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Autore

Scipione Semeraro

FREINET

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Inviato il 1/06/2019




 

E’ l’anno 1920, il massacro della guerra è finito. Freinet, invalido, gravemente ammalato…    di polmoni, è maestro in una scuola del Sud della Francia. La sua storia di vittoria sull’invalidità nel comunicare agevolmente ad una classe di bambini è una metafora per noi, generazione di insegnanti che sente l’insuccesso del suo lavoro, i disagi oggettivi delle classi numerose, dei mezzi comunicativi arretrati e poveri, ma soprattutto la differenza culturale e antropologica tra noi e i ragazzi, maturata nell’era dei media, aggravata da una forma nuova e subdola di analfabetismo. Informazioni copiose, esposizione al rumore di fondo della comunicazione sociale generano una caduta del senso critico e del pensiero riflessivo. Ma l’idea di Freinet di trovare una soluzione alla sua crisi di insegnante nella cooperazione e nel superamento della separatezza tra scuola e vita sociale è per noi più che una metafora: è un indicazione concreta e uno spunto di riflessione critica sul nostro lavoro di oggi.

Il nostro tempo è attraversato da forti ideologismi: il più forte vuole più mercato e meno intervento pubblico nell’istruzione. Si metta in concorrenza le scuole, pubbliche e private e le pubbliche tra di loro per reggere l’impatto con l’insuccesso formativo crescente.

La vera novità del pensiero della destra  e dei moderati italiani è in questo sentire forte la libertà come distruzione della statalità sociale. L’impresa spera così di ritrovare un campo nuovo per esercitare una difficile e mai data egemonia nella società italiana. La destra autoritaria, per vocazione statalista, ha bisogno di ritrovare nello Stato-nazione, piuttosto che nello Stato dei diritti,  le ragioni di una nuova identità forte. Il mondo cattolico vede oggi esaurita la possibilità di usare lo Stato per riprodurre il suo modello fondamentale di comunità: la famiglia e i suoi valori. Sembra lacerarsi lo stesso compromesso tra laicità e confessionalismo che era alla base del patto costituzionale.

Esiste allora un progetto di rivalutazione del ruolo pubblico nella formazione e soprattutto è possibile combattere l’ideologia del mercato, dell’impresa e della competizione come riferimenti per la scuola e trovare nella pratica cooperativa un principio positivo e moderno di efficienza? E’ possibile poi, riflettendo anche sulla metafora della tipografia a scuola come tecnica della cooperazione didattica, rintracciare nella tecnologia comunicativa di oggi una suggestione di pari valore?

Esiste oggi un lavoro scolastico che vada in questo senso? In genere dobbiamo rispondere negativamente; prevalgono gli aspetti ripetitivi sulla creatività e l’invenzione. Ma una traccia per ricostruire il tessuto di una ricerca esiste. La cooperazione educativa appartiene a pieno diritto alla riflessione della pedagogia democratica europea e italiana. Pone con equilibrio la necessità di percorsi personali, individualizzati e creativi nell’insegnamento. La cooperazione si pone come interazione, quasi necessariamente conflittuale e pluralistica tra lavori l’uno all’altro trasparenti, nei percorsi e nei fini.

Cooperare e cooperazione sono termini che richiamano solidarietà ottocentesche. Recuperarne il senso in un contesto moderno, legato alla definizione di nuove metodologie per la gestione del lavoro intellettuale costituisce un’operazione culturale ardita.

Ripensare la scuola e gli insegnanti significa prendere atto che quello che si pensa è in crisi. Malato negli strumenti comunicativi, l’insegnamento ha perso senso anche riguardo alle finalità e quindi rischia di essere un’attività  socialmente trascurata.

L’insieme dei legami giuridico-formali che determina questo lavoro è il suo aspetto più visibile.

L’educazione è un terreno minato di conflitto; la regolamentazione della sua sostanziale tendenza all’anomia ha sempre trovato nelle regole procedurali un efficace regolatore. Questa realtà, se è spesso vissuta come un ceppo alla creatività, pure rappresenta un elemento di rassicurazione reale per gli insegnanti, per gli studenti e le famiglie. Le procedure, vissute come limite a un’autonomia professionale praticamente illimitata, finiscono per rappresentare, agli stessi occhi degli insegnanti, la migliore autorappresentazione. Il riconoscersi in uno stato giuridico che danno ritmi e spesso determinano gli stessi contenuti del lavoro, costituisce l’elemento di maggiore rassicurazione del ruolo. L’iniziativa politica e quella sindacale hanno sempre rinforzato questa dimensione, rimanendo spesso al di qua di ogni discorso di contenuto e di finalità.  Anche la stessa dimensione collettiva nel lavoro degli insegnanti porta il segno di questa metafora giuridica. Si potrebbe dire che l’insegnamento concreto è in qualche misura la risultante passiva di questo reticolo di norme, ma anche l’abilità a saper trovare le nicchie per un lavoro meno burocratico e creativo.

La metafora più suggestiva che viene proposta contro il lavoro burocratico è quella della professionalità libera e autonoma. E’ questa una caratteristica antitetica alla precedente: eppure la più adatta, se si considera attentamente, a convivere in una rete di vincoli giuridici.

Tutto ciò non elimina né il conflitto né l’insuccesso.

In una scuola della cooperazione bisogna partire dall’ipotesi concettuale e pratica che non si può eliminare il conflitto; il conflitto deve essere considerato un elemento dinamico e produttivo. Come può essere controllato e razionalizzato? Solo aumentando le informazioni circolanti nella rete, aumentando la partecipazione dei soggetti e chiarificando i valori e le convenienze. Ecco il ruolo da affidare alle tecnologie moderne comunicative.

Lavorare cooperando significa accettare questa processualità. Per risolvere il conflitto bisogna sviluppare patti; quando i patti entrano in crisi bisogna rinnovare i confronti tra i soggetti.  Un processo aperto al conflitto diventa una base di esperienza per le soluzioni successive. Qui Freinet ci ricorda che la separazione artefatta tra l’imparare e il vivere blocca l’apprendimento e annulla i risultati. Qui si conserva la natura di classe della formazione.

Ugualmente sottovalutato è il ruolo della struttura organizzativa. Allora bisogna obiettivizzarla in strutture materiali, tempi e spazi organizzati di lavoro, orari e laboratori.

Deve essere possibile anche la conoscenza di indicatori che interpretino la realtà: la conoscenza della classe e degli studenti, una memoria organizzata che si sedimenta nel tempo, a disposizione di chi opera nella scuola, mettendo sotto controllo anche l’ambiente, capace di descrivere l’andamento dei fenomeni. Attualmente i trend vengono conosciuti quando i fenomeni sono già cambiati e la conoscenza è perciò obsoleta. La presa diretta del fenomeno è essenziale. Bisogna saper costruire un quadro di controllo del processo educativo. Se ogni volta che si vuol prendere una decisione si dispone di un segnalatore di rottura dell’equilibrio  su cui si interviene, il beneficio per le decisioni è evidente. Nel caso della scuola gli indicatori non sono facilmente standardizzabili, perché nella loro definizione entrano componenti di giudizio e di valore.

Questa metodologia è l’anima stessa della cooperazione, la trasparenza è la sua componente essenziale; comporta un forte decentramento delle responsabilità, riduce il ruolo gerarchico. Il tutto funziona se c’è questa assunzione reciproca di impegni responsabili.

Gli elementi ambientali diventano contenuto e sostegno della cooperazione. Un aspetto assai sottovalutato è che la stessa organizzazione scolastica è fortemente comunicante valori: l’organizzazione oraria del lavoro, lo stile e ritmo, le consuetudini materiali sono elementi determinanti per agire in cooperazione.

Un comportamento cooperante abbatte l’insuccesso scolastico dei ragazzi; l’assenza di comunicazione aumenta il fallimento. Ascoltare è difficile: ma è una metodologia interessante. Nella scuola bisognerebbe prevedere dei momenti istituzionalizzati dell’ascolto, un meccanismo in cui si esplicitano i contenuti del conflitto, i meccanismi di crisi: bisogna attivare momenti di autodiagnosi. La cooperazione educativa pone con equilibrio la necessità di percorsi personali, individualizzati e creativi nell’insegnamento e gli obiettivi di eguaglianza: un’idea positiva di autogoverno delle scuole.

Freinet, segnato dall’esperienza della guerra, di fronte al rischio dell’insuccesso educativo, rilesse la natura classista della scuola, la rilesse dal punto di vista del marxismo dell’alienazione. La scuola, se si separa dalla vita, se la didattica diventa solo metodo, se non ritrova una simmetria tra modo di essere della società e progetto di emancipazione delle classi più deboli, muore. Se la scuola non fa i conti con lo sviluppo più alto delle tecniche comunicative del suo tempo, se non ritrova l’idea che lo sviluppo della conoscenza infantile e giovanile dipende dalle forme che il linguaggio prende nel modellarsi nel sistema globale della comunicazione umana, deperisce e diventa marginale.

Il “secolo breve” di Freinet è al termine. Non è male, in questi tempi, quando il nuovo invecchia presto per il difetto dell’esame della memoria, ricordare questo lettore di Marx e della pedagogia innovativa del suo tempo, come un’utile suggestione per il nostro tempo e per la nostra scuola.

 

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