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Autore

Luigi Lombardi Vallauri

I 5 LIBRI DELLA MIA VITA

Letteratura e filosofia come ispirazioni dell'atto politico-giuridico

 

in "Il contributo di Law and Humanities nella formazione del giurista”, Atti del Quarto Convegno Nazionale, Benevento 31/5-1/6/2012, a cura di F. Casucci e M.P. Mittica.

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Inviato il 24/11/2020




                        Mi inchino a voi, gioielli della mente spirituale

                    che risplendete nel fiore di loto del corpo cosmico

 

Ognuno di noi è meraviglia cosmica. Inchiniamoci a quel prodigio della carne complessa che sono i nostri cervelli, questi piccoli cavolfiori intrisi di sangue che producono pensiero cosciente, e realizziamo l'eterogeneità tra la carne intrisa di sangue e il pensiero: da cosa dipende, come avviene, che il cervello produce pensiero e il fegato no, nessuno Io sa, nemmeno i cervelli neuroscienziati.La mia relazione sarà divisa in due parti: la prima, uno schema dell'atto politico-giuridico con i contributi che la letteratura può dare alle varie fasi di questo atto; la seconda, i cinque libri rivelazione della mia vita, cosa ci possono dire sul diritto.

 

 

Prima parte. L'atto politico-giuridico

 

Lo schema della scienza giuridica, o se preferite dell'atto politico-giuridico, è il seguente (ho in mente il giurista orientato alla decisione di un caso, quindi il giudice e chi prepara le decisioni del giudice).

 

Questo atto ha tre componenti o fasi successive:
1. riconoscimento del diritto vigente;
2. interpretazione;
3. scelte tra risultati possibili/ plausibili dell'interpretazione.

 

 

Riconoscimento del diritto vigente

 

Abbiamo due teorie: quella della validità formale e quella della effettività. lo aderisco alla teoria della validità formale, cioè del rispetto della legge, ma intendendo la validità formale, realisticamente, come presunzione di effettività (presunzione smentibile dalla sociologia del diritto). E considero l'effettività soprattutto in senso dinamico: aderisco cioè alla teoria dell'effettività come sufficiente probabilità della norma di essere osservata nel prossimo futuro.

Notiamo che già in questa fase, della diagnosi "che cos'è storico-positivamente vigente", a seconda delle diverse teorie — e anche all'interno di una stessa teoria — si può giungere a risultati diversi.

 

 

Interpretazione.

 

La fase che apre a più risultati è ovviamente la seconda, quella dell'interpretazione, che a sua volta comprende almeno due successive operazioni:

  1. comprensione letterale o letteraria del testo;

  2. prospettazione delle possibili soluzioni del caso in base al testo.

La prima è un'operazione semantica come quella che compie il filologo. La seconda è un'operazione giuridica fondata sulla previa comprensione semantica. Entrambe le operazioni interpretative pervengono necessariamente a una pluralità di risultati possibili o plausibili, in quanto la norma giuridica è affetta da ambiguità semantica (che cosa vuoi dire "buona fede"?), ma anche da vaghezza casistica (è richiesto o no dalla "buona fede" segnalare al compratore la presenza, nella villa, del fantasma del vecchio capitano?)

Riassumendo: sia la fase del riconoscimento del diritto vigente, sia quella della sua doppia interpretazione mettono il giurista di fronte a un ventaglio spesso molto ampio di soluzioni possibili. li diritto positivo è un ventaglio di soluzioni possibili!

 

 

Scelta tra risultati possibili

 

A questo punto inizia la terza fase dell'atto politico-giuridico: la fase della scelta. Scelta obbligata, almeno per il giudice, a causa dell'intervento del grande scorrettore, del grande falsificatore: il divieto del non liquet. Al giudice è vietato dire "non mi è chiaro", "non so"; deve —incredibile! — decidere sempre come se sapesse, mentre i veri scienziati devono poter coltivare l'ars nesciendi, l'arte del non sapere, del vedere chiaramente che qualcosa non è chiaro. E dunque il giudice — e il giurista che prepara la decisione del giudice — deve scegliere nel ventaglio. Sceglie in base al diritto libero.

 

Sappiamo che il diritto storico reale è costituito da due co-principi: il diritto positivo e il diritto libero. Il diritto libero è l'insieme dei criteri metapositivi di scelta già modellati in senso giuridico.

 

E adesso vediamo quali sono gli apporti della letteratura.

 

Veniamo alla fase del riconoscimento, la prima.

Cosa può dire un letterato al giurista? lo credo che lo incoraggerà nella direzione del realismo giuridico, dell'effettività. Sappiamo tutti che la lingua è un sistema normativo effettivo. Anche se non c'è un legislatore, un parlamento linguistico che decide a maggioranza la coniugazione dei verbi, la norma linguistica funziona lo stesso. I grammatici formulano le leggi, ma poi l'uso è sovrano. Dire che l'uso è sovrano vuol dire che nel sistema normativo la lingua prevale l'effettività. Allora è probabile che in questa fase il letterato, che sarà un linguista o un grammatico, per il riconoscimento del diritto vigente suggerirà di basarsi sull'effettività.

 

 

Nella seconda fase abbiamo distinto l'interpretazione in semantica e casistica.

Per quanto riguarda quella semantica, il giurista avrà bisogno di conoscere non solo la lingua, ma anche la letteratura. I testi giuridici hanno autori e stili diversi, provengono da epoche diverse, sono stati formulati in contesti culturali e in base a occasioni storiche diverse; la filologia giuridica non potrà dunque accontentarsi dei dizionari e delle grammatiche. Sarà molto opportuno che il giurista abbia una cultura storico-letteraria, e il letterato in lui o accanto a lui sarà questa volta il letterato lettore: il "raffinato lettore".

Quindi abbiamo già due figure: il linguista/grammatico e il raffinato lettore.

Per quanto riguarda l'interpretazione casistica, qui il letterato con discrezione si ritira sullo sfondo. Spetta proprio al giurista dire cosa può appartenere alla "buona fede" e cosa no.

 

 

Terza fase, giuridica decisionale. Ora dobbiamo distinguere tra la filosofia per il diritto e la filosofia del diritto.

Quella per il diritto prepara la scelta politicamente migliore dentro il famoso ventaglio. Quella del diritto prende a oggetto proprio il diritto come diritto, dice ad esempio che differenza c'è tra relazione giuridica e amicizia.

Qui ci occupiamo di filosofia per il diritto, quindi dei criteri per scegliere la soluzione migliore. Il letterato ora incarna, ovviamente a modo suo, due personaggi: il filosofo per i giudizi di valore, il sociologo e lo psicologo per i giudizi di fatto. Informa e ispira il politico del diritto, essendo la politica appunto un applicare di valori a fatti.

La letteratura come può intervenire?

La grande letteratura creativa, formidabile esperto di vita e di umanità, può attendibilmente e potentemente ispirare sia gli uni — i giudizi di valore — che gli altri — i giudizi di fatto. Può fornire al giurista intuizioni etiche ed esistenziali profonde, e può farlo in modo suo proprio: avvincente, evocativo, suscitatore di emozioni razionali nobilitate, accese, rese più trascinanti dal fascino della bravura artistica e della poesia, e insieme alla sociologia e alla psicologia sul piano dei fatti può fornire al giurista — lei, la ininventariabile per eccellenza, la suprema versatile — un incontro diretto con tutto il reale e il possibile umano, intensificato dal valore aggiuntò della bravura e della bellezza, che non sempre qualifica i testi giuridici.

 

Riassumendo: Nelle tre fasi distinguibili e inscindibili dell'atto politico-giuridico, si profilano altrettanto diverse figure di letterati e cioè: il linguista e grammatico; il raffinato lettore; il grande scrittore, il conoscitore della vita come valori e come fatti.

Il giurista farà bene a consultare se non tutti e tre, almeno qualcuno di essi.

 

 

Seconda parte. I cinque libri

 

E i cinque libri della vita? Erano la parte più sexy del titolo!

L'uso che penso di farne è diverso da quello visto finora, della letteratura come ausiliare dell'atto politico-giuridico. Passo dalla filosofia per il diritto alla filosofia del diritto.

Ho pensato a un'operazione un po' maliziosa: servirmi dei cinque libri come reagenti per mostrare i limiti del nostro amico, il diritto, per relativizzarlo, per dire quello che loro sono e che lui non è, quindi per evidenziare, attraverso il contrasto, la sua chiaroscurale mediocrità.

I cinque libri non sono cinque libri-opera ma cinque libri-tipo.

E sono:

il libro dell'Avventura, quello della Fede, quello della Letteratura, quello della Conoscenza e quello Sapienziale.

 

Da questi libri-tipo mi preme distillare essenze.

 

Prendiamo l'avventura: Sandokan, il Corsaro Nero, o gli eroi di Verne, tipo il Capitano Nemo. Cosa veicolano come essenza? L'eroismo — l'eroe vittorioso. L'esotismo — l'amore di terre lontane.

 

Il libro della fede veicola cose come la vocazione, la santità, il martirio; l'idea che ci sia un significato ultimo, una salvezza ultima della vita e dell'essere; la mistica; il sublime morale assoluto.

 

Il libro della letteratura. Qui non mi dilungo. È la fantasia sfrenata e al tempo stesso controllata. à la vita che si fa parola. È una specie di vittoria sulla morte come direbbe Proust, perché le cose che precipiterebbero nel tempo vengono salvate dalla parola... Qui siamo in un ambiente dove tutti sanno cos'è la letteratura, la bellezza, ecc.

 

La conoscenza, la scienza. La scienza non è solo premessa della tecnologia come dominio della materia e come lucro, è anche formidabile balcone sull'infinito, la più grande ricchezza contemplativa dell'umanità contemporanea; con il pregio supplementare dell'attendibilità, cosa non banale, perché si possono contemplare, cioè realizzare intensivamente, entità non reali.

Poi c'è il libro sapienziale, che per me è diviso in filosofia greca (o comunque occidentale) e orientale. Anche sulla filosofia greca non mi dilungo: l'ontologia, il logos, il nomos, l'assiologia, l'etica, il confronto della metafisica col riduzionismo e altro. Invece per me la caratteristica della filosofia orientale è che punta a una trasformazione spirituale o psicospirituale: non è semplicemente sistema.

 

Non mi è neanche passato per la testa di citare il libro giuridico. Perché?

Perché il libro giuridico non lo si legge: viene o studiato o consultato. Pretendere che qualcuno legga un libro giuridico è un'ambizione smodata.

L'homo juridicus non è nessuno dei cinque uomini dei cinque libri. Per esempio come interprete del diritto positivo in vista della sua applicazione, cioè come giurista o come cliente del giurista, l'homo juridicus non è uomo di avventura, non è eroe vittorioso che fa sognare i bambini, non è uomo dell'amore di terre lontane. Molti dicono che un processo è un'avventura. Sì, ma non lo è sul piano delle grandi avventure! Lo è perché non si sa come va a finire.

 

Confrontando l'homo juridicus all'uomo credente, mi accorgo che la sua esperienza non è né vocazione alla santità eroica, né rapimento mistico, né fiducia nella salvezza finale della vita e dell'essere, né spiraglio su un sublime divino. Il giurista è un difensore di interessi ufficialmente approvati e il suo cliente è un uomo sollecito dei propri interessi, che chiama spesso sacrosanti ma che altrettanto spesso sono semplicemente economico-utilitaristici (qualche volta, bisogna aggiungerlo, sono davvero sacri).

Confrontando il testo giuridico al libro della letteratura, il testo giuridico non risplende per sfrenata versatile fantasia, ricchezza ininventariabile di prospettive sulla vita o sul mondo, incanti di bravura poesia bellezza. Lo stesso vale confrontando il testo giuridico alle opere di humanities non letterarie come le arti figurative e la musica.

 

Confrontiamo ora diritto e scienza. In trentatré anni di vita del mio gruppo di meditazione, almeno all'inizio composto soprattutto di studenti e laureati in Legge, e il cui profilo più originario e originale è proprio la contemplazione "aleph" fondata sulla scienza, non mi è mai venuto in mente, non ci è mai venuto in mente, di fare un anno di contemplazione sul diritto.

 

Prendiamo il libro della sapienza. Vi lascio in compagnia dell'esercizio di scoprire perché il diritto non è particolarmente sapienziale; ma sostengo il vostro esercizio con qualche citazione.

- Platone: "tra uomini nobili sarebbe vergognoso anzi impossibile che ci fossero processi"

- Aristotele: "non c'è diritto nella città degli uomini-dio, cioè dei sapienti, e non c'è nemmeno tra gli uomini-bestie, i ciclopi. C'è diritto tra gli uomini-uomini. Cioè tra gli uomini medi o mediocri"

- Ancora Aristotele: "solo i sapienti possono essere amici, e tra amici non c'è giustizia, o meglio c'è tutta la giustizia, ma perde la forma della giustizia"

- Nel corpus paolino del Nuovo Testamento, in riferimento alle comunità protocristiane di agape c'è un passo che non ritrovo dove si dice più o meno: "Ma come! non vi vergognate! apprendo che ci sono processi. tra voi!!'. Tra due cristiani ci sono processi! Stiamo aspettando la venuta del Figlio dell'Uomo entro questa generazione, siamo già nel Regno di Dio e voi vi interprocessate! Nella comunione dei santi ovviamente il diritto non c'è.

- In Cina: "A noi il buonsenso e l'etica, ai barbari il diritto"

- Ma lo sguardo più ironico che conosco sul diritto sta nel libro di Rebecca Redood French The Golden Yoke. The Legal Cosmology of Buddhist Tibet: chi ricorreva a un processo e vinceva, doveva poi purificarsi per trenta giorni.

lo stesso ho inventato l'uomo-aleph; che compendia in sé, come dice Borges, tutto l'universo: l'uomo non ego- ma cosmocentrico. Io penso che la frequentazione contemplativa assidua del materialmente sovrumano dischiuso dalla grande scienza può generare uomini-aleph spontaneamente gentiluomini per inevitabile superamento delle autoasserzioni tipiche dell'homo juridicus: ho in mente padroni di casa in tensione con gli inquilini per ridurre loro l'affitto e inquilini irremovibili nell'esigerne l'aumento.

 

Tra i sapienti, tra i santi, tra gli amici, tra gentiluomini, il diritto si realizza così perfettamente che sparisce.

 

Concludo, citando dalla mia voce "Diritto" nell' Enciclopedia Filosofica:

L'esperienza giuridica non è in nessuna direzione il culmine dell'esperienza umana. La superano, ciascuna nel proprio ordine, tutte le cose che abbiamo menzionato. In particolare per quello che riguarda la relazione umana, il diritto non è che socievole insocievolezza (Kant); è superamento, ma anche espressione e legittimazione, della diffidenza, del conflitto, della violenza, dell'avidità, della separatezza, dell'egoismo. Vi attinge il soggetto non autenticamente in quanto persona, ma organizzativo-normativamente in quanto portatore di ruoli. La pienezza/il fiore della giustizia giuridica non è la pienezza/il fiore dell'umano. La pace giuridica non è l'ultimo - l'intimo - della pace.

 

Il diritto non è la vita, è la casa della vita. Non è la danza, è il principio sul quale, più è solido, meglio può slanciarsi la danza della creazione della vita.

 

 

 

 

 

 www.lawandliterature.org/index.php?channe1=PAPERS

 

ISLL - ITALIAN SOCIETY FOR LAW AND LITERATURE

 

 

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