniale; qui forse lo stesso strumento oggettivo del segno (linguistico, pittorico, filmico, musicale) se scisso dalla comunicazione persona-persona è inadeguato. Per altre realtà, la tutela culturale può iniziare dalle forme di comunicazione oggettiva, comunque mai superflue. Una forma intermedia, richiamata da molti contributi, è l'educazione scolastica; sulla quale il diritto può già influire notevolmente. In ogni caso, la prima tutela è la conoscenza, la coscientizzazione, il mutamento dei paradigmi di mentalità; bisogna che i meritevoli di tutela siano anzitutto visti; il diritto non può placcare le sue norme sull'ignoranza e l'insensibilità, anche se può fare non poco contro l'ignoranza e l'insensibilità.
Altra osservazione che risulta da tutti i contributi è che ogni oggetto ha una sua costellazione specifica di tutele, che può essere composta di tipi semplici comuni a più oggetti, ma che nel suo insieme è unica. Quanti I tipi di oggetti, tanti i tipi di tutelacomplessi e concreti.
Passando alla tutela giuridica o politico-giuridica, un primo problema generale è se l'ontologia del diritto renda sempre sensato l'intervento giuridico in quanto tale. Ci sono entità o beni sicuramente meritevoli di tutela, sicuramente poco adatti a essere «processati» giuridicamente. Tuttavia bisogna stare attenti a non dare per scontata una concezione del diritto riduttiva, per esempio patrimonialistica, attribuendo all'ontologia qualcosa che appartenga in realtà alla storia, a una storia, per esempio alla forma sociale borghese occidentale moderna.

      Un secondo problema è se il diritto statale sia sempre il più appropriato alla tutela. Alcuni ordinamenti giuridici privati, «di erogazione» e «di comunità», possono custodire certi valori, proteggere o potenziare certe soggettività, più efficacemente e vocazionalmente di un servizio burocratico pubblico. Si può pensare a nuove e più qualitative formulazioni del principio di sussidiarietà. Non solo «non intervenga il più grosso/lontano dove può agire il più piccolo/vicino», ma anche «non intervenga il burocratico/ professionale dove può intervenire il vocazionale», e in ogni caso la tutela dall'alto o dal centro assuma, potendo, la forma di un'attivazione delle tutele decentrate e delle autotutele.

        Quest'ultimo rilievo pone un altro delicato problema, emerso soprattutto a proposito della tutela in base al valore. Possono verificarsi tensioni tra tutela diretta degli oggetti (lingua, cultura, opera d'arte, risorsa ambientale) e tutela o comunque rispetto dei soggetti «naturalmente» vocati alla tutela stessa (minoranze linguistiche e culturali, autori e fruitori di film, nazioni eredi di grandi patrimoni artistici, abitanti di comprensori protetti o da proteggere). Si può costringere la comunità renitente a parlare la propria lingua di vallata, mentre preferisce magari l'inglese e i linguaggi di programmazione? A vivere secondo la propria interessante tradizione culturale, mentre preferisce inurbarsi e modernizzarsi? Cosa dire contro l'autore cinematografico che è d'accordo sull'interruzione mediante spots? Come bloccare il piccolo Stato amazzonico o himalayano che consente o procura attivamente il degrado ambientale? L'ideale è chiaramente, in base al principio di sussidiarietà rivisitato e perfezionato, che la tutela oggettiva sia svolta dai soggetti «naturali»; ma i problemi politici e giuridici in caso di inadempienza possono essere delicatissimi. Del resto avviene qualcosa di simile anche nella tutela in base alla soggettività: il concepito può dover essere tutelato contro I genitori, l'anziano contro i familiari, l'animale contro i padroni e così via. Restano fermi il principio di sussidiarietà, quello dell'(attivizzazione dell')autotutela, quello - per le entità incapaci di autotutela -della preferibilità della tutela da parte dei soggetti «naturali»; ma possono confliggere con le esigenze oggettive e per così dire veritative della tutela. Sarebbe importante, certo non facile, elaborare criteri per la soluzione dei principali tipi di conflitto, forse sulla falsariga delle casistiche concernenti la funzione sociale della proprietà, l'espropriazione per pubblica utilità, l'affidamento dei minori per carente assistenza da parte della famiglia e figure simili.

Tutti i tipi di tutela giuridica fin qui menzionati possono assumere forma conservativa (o addirittura «preservativa») e promozionale, dissuasiva e incentivante, repressiva/penale e premiale; dove i secondi termini delle coppie appaiono più «belli» (in senso greco) dei primi, che pure rimangono necessari.
Sempre a proposito di tipologia, il problema forse più dibattuto in generale, certo il più dibattuto a proposito degli animali, è se si tuteli meglio (con più giustizia/giustezza teorica, con più efficacia pratica) riconoscendo/conferendo diritti ai tutelandi o attribuendo/imponendo doveri ai tutelanti. Nel corso della ricerca si era parlato di tutela-titolarità (di diritti) e tutela-tutelarità (doverosità del tutelare, senza esistenza di diritti, ma con attribuzione di poteri di controllo che i doveri vengano adempiuti). Ho già dichiarato la mia posizione: mi sembra preferibile, teoricamente, riconoscere diritti ai, e solo ai, portatori di interessi soggettivi meritevoli di tutela, quindi (solo) agli enti dotati di soggettività. Perciò diritti (naturali) degli animali («superiori»), non (contro Bosselmann e altri) degli animali non-senzienti, delle piante, delle pietre, degli ecosistemi. Chi ritenga che la titolarità di diritti spetti solo a soggetti intellettivi e morali, responsabili e imputabili, dovrà negare i diritti degli animali, ma avrà senz'altro dei problemi con i diritti degli uomini minorati.Sembra chiaro che per avere diritti non occorre la capacità di esercitarli, e che sotto questo profilo possono avere diritti sia gli animali superiori che gli uomini minorati. L'uomo allo stato di embrione, pur attualmente privo di interessi soggettivi, ha diritti perché la sua vita è quella del soggetto di diritti per eccellenza, l'individuo dotato di spiritualità. Un eventuale automa cosciente avrebbe diritti.
Comunque, la disputa tra terminologia dei diritti e terminologia dei doveri (o degli interessi comuni, diffusi, collettivi, pubblici) non è decisiva, né sul piano teorico né sul piano pratico. Ci sono oggetti sicuramente non titolari di diritti, come i grandi capolavori artistici, infinitamente meglio tutelati di soggetti sicuramente titolari di diritti, come gli anziani poveri e soli o come i carcerati o come i bambini denutriti del terzo mondo. E si può avere il dovere di tutelare la Gioconda senza avere alcun dovere nei suoi confronti. Essenziale è che i meritevoli di tutela incapaci di autotutela vengano tutelati.
Nell'ambito specifico della teoria generale del diritto, il risultato più notevole della ricerca è la crisi in cui mette categorie tra le più cardinali dell'ordine giuridico classico. Non se ne può fare qui un inventario esauriente. Certo entra in crisi grave il diritto soggettivo, accompagnato dall’interesse legittimo. Diviene indispensabile un allargamento in misura appena prevedibile delle legittimazioni attive a richiedere la tutela legislativa, amministrativa è giurisdizionale. Associazioni di volontariato del tipo WWF o Italia Nostra o Club Alpino (che per l'arco preso in esame dalla nostra ricerca sono centinaia), gruppi ad hoc di semplici cittadini episodicamente lesi nella loro quota ideale di fruizione di un bene pubblico o comune, nuove figure professionali come i «public interest lawyers» americani e altre simili sono necessariamente destinati a svolgere una funzione legale crescente. Come ha segnalato Bianchi, sono in generale le categorie individualistiche a risultare sempre meno adeguate. I diritti dell'uomo non possono pensarsi come illimitati in tutte le direzioni; non può non riapparire il concetto di interesse o bene comune (ecumenico), che fa del diritto di ciascuno (di ciascun popolo) un quoziente; non possono non guadagnare terreno le categorie della funzione sociale, della solidarietà, del solidarismo pluralistico. La crisi dell'individualismo è crisi dei due pilastri, privatistico e pubblicistico-internazionalistico, dell'individualismo: proprietà privata e sovranità statale, e di tutti gli istituti derivati. Inadeguato appare anche, come già detto, il patrimonialismo giuridico: diviene sempre più indispensabile pensare un diritto capace di tutelare il non-patrimoniale, il personale, il culturale, l'estetico, forse il sapienziale. Entra in crisi ogni forma di decisionismo. Anzitutto quello consegnato nel positivismo giuridico classico, almeno come tesi che fonte del diritto è la volontà del legislatore: questa volontà è sempre più ecumenicamente, eco-nomicamente, giusnaturalisticamente misurata (cfr. sopra, § 2.3.6). Ma tutte le procedure democratiche di formazione della volontà generale non possono non sottostare a sempre più stretti vincoli razionali, «sanioritari»; certo, con rischi di paternalismo illuminato, di tecno- o sofocrazia, al limite dittatura, ecosistemica planetaria.
Rispetto all'ordine giuridico classico di impronta europea instaurato negli ultimi due secoli, tutto questo può sembrare ai puristi neo-volgarismo giuridico, in un senso simile a quello che per la fase declinante dell'impero romano ha fatto parlare appunto di Vulgarismus. D'altra parte, il travaglio cui assistiamo nasce anche dalle esigenze di mia nuova, ben più ampia, ben più profonda razionalità sostanziale, che non può subito trovare formalizzazioni perfette. Mentre l'impero economico e politico dell'Occidente non può non declinare per sempre; le componenti vive e universali della sua cultura sono chiamate a mettersi al servizio dell'immenso processo d'integrazione planetaria in corso. Il giurista capace di seguire flessibilmente, creativamente questo processo dovrà essere, ho scritto altra volta, un giurista «neo-altomedievale».

 

            4.2. Sistemica della tutela.

 

          Se è vasto e intricato il panorama dei distinti tipi di tutela complessi e concreti adeguati alle peculiarità dei singoli oggetti meritevoli separatamente considerati (un embrione è talmente diverso da una foresta e da una cultura!), tanto più arduo da dominare il problema della coordinazione tra tutte le tutele. Ogni contributo monografico ha detto cosa occorrerebbe per tutelare quel particolare pupillo; nessuno si è fatto carico di tutti i pupilli unitariamente. Tallacchini ha molto bene illuminato i limiti del pensiero lineare e la natura e la necessità di un pensiero sistemico non formalista; ma questa è solo la premessa teorica per un modello globale operativo.

La costruzione di un simile modello comporterebbe due fasi. In una prima fase (sistemica oggettiva o a parte rei), recepite le richieste di tutela per singoli oggetti, andrebbero chiariti i rapporti materiali, causali, intercorrenti tra i vari oggetti supposti tutti ottimamente tutelati. È qui che assumono rilevanza le «qualità relazionali» (cfr. § 2.1.3.). I rapporti principali saranno probabilmente tre: l'incompatibilità o conflittualità, la compatibilità o indifferenza, la sinergia. Esempi del primo rapporto: molti insediamenti umani può significare pochi comprensori naturali incontaminati; molti diritti ai cani randagi può significare scarse probabilità di sopravvivenza del lupo appenninico di pura razza; molti diritti alle miniculture può significare minore probabilità di formazione di un'alta cultura, se questa richieda una certa scala quantitativa; esigere che si proiettino solo film ininterrotti può ridurre il numero dei film d'arte offerti in visione; accrescere i diritti degli animali nati può ridurre il numero degli animali fatti nascere e vivere; accrescere i diritti dell'uomo minorato può favorire l'aborto in caso di diagnosi prenatale infausta, risultando troppo gravosa la responsabilità da assumere in caso di nascita. Occorre scegliere tra meno nascite e più diritti (maltusianesimo primo-mondista) e meno diritti e più nascite (prolificità terzo-mondista)? Tra meno uomini più longevi (al limite, un numero fisso di uomini immortali) e più uomini meno longevi (al limite, sottoposti a eutanasia una volta raggiunta un'età legale massima)?
Ci sono anche esempi di compatibilità o indifferenza: il moltiplicarsi di capolavori musicali non interferisce in nessun modo con la sopravvivenza delle foreste o degli embrioni. E possono esserci casi di sinergia: la sopravvivenza delle grandi foreste può favorire quella di molte specie animali e per certi aspetti anche dell'uomo; la tutela di una lingua potenzia quella della relativa cultura; la tutela delle lingue e delle culture converge con quella delle soggettività individuali e di popolo che siano interessate a parlare la propria lingua, vivere secondo la propria cultura.
Una volta accertati i nessi causali, le azioni, retroazioni, circolarità sistemiche oggettive, si potrebbe passare alla seconda fase (sistemica degli interventi o a parte subiecti), resa necessaria dai rapporti di incompatibilità/conflittualità e dalla limitazione delle risorse. In questa fase si porranno i problemi di gerarchia tra beni o valori e di priorità, auspicabilmente alla luce dell'ideale regolativo dell'umano pleromatico. Il pléroma non può infatti avere l'aspetto di un accumulo di espansioni illimitate, di un «mucchio informe» di tutele incondizionate. Nemmeno le soggettività, che pure meritano, in quanto tali, tutela indipendente da ogni considerazione di valore/rarità, possono essere tutelate in modo irrelato e assoluto. Basta pensare - per uscire un momento dal nostro campo - alle disuguaglianze Nord-Sud nella tutela dei diritti umani fondamentali. Il pléroma ha dunque, nel senso più ellenicamente pregnante, una forma, è una forma, il che vuol dire lineamenti, limiti. Non è pura massimizzazione quantitativa in tutte le direzioni. È affine all'opera d'arte, che risplende anche di tutti i sacrifici compiuti, risplende di rinunce. A parte subiecti, la sistemica della tutela è opera d'arte assiologica fondata sulla conoscenza dei rapporti causali oggettivi, della sistemica ontologica.
Mentre nella prima fase le divergenze di opinioni concerneranno problemi fattuali e andranno affrontate con metodo scientifico, nella seconda concerneranno problemi valutativi e andranno affrontate con metodo filosofico. L'esito più attendibile della discussione complessiva sarà il suo cristallizzarsi in un limitato numero di modelli o progetti o scenari pleromatici, costituiti dalle principali ipotesi sistemiche-causali moltiplicate ognuna per le principali ipotesi sistemiche-assiologiche. Non è verosimile che si giunga a un modello unico da tutti condiviso: il pensiero sistemico-fattuale non sembra potersi costituire in scienza assolutamente esatta, a risultati identici per tutti gli scienziati; meno ancora sembra poterlo fare il pensiero sistemico-assiologico.
A questo punto si porrà il problema per definizione politico del soggetto e/o della procedura cui spetti la decisione finale sul modello da adottare. Le soluzioni democratiche classiche (parlamenti nazionali formati con elezioni, su base territoriale, di politici generici onnicompetenti) sembrano inadeguate, e necessarie correzioni o integrazioni in duplice senso ecumenico e funzionale/sofocratico. Voglio dire che la scala sempre più planetaria e la natura sempre più scientifica e filosofica dei problemi di sistemica della tutela esigono nuovi soggetti politici, dotati di investitura appunto planetaria e individuati su base funzionale anziché territoriale, specialistica anziché generica. Penso ai «fisici del pianeta», ai «biologi del pianeta», ai medici, agli ecologi, agli esperti in risorse energetiche, ai filosofi morali religiosi o laici, sempre dell'intero pianeta. Questi soggetti politici ecumenico-funzionali potrebbero affiancarsi, quasi «seconde camere» parlamentari o comunque inapposite sedi inter- e sopranazionali, ai vecchi soggetti nazional-generici; in caso di contrasto, dovrebbero verosimilmente prevalere; sempre, s'intende, entro un quadro saldamente delineato da principi fondamentali rigidi di diritto naturale contenutistico e procedurale e nel massimo rispetto possible delle individualità storiche e del principio di sussidiarietà; un quadro di solidarismo personalistico pluralistico; un quadro in ogni caso non implausibilmente qualificabile di pleromatico.
Alla sistemica oggettiva/fattuale e a quella soggettiva/assiologica dovrebbe dunque seguire - come terza fase - una sistemica politico-costituzionale.

 

            4.3. Commiato che si vorrebbe non-scettico.

 

            Le difficoltà di tutte e tre le fasi inducono a sospendere il discorso sul modello globale operativo con forse una pausa di scetticismo. Tutta questa prevista razionalizzazione che probabilità ha di tradursi in storia reale, o anche solo di influire? Non è più realistico, o forse addirittura anche più saggio, lasciare hayekianamente la sistemica della tutela affidata al sistema diacronico dei fatti, alle loro azioni e retroazioni omeostatiche, ai loro auto-aggiustamenti nel tempo? Di fronte ai nodi residui di complessità analiticamente inestricabili, alle divergenze valutative filosoficamente incomponibili, alle resistenze dei privilegi costituiti, all'insanabile volgarità dei processi di reclutamento dei politici, alle passioni del potere e del profitto, agli egoismi alle paure di popolo, di credo, alle interferenze stesse provenienti dall'immenso doloroso ambito, qui tralasciato, dell'umanità nata/adulta/normale, dove i principi della tutela sono altrettanto precisati e incontroversi quanto vastamente - a continenti interi - disapplicati, non è più realistico, per un piccolo gruppo di intellettuali, prevedere (del resto inconfutabilmente): «sarà quel che sarà»? Stretta tra tecno- pluto- partitocrazia, conserva la democrazia del futuro uno spazio più ampio del musiliano «decidere ciò che accade»?

C'è un'altra forma di scetticismo sulla politica di tutela: ben più profonda, anzi tanto profonda da non potersi veramente dire scetticismo. Molto prima della politica dovrebbe venire, e molto oltre la politica durare, il silenzioso, l'inginocchiato riconoscimento. «Ma chi siamo noi», noi uomini adulti moderni potenti, per guardare alla bellezza, al valore, alla ricchezza del mondo, al mistero dell'essere, della soggettività, alle creazioni dello spirito, quasi come se noi fossimo i benevoli e «si potesse fare molto per loro»! Essi anzitutto esistono, e il loro esserci, il loro poter-esserci è il mirabile. La politica della tutela, tanto più quella benemerita ai propri occhi, se prevale anche di un'inezia sulla contemplazione è goffa in radice e imperdonabilmente; sta al riconoscimento alla venerazione ontologici come beneficenza ad amore, burocrazia a sapienza. Prima dunque riconoscere; poi servire; infine, e con vergogna, se necessario tutelare. Anche qualora non si giustificasse alcuno scetticismo sull'operatività storica della tutela.
Disincanto storico non significa tuttavia necessariamente rinuncia a pensare con accuratezza nella direzione del desiderabile. Certo, pur senza cedere a tentazioni di regressione e di sconforto, sull'ostica soglia del modello globale anche politico la nostra ricerca si è, di fatto, fermata. In attesa di qualche riscontro rincuorante o almeno dell'affiusso di nuove energie interne, dobbiamo per ora contentarci del risultato, questo sì, ottenuto: avere contribuito non banalmente a chiarire cosa, nel quadro del trionfo e della crisi della modernizzazione, significherebbe, se fosse possibile, abitare pleromaticamente la Terra.

        

 

 

* Per motivi tecnici ho rinunciato alle note pié di pagina. La bibliografia sui singoli argomenti toccati è sostanzialmente quella dei corrispondenti contributi della ricerca. Le citazioni, col solo nome, di collaboratori della ricerca s'intendono riferite ai saggi presenti in questo volume. Molti presupposti di quanto dirò si trovano nel mio Corso di filosofia del diritto, Cedam, Padova 1981 e in Terre. Terra del Nulla, Terra degli uomini, Terra dell'Oltre, Vita e Pensiero, Milano 1989, nonché in Cristianesimo, secolarizzazione e diritto moderno, a cura di L. LOMBARDI. VALLAURI e G. DILCHER, 2 voll., Giuffrè e Nomos Verlag, Milano e Baden-Baden 1981. Il problema, connesso a quello qui affrontato, di come il diritto possa tutelare e promuovere le dimensioni profonde di sviluppo della persona è trattato anche nei lavori citati nell'Avvertenza alla Parte II (p. 218) di Terre. Sui trascendentali (§ 2.1.4) rinvio ai manuali scolastici, per esempio all'Ontologia del padre O'Farrell e all'Etica del padre de Finance, entrambe pubblicate dall'Università Gregoriana. L'assioma «È bene che l'uomo sia» (§ 2.3.1) è stato da me posto alla base della voce Diritto naturale per il Digesto italiano, IV edizione, dove serve a evitare la fallacia naturalistica pur facendo pienamente spazio all'ontologia. Il saggio di Francesco Margiotta-Broglio ricordato alla fine del § 2.3.3 è Diritti dell'uomo è identità culturale (relaz. ciclost. UNESCO); cfr. anche Tolleranza religiosa, identità culturale e lotta contro la discriminazione, in «Rassegna quadrimestrale Commiss. Naz. UNESCO» 1988, 109-129. I testi di Piovani e Villey citati al § 2.3.6 sono rispettivamente Giusnaturalismo ed etica moderna, Laterza, Bari 1961 e Leçons d'histoire de la philosophie du droit, Paris 1962. Sempre al § 2.3.6, il parallelo tra comunità ecumenica dei popoli e comunità di alta valle alpina si fonda su alcuni libri concernenti la mia valle (Val Maira, in provincia di Cuneo) e in particolare l'a me carissimo vallone di Elva, rimasto per secoli quasi completamente isolato e autosufficiente: P. Raina, La mia valle aveva un'anima. Vita, figure, storie di nostra gente, ed. Il Drago, Dronero 1982; P. Ponzo, Val Mairo la nosto. Testimonianza di civiltà provenzale alpina in alta Val Maira, ed. Centre prouvençal Coumboscuro 1982; ID., Val Mairo viéio suhoùr. Civiltà provenzale alpina, ivi 1986. Sulla religione civile dei diritti dell'uomo (§ 3) ho scritto in La portée philosophique des droits de l'homme, «Nova et vetera», 1982/1 (tr. it. in «Per la filosofia» gen.-apr. 1988, 10-20), sulle manipolazioni della mente via corpo (ancora § 3) cfr. L’impatto della tecnologia sulla vita e sulla autopercezione dell'uomo, in AA.VV., Etica e trasformazioni tecnologiche, Vita e Pensiero, Milano 1987. Per il concetto di «princeps analogatum», cui si allude nel testo subitò dopo, vedi p. es. F. O FARRELL, Praelectiones de antologia, Pontif. Univ. Gregoriana, Roma 1958, 128. Al § 3.1, la citazione di Derek Parfìt è da Ragioni e persone, Il Saggiatore, Milano 1989, 270. Il § 3.1.1, sulla psicologia metafisica, è un riassunto del corrispondente capitolo della mia dispensa Pensare è giusto, ed. I.S.U., Università Cattolica, Milano 1989, a sua volta fondato su P. SIWEK, Psychologia metaphysica7, Pontif. Univ. Gregoriana, Roma 1965. Verso la fine dello stesso § 3.1.1 viene citato S. MORAVIA, L'enigma della mente, Laterza, Bari 1986; le frasi dello stesso tenore, nell'Introduzione e passim, sono tanto numerose quanto apodittiche. Le ultime righe del § 3.1.1, sul suicidio filosofico, rinviano, oltre che a Kante Horkheimer, all'articolo Impossibilità di suicidio, giustizia, volto dell'altro, in Terre, cit., 211 ss. (cu si riferisce anche l'accenno in 3.2.7 alla «insuicidabilità» come esigenza etica). Gli studi di indirizzo analitico (nel senso della filosofia analitica) sull'io e sul soggetto menzionati alla fine del § 3.1.2, numerosi e interessanti, possono reperirsi partendo p. es. Da «Topoi» 7, 1988 (Kluwer Acad. Publ.); S. SHOEMAKER-R, SWINBURNE, Personal Identity, Blackwell, Oxford 1984; R. CHISHOLM, The First Person, Harvester, Brighton 1981; sulla psicologia buddista vedi per tutti T. R. V. MURTI, The central philosophy of Buddhism. A study of the Madhyamika system7, Mandala Books, Allen Unwin 1960, rist. 1980. Per il problema aborto, e in genere statuto dell'embrione umano, e per le connesse posizioni filosofiche (§3.2.1), rinvio alla Parte I di Terre e agli ulteriori scritti citati ivi nell'Avvertenza di p. 42. Sulla scelta «altruista» del Budda, di rimanere in vita dopo l'illuminazione, e sul divieto di suicidio in contesto reincarnazionista (§ 3.2.4), vedi, in The Book of the Discipline (Vinaya-Pithaka), «Sacred Books of the Buddhists», Luzac & Company, London 1949-1966, rispettivamente il Mahavagga (vol. IV) e la sezione del Patimokkha concernente gli atti di violenza (vol. I). La distinzione tra ordinamenti non statali «di erogazione» e «di comunità» nel contesto della promozione di beni particolarmente delicati e vicini al bene della persona è sviluppata da me in La politica e le sue metamorfosi (in AA.VV., Metamorfosi della democrazia, Massimo, Milano 1985, 34-62) e Giuridico e metagiuridico: diritto e dimensioni profonde della persona (in Soc. It. di Fil. Giur. e Pol., Il problema del «metagiuridico» nell'esperienza contemporanea del diritto, Atti, acuta di R. ORECCHIA, Giuffrè, Milano 1984, 57-82). L'accenno al giurista «neo-altomedievale» (ultima riga § 4.1) è in Delegalizzazione, neogiuridicizzazioni, secolarizzazioni, «Jus» 1985, 370.

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