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Autore

Scipione Semeraro

POLITICA E SAPERI

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Inviato il 1/06/2019




 

Siamo ad un punto delicato di passaggio tra un paradigma a noi noto di uso delle conoscenze…   al fine dell’attività politica che riceviamo dall’eredità  delle esperienze della sinistra e specificamente delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio e straordinarie riorganizzazioni dei saperi.La politica è stata sempre considerata come il luogo in cui il testimone dell’eredità culturale potesse essere disponibile per il presente e il futuro. In senso appropriato la politica è stata pedagogia, consapevolezza di un senso del mondo e della realtà sociale, che indagato criticamente, doveva essere in qualche modo “insegnato “per l’azione futura.

Nelle esperienze migliori del MO ci si è salvati da una pedagogia dell’ortodossia, si è utilizzata l’inchiesta, il ragionamento teorico e critico sull’esistente, per conservare all’azione politica la sua dinamicità.Certo anche le ortodossie, i punti di vista mutuati dai saperi sociali prevalenti hanno “infettato” queste procedure pedagogiche, spesso mortificando la formazione politica in una pura riproduzione del senso comune.La politica come pedagogia ha anche sofferto della struttura stessa dei saperi che la modernizzazione capitalistica aveva prodotto storicamente, saperi enciclopedici, separati, frammentati, aree della conoscenza determinati dall’oggetto del sapere. Questo universo di specialismi ha determinato una sostanziale incontrollabilità sociale delle consocenze e nella rivendicazione della loro neutralità hanno stabilito un rapporto strumentale e ancillare con la politica.Lo scienziato e il suo sapere sono diventati consiglieri per il Principe e nello stesso tempo strumenti ideologici del  suo dominio.Anche le organizzazioni del MO hanno usato questo legame di riconoscimento dello specialimo separato e complice, anzi scienza e politica si sono usati reciprocamente e cinicamente  dichiarandosi indipendenti.

Le stesse conoscenze del MO hanno subito la distorsione dovuta a questo rapporto viziato; alcune scienze sono diventate regine della politica, in primis l’economia e la sociologia, perché più immediatamente funzionali all’azione concreta della politica.Questo processo ha impoverito la politica della sua capacità complessiva di essere il luogo di riacquisizione del senso globale della vita. La politica si è confusa con la tecnica dell’acquisizione del potere.Questo è un primo punto che può interessarci nell’impostazione del nostro lavoro culturale. Accettare una dimensione pluriversa della ricerca e degli specialismi. Quindi rinforzare lì dove la storia ci consegna le maggiori insufficienze: penso alla conoscenza scientifica in primis, nella sua nuova dimensione di sapere biotecnologico e organicistico, penso alla riscoperta dell’antropologia come mutamento del paradigma tra soggetto e oggetto culturale, l’antropologia ha bisogno di mettersi dal punto di vista dell’altro per comprederne il senso. Perciò l’antropologia è un’utile antipedagogia. Un tema che l’antropologia può risolverci è una ricomprensione critica dell’analisi classista  alla luce ad esempio di categorie più profonde come il patriarcato, che non a caso furono indagate dal primo formarsi del pensiero critico marxista, perché avvertite come unico strumento perché la critica del capitalismo non si trasformasse in una filosofia della storia. Intendo la sensibilità verso un’antropologia filosofica come una dichiarazione di centralità del duplice dell’esperienza umana, maschile e femminile, come trama per riconsiderare criticamente i saperi e lo stesso profilo composito della “civiltà occidentale”Nel linguaggio più corrente voglio alludere con queste riflessioni ad una maggiore attenzione verso i saperi che attengono all’ambiente, dell’ecos e del bios e per altro verso al punto di vista di genere per ridare una pluriversità di senso alle conoscenze.Penso in questo senso che non sarebbe fuori luogo ritrovare al sapere politico un suo valore filosofico, una pratica concreta di affidamento di senso alla realtà. Questo per quanto riguarda il contenuto.

Come organizzarsi? Una scelta antipedagogica dei luoghi della politica non è una resa alla pervasività pedagogica, di senso e di non-senso, della società in cui viviamo. Non è neppure un’opzione per un sapere ecclettico e un attegiamento relativistico. Non è insomma un’opzione per un pensiero “debole”

La politica anzi può essere lo spazio opportuno per ricostruire l’autonomia del sapere come ricerca cooperativa di senso. Quest’idea si rafforza se si considera che le grandi istituzioni moderne deputate alla formazione vivono di una crisi particolare, esse non sono solo inadatte a produrre sapere critico, in questo la politica diventa spazio essenziale, ma modificano la loro destinazione d’uso, la scuola e l’università contribuiscono attivamente all’estendersi di un moderno analfabetismo, frutto più che di povertà informativa, di eccedenza; più informazione senza conoscenza, dilatazione dei mondi simbolici senza grammatiche e sintassi perché quei linguaggi siano utilizzabili.Può sembrare un paradosso, ma l’incultura è impastata da eccedenze di “offerte” di conoscenze e l’irrilevanza del sapere ai fini della liberazione umana produce un rumore di fondo che impoverisce la possibilità di conoscere il presente e progettare un futuro diverso dall’esistente.Lo spazio politico cooperativo per pratiche di saperi e ricerche critiche segna un possibile antidoto all’organizzazione del non-sapere del senso comune che ci avvolge. Uno spazio antipedagogico in cui la molteplicità dei punti di vista non viene vissuta come un limite, ma come un modo diverso di praticare la “rivoluzione”. Non abbiamo bisogno di una Universitas ma di una Pluriversità, luogo di cooperazione formativa in cui la politica non ha nulla da insegnare, ma molto da sapere della realtà e dei bisogni di liberazione. Concretamente bisognerebbe considerare che se politica deve essere esenzialmente un luogo di progettazione condivisa del futuro che attraverso l’esperienza democratica risolve il problema dei bisogni in acquisizione di potere, allora ogni momento della politica dovrebbe arricchirsi di elementi di sapere critico e consapevole. L’azione politica dovrebbe tornare ad essere anche una sensibilità al processo istruttorio che ti porta al potere e non solo una tecnica di manipolazione delle volontà collettive.

Nella crisi delle istituzioni della conoscenza abbiamo bisogno di una luogo, nostro tra tanti altri, in cui cooperare a percorsi multipli di conoscenza e autoformazione.Se dovessimo solo abbozzare un curricolo.

La storia come ricostruzione critica e genealogia del presente. Il deperimento della dimensione storica è una componente depressiva di ogni predisposizione soggettiva all’alternativa. Se il mondo che vive non è percepito come frutto di una storia, esso acquista  una sacralità immutabile.

C’è anche un uso perverso che la politica e lo stesso MO hanno fatto del sapere storico, un uso giustificativo della volontà e dell’obiettivo che si vuole perseguire. La forza rivoluzionaria del sapere storico sta invece nella sua capacità narrativa del particolare, dei molteplici vissuti che arricchiscono l’ambito delle possibilità future.

Le scienze, presenze povere nella sensibilità dei politici e spesso delegate agli specialisti, dovrebbero acquisire una centralità nella nostra attenzione. Le scienze non interessano se offrono mondi già confezionati e coerenti di senso, ma dovrebbero interessarci per l’enfasi che esse danno al dubbio e al limite, come orizzonti del sapere. Il movimento dei movimenti mi pare abbia correttamente e praticamente ridato centralità alla conoscenza scientifica critica. Le scienze della natura, la genetica e le scienze biologiche, l’informatica sono solo tre esempi di come si sta vivendo una salutare rivoluzione di paradigma che rompe con la presunzione di neutralità delle scienze rispetto al contesto sociale e al modello economico. Una sfida che dobbiamo pienamente raccogliere collegandoci con esperinze di ricerca e di formazione già esistenti o in formazione.

La terza proposta che affiderei ad un curricolo immaginario è la comunicazione. La politica come organizzazione del futuro ha bisogno di ripensare criticamente al sistema delle comunicazioni; si potrebbe dire che è necessario un programma antiretorico verso i linguaggi per tornare alla comunicazione come strumento della democrazia. Attualmente le comunicazioni e i sistemi di formazione costituiscono un formidabile insieme deputato ad un’azione di velamento della realtà, la funzione decostruttiva della comunicazione diventa essenziale per l’azione politica, deve essere un luogo intenzionalmente attrezzato all’altezza delle sofisticate tecniche che le comunicazioni di massa usano.

La televisione, il sistema dei consumi e la rete Internet sono gli strumenti formibabili che ci stanno di fronte, sono la maturità dello sviluppo capitalistico nella comunica sociale e nello stesso tempo si prestano nella loro ambiguità e pervasività sociale, ad essere strumenti e spazi dell’invezione politica del futuro.

Verso queste dimensioni mostriamo ancora una semplice curiosità un po’ furbesca e un po’ subalterna. Questi spazi simbolici sono, a mio parere, quello che fu la scuola di massa e lo spazio pubblico nel tempo del fordismo.

Infine dovrebbe interessarci anche una redifinizione del ruolo delle attività umane “inutili”, lo spazio straordinario della produzione dell’immaginario. Quello che abbiamo chiamato e chiamiamo l’invenzione artistica. Non basta la riconduzione dell’immaginazione ad una dimensione sovrastrutturale. La produzione di senso collegata all’immaginazione è costitutiva della società in cui viviamo, le idee, le fedi, le speranze, i simboli, le narrazioni del mondo si fanno carne e storia sempre con più prepotenza e acquistano una relativa autonomia rispetto alla materialità e all’economico. L’immaginario riesce a disegnare le mappe delle coscienze individuali e definisce sempre più lo spazio pubblico (anche rendendolo virtuale e perciò non meno pressante).

In tutto questo discorso mi piacerebbe che cooperassimo a fare insieme delle indagini inusuali, che le mettessimno a disposizione delle comunità politiche che ci interessano, che riuscissimo, come si dice oggi, a fare rete con tanti altri che sono incuriositi dalle nostre curiosità. Mi piacerebbe che ne facessimo occasioni di autoformazione cooperativa. Facciamo convegni, dovremmo inventarci qualcosa di più strutturato, più continuo nel tempo. Abbiamo una grande responsabilità verso i più giovani. La formazione è un’interessante reciprocità, ci si racconta le novità per chi le vive e si consegnano le esperienze, per chi le ha.

Un’impresa che sottovalutiamo in una realtà politica come la nostra e che mi sembra anche una debolezza grande che crea una sproporzione tra l’ambizione di voler redifinire l’esperienza storica del comunismo e la povertà delle soluzioni e delle occasioni culturali che offriamo.

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