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Autore

Luigi Lombardi Vallauri

RESISTENZE VIOLENTE
RESISTENZE NON VIOLENTE

QUALCHE SUGGERIMENTO PER LA RESISTENZA ESTETICA

 

in AA.VV., La resistenza estetica in musica. Esempi e riflessioni, a cura di Giovanni Guanti, Pisa University Press, 2018.

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Inviato il 26/11/2020




                                                          Ogni uomo più giusto dei suoi concittadini

                                                       costituisce una maggioranza di almeno uno.

                                                                                                                       Thoreau

La parola Resistenza (R) è magica, e la botanica delle forme resistenziali e affini è così üppig da resistere a tassonomie che si vogliano esaurienti e rigorose. Io qui fornisco, sub 1, un inventario artigianale in stile quasi telegrafico, redatto col criterio "nel dubbio includi"; poi mi chiedo, sub 2, quali forme possono avere un'applicazione sensata in campo estetico; infine, sub 3, propongo un concetto di sanzione tratto dall'estetica, che può suggerire interessanti revisioni dei concetti correnti di sanzione giuridica retributiva, civile e soprattutto penale.

 

1. Inventario

1.1. Resistenze affini alla resistenza armata

La prima R che viene in mente, "la" R per antonomasia, è ovviamente la R armata dei partigiani contro l'esercito nazifascista dopo l’8 settembre 1943: la R alla quale è dedicato l'inno di Calamandrei in replica a Kesselring custodito su lapide nel palazzo comunale di Cuneo1. È una R che accetta in pieno il ricorso alla violenza mortale tipicamente bellica.

Enumero allora, come forme latamente affini a questa R, ordinate approssimativamente dal più al meno "bellico": la guerra ("giusta") difensiva; la guerra di indipendenza (Risorgimento italiano, impresa di liberazione cubana condotta nel 1892 da Martì); la guerriglia; la Rivoluzione (illuminista, marxista, comunista, maoista, castrista); la "lotta armata" rivoluzionaria tipo Brigate rosse2; l’"azione diretta" violenta variamente sponsorizzata da Sorel, Fanon, Sartre, forse Zerzan; il multiforme terrorismo, segnatamente quello con autoimmolazione del terrorista e vittime civili; la R civile delle popolazioni inermi a fianco e sostegno della R armata dei partigiani3; in qualche modo - come R al crimine - la giustizia punitiva violenta (pena capitale, mutilazioni e altre inflizioni di afflizioni corporali, carcere (quello duro, comportante "trattamenti contrari al senso di umanità" e "non tendente alla rieducazione del condannato": cfr. art. 27 Cost. it). Aggiungerei, in ordine sparso, il tirannicidio legittimo, la ribellione violenta, l'anarchia espressa in forme commissive anche violente, il sabotaggio a colpi di sabots, di zoccoli, il luddismo.

 

1.2. Resistenze affini alla disobbedienza civile

La seconda cosa che viene in mente, pensando alla R, è l'insieme variegato dei fenomeni riconducibili in qualche modo al concetto di disobbedienza civile4. Qui i nomi archetipici moderni sono, tra i tanti, Theau e Gandhi; ma la storia è lunghissima, comincia con Antigone e con il Socrate del Critone e attraversa teorici cristiani come Tertulliano, Tommaso d'Aquino, von Kleist, Lutero, i puritani, fino ai recenti Martin Luther King, Nelson Mandela, Aung San Suu Kyi o al "Gandhi italiano" Aldo Capitini5.

Si tratta, come ho detto, di un paesaggio variegato, da non investire con stringente logica univocista. Emergono alcune figure più profilate e rilevanti: anzitutto, ovviamente, i sottotipi della disobbedienza civile, commissiva (la marcia del sale di Gandhi) e - più spesso - omissiva; poi la cospicua parente prossima obiezione di coscienza, che meriterebbe da sola un'apposita trattazione6: anch'essa sia omissiva (p. es. contro il servizio militare, l'aborto, la sperimentazione animale, il pagamento di alcune imposte), sia, più raramente, commissiva, p. es. da parte di animalisti contro una legge che vieti il disturbo alle aperture della caccia). Menzionerei ancora il boicottaggio (p. es. quello gandhiano contro le merci e i telai inglesi) e più generalmente il consumo critico, che nella società dei consumi è atto quasi più politico del voto politico. Forse, seguendo il criterio "nel dubbio includi", può ordinarsi qui lo sciopero, passato da delitto a diritto costituzionalmente protetto, e praticabile con motivazioni para-resistenziali svariatissimi7. Enumero ancora, in ordine ormai solo alfabetico e con sensi di problematicità: l'abdicazione (tipicamente del sovrano); le dimissioni (del magistrato, del funzionario, dell'amministratore delegato); la diserzione motivata in coscienza; la dissidenza; la noncooperazione, p. es. il rifiuto della collaborazione col governo; la stessa non-resistenza o resistenza passiva, intesa come manifesta, esemplare sopportazione paziente, sofferta, di un sopruso ("Uniremo la vostra capacità di infliggere sofferenze alla nostra capacità di sopportare le sofferenze": Martin Luther King Jr. in Hawken 107); le occupazioni (di edifici, di terreni altrui); l'ostruzionismo; la renitenza alla leva8; la ribellione nonviolenta, p. es. al dominio congiunto di Internet e del mercato capitalista9. Menziono anche qui, come modi della disobbedienza al pensiero unico, le iniziative di auto- e altra produzione, che esporrò principalmente al paragrafo 1.7.

Va notato che, diversamente da 1.1, tutto 1.2 è sotto il segno della nonviolenza o almeno del non ricorso alla violenza.

 

1.3. Mediazione, incontro, riparazione

Per il loro carattere antiviolento menziono anche teorie e pratiche quali la sostituzione della diade giudizio-condanna con la diade mediazione-riparazione, il ricorso al dialogo, l'incontro tra offensore e vittima10. Mi sembra di poterle considerare simil-resistenziali perché il male, il sopruso, il conflitto, l'antagonismo non vengono "lasciati correre" ma vengono affrontati con metodi appunto non violenti, orientati - semplifico - più a una giustizia relazionale e riparativa che a una giustizia unilaterale e retributiva. Vedremo che questo può avere importanza in estetica.

 

1.4. Critiche alla disobbedienza civile

L’accenno alla nonviolenza evoca una dimensione fondamentale dell'etica, se non addirittura una visione del mondo. Manca lo spazio per discuterne. Devo limitarmi a professare la mia convinta, argomentata adesione filosofica e spirituale e rinviare a qualche mio scritto in argomento, nel quadro di un pensiero apofatico in ragione teoretica e pleromatico in ragione pratica (chiedo scusa per l'esoterismo dei paroloni e forse anche della parola esoterismo)11.

Qui trovo giusto registrare anche alcune critiche alla disobbedienza civile (d.c.) e a forme resistenziali analoghe, incontrate principalmente nella letteratura inglese. I radicali e i noncognitivisti etici trovano le motivazioni "superiori" dei disobbedienti un po' giusnaturalistiche, i conservatori invece le trovano anarcoidi; anche i difensori della legalità hanno problemi, ma i capi nazisti a Norimberga sono stati condannati per non avere compiuto d.c. In quanto auto-asserita simbolica, esemplare, la d.c. può dare impressioni di elitismo, di presunta nobiltà, di "elite-pariah consciousness'', di sprezzante umiliazione dei conformi, di schieramento luce contro tenebra. Anche la non-resistenza passiva, sofferta, può sapere di ricatto colpevolizzante, di "moral extortion". In tutt'altra prospettiva è stata criticata (p. es. da avversari "rivoluzionari" di Gandhi) la scarsa efficacia dei metodi nonviolenti, "aweapon of the weak".

 

1.5. Destinatari della resistenza

Quali sono i destinatari della R? Contro chi/cosa viene esercitata? Ho creduto di poter dare una risposta generalissima, dotata dei pregi e dei limiti di ogni categoria scelta come onnicomprensiva: in tutte o quasi le sue forme, se non per definizione, la R si esercita contro un potere, contro un'egemonia. Ho provato a inventariare artigianalmente i poteri, e un primo gruppo si è trovato a comprendere: a) il potere politico-giuridico militare, possiamo dire anche pubblico, statale, il Civil Govemment di Thoreau; b) il potere economico-finanziario; c) il potere burocratico (la "burocrazia che strangola"); d) il potere clericale; e) il potere tecnico; f) il potere mediatico. Tutti i poteri da b) a f) si prestano a essere grecizzati in -crazia: plutocrazia, burocrazia, teocrazia, tecnocrazia, mediocrazia (che tendo a derivare sia da "media" che da "mediocre"). Per i poteri criminali di stampo mafioso invento liberamente, ancora grecizzando, g) kakocrazia. Il potere a), nella maggioranza degli Stati contemporanei, si vorrebbe etichettabile come democrazia, volontà del popolo sovrano regolatrice di tutti gli altri poteri.

Un secondo gruppo di poteri si è trovato a comprendere: a) il potere culturale; b) il potere pubblicitario; c) il "pensiero unico"; d) il "racconto monotematico dei mass media e della stampa, l'Italia dei reality show, dei talk show e dei telegiornali" (cioè i contenuti della mediocrazia: cose che non conosco di persona, ma contro cui viene esercitata R da chi le conosce); e) il potere linguistico (p. es. l'egemonia dell'angloide); f) il potere dei ruoli lavorativi, molti dei quali alienanti (cfr. gli autolicenziamenti per inautenticità del ruolo); g) le abitudini, le credenze, le preferenze della maggioranza conformista, della tocquevilliana "tirannide della maggioranza" (qualcuno parla di "mobocracy", che però corrisponde meglio al concetto di "governo della piazza"); h) le religioni.

Entrambi i gruppi assemblano, per usare una sola parola riassuntiva, il Sistema, quello che Sartre chiamava "la Chose". Mentre per il primo gruppo viene bene -crazia, per il secondo gruppo, di natura più culturale, è preferibile parlare di egemonia. La R è dunque sempre minoritaria, e spesso - almeno in una prima fase - "utopica".

 

1.6. Fuoriuscitismo

Un genere particolare di R, che. si poteva anche inserire in 1.2, è il chiamarsi fuori, il fuoriuscitismo. Penso al lasciare il proprio paese per disapprovazione del suo regime politico (è accaduto in Germania nazista, in Russia sovietica) o per disgusto etico-estetico. Penso al ritirarsi in nicchie alternative extra-urbane, extra-sistema, p. es. agli arboricoli neopaleolitici di ispirazione zerzaniana12 o alla famiglia di Captain fantastic. Ma l'esempio archetipico è il monachesimo, l'uscita dal "secolo" dei rinuncianti alle sue legittime dimensioni costitutive: potere, ricchezza, piacere13. Fino all'eremitismo, di Padri del deserto o di yogin "pazzi" - nel senso di non soggetti alla disciplina del cenobio monastico - come Milarepa e il suo biografo Tsang Nyong Heruka. Milarepa è per me il "resistente" forse più estremo, coerente e significativo della storia14.

 

1.7. Scelte/stili di vita alternativi

La forma più cospicua di R è senz'altro la scelta di comportamenti alternativi a quelli indotti o imposti dal pensiero egemone. Ipersemplificando si può suddividere il resistenziale/alternativo in a) interventi, b) stili di vita. Le due cose sono interrelate: chi fonda o finanzia un'organizzazione tende a vivere in armonia con gli scopi dell'organizzazione, e chi adotta uno stile di vita "diverso" tende a sostenere (o a far parte di) organizzazioni i cui scopi sono consonanti col suo stile di vita. Io qui per brevità, e per verosimile maggiore traducibilità in scelte di resistenza estetica, mi concentro sugli stili di vita, che comunque permettono quasi sempre di risalire a iniziative comunitarie o a vere e proprie comunità di vita alternativa.

Per inventariare quella che si può chiamare la politica resistenziale, o almeno alternativa, ai poteri forti governativi o macroeconomici, al Sistema, avrei potuto esplorare l'elenco dei destinatari del 5 per 1000 in Italia. Ho preferito studiare tre libri che danno risultati complementari e convergenti: Paul Hawken, Moltitudine inarrestabile. Come è nato il più grande movimento al mondo e perché nessuno se ne è accorto, Milano, Edizioni Ambiente, 2009, orig. ingl. 2007; Bénédicte Manier, Un million de révolutions tranquilles. Travail/Argent/Habitat/Santé/Environnement...: Comment les citoyens changent le monde, Editions Les Liens qui Libèrent, 2012; Daniel Tarozzi, Io faccio così. Viaggio in camper alla scoperta dell'Italia che cambia, Milano, Chiarelettere, 2013. Sono stati, per me, sconcertanti e appassionanti. Hawken stima a circa 10 milioni le organizzazioni non profit del mondo; nell'Appendice del suo libro vengono menzionati circa un milione di gruppi impegnati "per l'ambiente, i diritti delle popolazioni indigene e la giustizia sociale": quasi tutti piccoli, anche piccolissimi, quasi tutti comunitari, ma connessi attraverso network sempre più estesi. Hawken li vede come una specie di sistema immunitario del mega-organismo pianeta-u-manità. I gruppi, recensiti nel sito Wiserearth, vengono classificati per aree d'interesse: una tassonomia forte di 43 categorie principali e 374 sottocategorie, immemorizzabile. Una giungla, che Manier e Tarozzi accrescono, aggiornano e complessificano ulteriormente. Penso che ogni cittadino responsabile dovrebbe riflettere su questa R innumerevole.

Io devo limitarmi a una minima serie di parole d'ordine: 1) essenzialità, sobrietà, frugalità, austerità; non troppo raramente unita a raffinatezza anche estetica del cibo, del vestire, nella linea dell'elegante autoconfezione; decrescita felice volontaria, no shopping; 2) in generale artigianato, autoproduzione; riscoperta dei saperi, dei sapori, esiliati dalla tecnica, dal sistema dei ruoli lavorativi e dal mercato; 3) economia solidale, imprenditoria sociale anziché commerciale, monete "complementari" o locali, riduzione del ricorso alla moneta, economia dello scambio e del dono, banche del tempo, lavorare meno-spendere meno-più tempo libero; svalutare il PIL, il business, demercificare la vita; 4) riduzione impronta ecologica, bici e piedi anziché auto, energie rinnovabili, case passive, bioedilizia, lavoro vicino, chilometro zero, riduzione sprechi, riduzione e riciclo rifiuti, "transition", ecovillaggi, autosufficienza energetica, tutela dell'acqua, beni comuni, riforestazione; consumo critico ecologicamente orientato; 5) comunità, partecipazione, democrazia della co-decisione, dell'incontro, de-gerarchizzazione, sovranità comunitaria sulle risorse agricole e ambientali locali; microcredito e intercredito comunitario; 6) amore per i piccoli centri, per la campagna, per la foresta, per la montagna, per la natura15; 7) curiosità, ammirazione, entusiasmo, tutela, rispetto per gli animali; abbandono della caccia, della pesca, vegetarianismo, veganismo, rifiuto della sperimentazione-vivisezione, critica dell'antropocentrismo nel rapporto con gli animali da affezione16; 8) modelli non conformisti, eversivi, eretici di sviluppo della persona: più arte, più creazione, più "pittura della domenica"; più libertà del corpo, più sensualità; demitizzazione delle religioni, declericalizzazione della società, ricerche di nuova spiritualità; sviluppo degli incontri, delle familiarità anche immediate, ugualitarie, apertura dei cuori, fioritura dei sorrisi, delle condivisioni; apostasie dal culto della competizione a oltranza per potere e profitto, per i beni "esclusivi"17. Bisogna evitare impressioni di irrealismo o di manicheismo: nessuno dei sostenitori degli interventi e degli stili di vita in senso lato resistenziali propone una sostituzione integrale del circuito tecnologico-industriale-macroeconomico-macropolitico criticato: la visione è piuttosto di una correzione, di una complementarità, di una riduzione all'umano, certo con netta preferenza per la componente alternativa. Esiste anche il potere che suscita, che fa essere, il contrario dell'impotenza, non solo il potere condizionatore.

 

1.8. Il metodo. Altre affermazioni di idee senza violenza

Quale metodo? Direi che tutte le forme resistenziali ad eccezione di quelle in 1.1 accettano esclusivamente metodi non violenti. Bisogna distinguere il non ricorso alla violenza dalla nonviolenza, dall'ahimsa "antica come le montagne" resa azione politica da Gandhi. Molti comportamenti funzionali al fare affermarsi un'idea (scrivere, parlare, dimostrare contro; opere d'arte, musica con (o anche senza) parole; fondazione di movimenti, di associazioni, di università, di scuole, di partiti; impegno politico istituzionale, legislazione; testimonianza personale, volontariato; finanziamento, mecenatismo) sono non violenti senza rientrare nella categoria specifica della nonviolenza. E possono dirsi resistenziali, mi sembra, quando intesi a "rendere forte la causa debole", a contrastare un'egemonia. Non c'è quindi "il" (l'unico) modo di fare R; e uno stesso tipo di comportamento può essere sia resistenziale che funzionale al potere; ma si può dire con buona approssimazione che i comportamenti resistenziali sono tipicamente non violenti. Un paragone che mi seduce è quello con l'acqua taoista, che giunge dappertutto senza contrapporsi a nulla; ricordo anche il latino gutta cavat lapidem, la goccia d'acqua, se persiste, può scavare la pietra.

 

2. Applicazioni alla resistenza estetica

 

Dovrei ora trarre da questo artigianale inventario di resistenze qualche applicazione alla R estetica (RE).

Con RE intenderò due cose: R in nome del bello, R per mezzo del bello. La RE in nome del bello (RE1) è R al brutto, al banale, all'uniforme, alle imposizioni estetiche e stilistiche di origine politica (p. es. fascista, nazista, sovietica), culturale (p. es. clericale, accademica, mediatica, editoriale), commerciale. La RE per mezzo del bello (RE2) è R a ogni disvalore in senso lato etico (cfr. 1.1, 1.2, 1.5) esercitata con mezzi estetici, con bravura estetica, sfruttando l'ascendente, il fascino del bello.

Mi limito a qualche esempio random, lasciando al lettore motivato indagini più complete. Seguo i paragrafi precedenti.

RE1: distruzione o lesione di ecomostri, assalto a sculture penose, sfregio di pitture (siamo nella violenza); obiezione di coscienza fiscale a spese pubbliche in materia di beni culturali; consumo critico di mostre, di spettacoli teatrali, cinematografici, televisivi; sciopero di artisti, dimissioni di responsabili culturali, ostruzionismo a direttive accademiche o di regime, affronto critico dei detentori del potere estetico (vedi 1.5), auto-esilio di artisti (vedi 1.6). Mi pronuncio, come già detto, contro i metodi violenti, contro il (sia pure esteticamente approvabile) vandalismo. È già RE non ascoltare, distogliere lo sguardo, omettere il commento.

RE2. Vedo due modi principali di esercitarla: a) rendere semplicemente presente bellezza, bravura, come antitesi dimostrativa al brutto, al banale, p. es. recitare versi inconfutabili ("O insensata cura de' mortali", "Dolce color d'orïental zaffiro'', "In ogni sostanza si tace / la luce e il silenzio risplende") come intervento sul discorso di un politico: il semplice risplendere del bello mi sembra più probante di qualunque critica, di qualunque contumelia; b) esprimere in modo esteticamente prestigioso un'idea resistenziale .

Nei libri da me citati in 1.7 ho trovato poca considerazione esplicita per la RE. Tuttavia in molti casi la preferenza etica per le iniziative resistenziali è percepibilmente accompagnata da un sentimento di loro maggiore bellezza: il mondo prefigurato dalla "moltitudine inarrestabile", dal "milione di rivoluzioni tranquille", dalla "Italia che cambia" è non solo approvato come più giusto, ma anche sentito/visto come più bello del mondo costituito dal Sistema egemone.

Faccio solo sfilare pochi cenni a comportamenti classificabili come RE2 reperiti nei miei autori. Cosi esclude un atteggiamento rivoluzionario o riformista di Thoreau. Cita, nel Walden: "Quanto al Fare-il-bene, questa è una professione che strabocca di professionisti... non fa per me". Secondo Cosi l'unica etichetta ideologica adeguata "potrebbe forse essere quella di 'anarchismo estetico"' (op. cit., 206). Hawken (op. cit., 197 s.) si diverte a ricordare i gruppi di teatro di strada che "fanno parodie, satire o prese in giro dell'oggetto della protesta", p. es. il Deconstructionist Institute for Surreal Topology, i culture jammer e il sito Billionaires for Bush, ridicolizzatori efficacissimi rispettivamente del Free Trade Agreement of America, delle pubblicità aziendali pro-shopping e del noto presidente pro-miliardari ("conosciamo un buon presidente solo quando ne compriamo uno"). Ancora Hawken (op. cit., 205) cita Carlo Petrini, secondo cui Slow Food è incentrato sul piacere, sulla delizia di un gusto, di un luogo e della convivialità, qualcosa che "ha più a che fare con l'arte che con la filantropia". A p. 267 parla di "attivismo artistico". Si troverebbero altri cenni alla R per mezzo della bellezza spigolando in Manier e Tarozzi. E può essere segnalato un libro resistenziale proprio sull'arte, un libro di resistenza, in nome dell'arte, al venditismo artistico: Maurizio Pallante (il fondatore del Movimento Decrescita Felice), Sono io che non capisco. Riflessioni sull'arte contemporanea di un obiettore alla crescita, Roma, Edizioni per la decrescita felice, 2014. Già l'ironia del titolo è una mini-opera d'arte. Ma il mio compito specifico è quello di resistenziologo generale, non di specialista della RE. Lascio quindi le spigolature, dicendo conclusivamente che la RE1 mi sembra oggi altamente necessaria, che sono lieto di partecipare alla comune intrapresa e che una forte RE2 non può che essere sentitamente auspicata.

 

3. La sanzione in estetica

 

Aggiungo, da filosofo del diritto e della giustizia, una riflessione un po' osée sulla R come sanzione e sulla sanzione in estetica.

La R è, a suo modo, una forma di sanzione: viene sancito con un giudizio esplicito o implicito, e "punito" con azioni antitetiche, il disvalore di ciò cui si resiste. Quindi la REl è una "punizione" del non bello. Vorrei, richiamando miei precedenti lavori18, paragonare la sanzione estetica alla sanzione penale riservata da "Dio" in cielo, e dallo Stato in terra, rispettivamente al "peccato" e al "reato" (etici).

Se il solo insuccesso etico è la volontà cattiva e dunque, nel caso del peccatore, il solo successo etico è la metànoia, la conversione, allora il significato propriamente etico della inflizione di afflizione, della pena, si desume dal significato della sofferenza in rapporto alla metanoia, alla conversione dell'intelligenza e del cuore. Vedo due ipotesi: sofferenza che propizia la metànoia; sofferenza che nasce dalla metànoia. La prima ipotesi concerne la funzione educativa della pena: qui la sofferenza inflitta è naturalistica, non etica, ma intesa a propiziare il risultato etico. Nella seconda ipotesi la sofferenza è propriamente etica: è il dolore, il pentimento, il rimorso per il male compiuto. Credo si possa mostrare che il valore propriamente etico della retribuzione afflittiva è nullo o modesto nel caso della sofferenza pro-conversione ed è meno basso e modesto, ma comunque non essenziale, nel caso della sofferenza da conversione. Anche l'autoinflizione di una pena espiatoria è eticamente facoltativa19.

Questi risultati trovano corroborazione in un esame storico e logico della retribuzione in estetica (e più generalmente in tutti gli ambiti di esperienza umana alta diversi dall'etica). Qui mancano, o sono del tutto secondarie, le retribuzioni premiali o penali estrinseche: riservate da tutti gli ordinamenti giuridici e da tutti i "Dio" conosciuti, e nello stesso modello orientale della retribuzione karmica, al comportamento valutato sotto l'aspetto etico. In nessuna cultura a me nota viene punito penalmente in senso proprio (con pena capitale, corporale, detentiva, pecuniaria, comunque "supererogatoriamente" afflittiva) l'autore di opere esteticamente riprovevoli. Nell'escatologia cristiana non sono previste pene infernali o purgatoriali per peccatori estetici; il sacramento della confessione non contempla autoaccuse ("Padre, ho pubblicato poesie bruttissime"), attrizioni, propositi di ravvedimento operoso, penitenze, per chi abbia "sbagliato" - magari anche "gravemente" - sul piano estetico. Anche l'espiazione e la satisfactio vicaria estetiche sono ignote alla teologia. Gesù non ha preso su di sé, "riscattandolo" col suo sacrificio, il peccato estetico del mondo, né quello "originale" né quello "attuale". Possiamo dire con fiducia: l'estetica fa a meno della sanzione penale.

Dobbiamo desumere, dall'inesistenza di un diritto penale umano e divino in campo estetico, l'indifferenza umana e divina alla bellezza in quanto tale? Per quanto riguarda gli umani risponderei con un deciso no. Mi limito a un esempio: il Rinascimento ha adorato il bello, ha avuto un diritto penale feroce e non ha sanzionato penalmente i comportamenti estetici riprovevoli. Questo mostra che la difesa penale di un valore non è necessaria (meno ancora è sufficiente) a testimoniare in modo probante l'intensità e la purezza dell'attaccamento a quel valore.

La lezione dell'estetica è più alta di quella dell'etica. L'estetica si è regolata come se avesse capito l'estrinsecità del punire, la sua volgarità come argomento, il suo costituire, anche quando "giusto" (ma quando, e in che misura, giusto?), la giustizia di più basso profilo. Forse l'estetica ha capito che il punire non è potenza, è impotenza, che il solo successo propriamente estetico è il progresso nella capacità di giudizio, la metànoia del gusto. Ha capito che il punire è un caso particolare della più ampia - e questa sì, necessaria - categoria del correggere, a sua volta caso particolare del far evolvere positivamente.

Allora non hanno luogo, in estetica, la prevenzione generale e speciale, la pena e il premio, l'afflizione e la gratificazione, la correzione che tende alla rieducazione del disapprovato? Non ha luogo, in estetica, la giusta retribuzione? Risposta: tutte queste cose hanno luogo, ma non nei modi del diritto penale e premiale etico. Che può molto imparare dal "diritto" estetico.

In questo "diritto" mi sembra centrale il commento critico, "irrogato" non da un ufficio punitivo dello Stato ma dalla fluida comunità dei fruitori esperti; comunità che risiede anche nell'interior homo dell'artista quale continuo fruitore, soddisfatto o insoddisfatto, della sua opera in fieri. Possiamo dire che è "pena" estetica l'eventuale dolore derivante dal vedere l'erroneità o immaturità del proprio sentire: dolore di autosmentita, al limite dolore di vergogna. Ma dolore facoltativo, non essenziale: l'alternativa, per chi non sia troppo attaccato all'ego, è la gioia di accedere a un giudizio emozionato più alto, la gioia della cultura.

Le applicazioni alla giustizia etica - retributiva, riparativa, conciliativa, comunitaria/partecipativa - mi sembrano utopiche nel senso buono, cioè utopiche necessarie.

 

1 "Lo avrai / camerata Kesselring / il monumento che pretendi da noi italiani / ma con che pietra si costruirà / a deciderlo tocca a noi. // Non coi sassi affumicati / dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio / non colla terra dei cimiteri / dove i nostri compagni giovinetti / riposano in serenità / non colla neve inviolata delle montagne / che per due inverni ti sfidarono / non colla primavera di queste valli / che ti videro fuggire // Ma soltanto col silenzio dei torturati / più duro d'ogni macigno / soltanto con la roccia di questo patto / giurato tra uomini liberi / che volontari si adunarono / per dignità e non per odio / decisi a riscattare / la vergogna e il terrore del mondo. // Su queste strade se vorrai tornare / ai nostri posti ci troverai / morti e vivi collo stesso impegno / popolo serrato intorno al monumento / che si chiama / ora e sempre / Resistenza". Mi limito a citare, nella bibliografia infinita, O. Baroncelli, Testimonianze della Resistenza toscana (1943-1945). Gli ultimi partigiani e resistenti raccontano la loro storia, Firenze, Libri Liberi, 2016.

2 Vedi oltre, n. 10.

3 Rimando, con emozione, al racconto di L. Guadagnucci, Era un giorno qualsiasi. Sant'Anna di Stazzema, la strage del '44 e la ricerca della verità. Una storia lunga tre generazioni, Milano, Terre di mezzo editore, 2016. Vedi anche E. Ongaro, Studiare un luogo: il carcere di Lodi. Apporti storiografici inediti: resistenza non violenta alla Prima guerra mondiale, in I giorni scontati. Appunti sul carcere, a cura di S. Buzzelli, Roma, Sandro Teti editore, 2012, p. 140 s.

4 Indispensabile la ricerca di G. Cosi, Saggio sulla disobbedienza civile. Storia e critica del dissenso in democrazia, Milano, Giuffrè, 1984. Vedi anche Id., Ordine e dissenso. La disobbedienza civile nella società liberale, in «Jus», 1-2 (1984), pp. 93-155. In La mia lotta per i diritti animali (Torino, Cosmopolis, 2005), Tom Regan intitola il capitolo 12 "Disobbedienza civile".

5 Cfr. A. Capitini, Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, a cura di M. Martini, Pisa, ETS, 2004; A. Capitini, Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Martini, Perugia, Fondazione Capitini, 1998.

6 Cfr. B. Montanari, Obiezione di coscienza. Un'analisi dei suoi fondamenti etici e politici, Milano, Giuffrè, 1976; L. Lombardi Vallauri, L'obiezione di coscienza legale alla sperimentazione animale, ex-vivisezione (L. 12 ottobre 1993, n. 413), in La questione animale, a cura di S. Castignone, L. Lombardi Vallauri, in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà e P. Zatti, Milano, Giuffrè, 2012, pp. 507-520; ora anche in Scritti animali, di prossima pubblicazione presso Gesualdo Edizioni, Gesualdo 2018.

7 In Etica e finanza. Relazione alla Conferenza mondiale banche e assicurazioni, Ginevra 1996 (in «FIBA - Notizie quadri», 1, pp. 1-19), ho invitato i sindacati a "considerare l'ipotesi di una giornata di sciopero mondiale degli impiegati, tecnici e quadri del settore Banca e Assicurazione per rivendicare i loro diritti etici, cioè il loro diritto a lavorare in aziende realmente pensose dell'etica".

8 Chi voglia comprendere le ragioni della renitenza alla leva è invitato a leggere le pagine relative alla guerra dei poveri nei libri preziosi di Maria Tarditi, la grande scrittrice delle Langhe, per esempio in La vita non è uno scherzo, Araba Fenice, Boves 2012, o L’ultimo della fila, Araba Fenice, Boves 2012.

9 Vedi L. Maffei, Elogio della ribellione, Bologna, Il Mulino, 2016.

10 Su la mediazione e la giustizia riparativa vedi Aa.Vv., Giustizia riparativa. Ricostruire i legami, ricostruire persone, a cura di G. Mannozzi e G. A. Lodigiani, Bologna, Il Mulino, 2015; e soprattutto Il libro dell'incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, a cura di G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato, Milano, il Saggiatore, 2015.

11 Nera luce. Saggio su cattolicesimo e apofatismo, Firenze, Le Lettere, 2001; Meditare in Occidente. Corso di mistica laica, Firenze, Le Lettere, 2015; Abitare pleromaticamente la Terra, in AaVv., Il meritevole di tutela. Studi per una ricerca coordinata da Luigi Lombardi Vallauri, Milano, Giuffrè, 1990; Mistica laica, economia pleromatica. Un manifesto, in «Pègaso», 194 (2016), pp. 14 16. Uno sviluppo creativo di queste idee si trova ora nell'importante volume di T. Franza, Costituzionalizzare la Costituzione. Una prospettiva pleromatica, Firenze, Firenze University Press, di prossima pubblicazione.

12 Cfr. J. Zerzan, Senza via di scampo? Riflessioni sulla fine del mondo, Roma, Arcana/Vivalibri, 2007.

13 Cfr. L. Lombardi Vallauri, Voti religiosi e percezione del tempo, 1975, ora in Terre. Terra del Nulla, Terra degli uomini, Terra dell'Oltre, Milano, Vita e Pensiero, 1989, pp. 425-447.

14 Rinvio a due raccolte incomplete, ma comunque cruciali: T. Nyong Heruka, I centomila canti di Milarepa, Roma, Ed. "Rassegna culturale J.M.", 1989, e I centomila canti di Milarepa I, Milano, Adelphi, 2002. Vedi anche Garma C.C. Chang (a cura di), The Hundred Thousand Songs of Milarepa, Boston and London, Shambhala, 1999; C. Gianotti (a cura di), La vita di Milarepa, di gTsang smyon Heruka, Torino, Utet, 2011; J. Bacot (a cura di), Vita di Milarepa. I suoi delitti, le sue prove, la sua liberazione, III edizione, Milano, Adelphi, 1994.

15 Tra tutti: T. D'Errico, A. Battistoni, Al ritmo delle stagioni. Un anno di vita in montagna, edizione in proprio, 2017, sull'esperienza di vita contadina in alta Valle Maira di due giovani, provvedutissimi high-tech urbani. Vedi anche I. Borgna, Profondo verde. Un'etica per l'ambiente tra decrescita e deep ecology, Milano-Udine, Mimesis, 2010.

16 Vedi La questione animale e Scritti animali citati alla nota 6.

17 L. Lombardi Vallauri, Il primato dei beni non esclusivi come chiave dello sviluppo umano pleromatico, in Fifty Years after H.G. Gadamer's Truth and Method, «The Dialogue. Yearbook of Philosophical Hermeneutics», 5(2012), pp. 279-289. Cfr. M. Pallante, Meno è meglio, Milano, Bruno Mondadori, 2011.

18 Estetica e retribuzione (Ästhetik und Vergeltung), in «Critica del diritto» 3 (2014), pp. 512-524; Dimensionamenti della retribuzione, in AaVv., Giustizia riparativa, citato alla n. 10, pp. 45-55. Il testo che segue è una riproduzione, con qualche ritocco, del § 5 dell'ultimo contributo.

19 Si tratta di un punto cruciale per la critica della giustizia retributiva divina e umana. Viene svolto con adeguata argomentazione in Nera luce, citato alla n. 11, e in Estetica e retribuzione, citato alla n. 18.

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