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Autore

Sergio Bellucci

LAVORO E INNOVAZIONE

Il Taylorismo digitale e la contrattazione sindacale   

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Inviato il 13/05/2019




Articolo, 2012.

 

La storia del lavoro, fino ad oggi, è passata per tre fasi distinte ma sovrapposte e non concorrenti nel tempo. Ogni…   nuova fase ha inglobato la precedente sussumendola al proprio interno e rivisitandone i confini e le modalità. Le fasi di lavoro sono quelle del lavoro manuale, del lavoro meccanico e del lavoro nell’èra digitale.  

 

Nel lavoro manuale si evidenziava una struttura artigianale che era figlia dell’accumulo delle conoscenze trasmesse da persona a persona e da una generazione all’altra.

 

Nel lavoro meccanico ogni generazione apprendeva le conoscenze sostanzialmente dallo studio della/le macchina/e a cui veniva assegnato. Si manteneva una certa trasmissione del sapere da una generazione all’altra, ma spesso già si evidenziava la necessità dell’autoapprendimento. Una cesura tra la relazione della conoscenza accumulata dalle generazioni precedenti e quella in produzione che si sarebbe fatta più esplicita con l’avvento della fase tayloristica. Il taylorismo, infatti, scompone le mansioni e distrugge la necessità, per il lavoratore, della conoscenza dell’intero processo.  Inizia la fase della ingegnerizzazione della produzione. La conoscenza del fare si trasferisce sempre di più nella fase di progettazione dello stabilimento e della divisione delle mansioni. La conoscenza richiesta al singolo lavoratore diviene sempre più “gregaria” all’interno dello schema dato.

 

Questo processo sarà investito, pochi decenni dopo, dall’arrivo delle tecnologie digitali o “a controllo numerico” come furono chiamate in un primo momento le prime automazioni delle macchine meccaniche.

L’arrivo del digitale produrrà effetti complessi. Da un lato, i processi di ingegnerizzazione del ciclo produttivo andranno avanti, investendo un numero sempre più elevato di processi produttivi.  Dall’altro lato, le potenzialità del controllo digitale delle macchine produrrà la fine del processo di “ricorsività tecnologica”, con la rottura dei benefici occupazionali connessi al processo di implementazione delle nuove tecnologie nel ciclo, che aveva caratterizzato tutta la prima fase del processo di industrializzazione dell’èra  meccanica.

 

Inoltre, la gestione dei processi di informazione nella produzione diventava sempre più importanti e, questo dato, consentiva la necessità di nuova intelligenza applicata al ciclo. Questa volta una intelligenza non ripetitiva rispetto alle conoscenze accumulate dalle generazioni precedenti ma una intelligenza elaborativa, creativa, in grado di progettare nuove forme di organizzazione del lavoro, del fare umano.

Non solo. I processi di digitalizzazione degli apparati produttivi portavano ad altri due fenomeni importanti: l’abbattimento dei costi dei mezzi di produzione e la loro flessibilità operativa.

 

Il lavoro artigianale si basava sull’accumulo di conoscenze depositate nella esperienza di vita degli operai artigiani. Queste conoscenze venivano trasmesse da generazione in generazione ed erano il patrimonio più importante sia della singola persona (la definiva anche in termini sociali) sia per la classe lavoratrice (possedeva le conoscenze necessarie alla produzione delle merci).

L’arrivo del lavoro meccanico cambia la natura del lavoro riducendo fortemente la necessità del deposito di informazioni di proprietà del singolo e della classe a favore del processo di ingegnerizzazione della produzione. Il lavoro perde una capacità di contrattazione basata sulla potenza delle informazioni in suo possesso ma acquista la capacità di conflitto insita nella possibilità di interrompere il ciclo produttivo con estrema facilità. La stessa struttura del ciclo, infatti, risulta essere molto permeabile al conflitto basato sull’interruzione della catena. Il lavoro, spogliato dalla potenza di una parte cospicua della conoscenza necessaria alla produzione, rilancia la propria centralità basandosi più sulla cooperazione di conflitto che sull’apporto conoscitivo da introdurre nella produzione.

 

L’irruzione delle tecnologie digitali rimescola tutto, ma in un mix completamente nuovo. Da un lato, i processi di ingegnerizzazione si spingono a informare di se stessi tutto l’ambiente lavorativo, anche quello impiegatizio. Non c’è più ambito di lavoro che non passi per un processo informatizzato (cioè ingegnerizzato a monte). Dall’altro, la genericità dei protocolli dei software e la loro residua rigidità nelle applicazioni, necessitano di un nuovo contributo cognitivo e di conoscenza da parte del lavoratore. La partita si potrebbe riaprire se si scommettesse più che sulla lentezza, sulla capacità di innovazione possibile da parte del mondo del lavoro e dei singoli. Questo necessiterebbe, come vedremo, di una nuova capacità di conflitto, ma un conflitto di nuova generazione.

 

Nelle tre fasi descritte della storia del lavoro le quattro componenti strutturali della produzione risultano con mix specifici. Capitale, Lavoro, Terra e Conoscenza sono differentemente necessari.

 

Figura 1 – Composizione della produzione nelle varie ere produttive (non presente)

 

Mentre nell’èra agricola (epoca nella quale il lavoro era sostanzialmente un lavoro artigianale-manuale), forte era la necessità della terra e del lavoro, l’avvento dell’èra industriale, quella del lavoro meccanico, necessitava di minor terra e sforzo umano ma di un capitale più alto. L’avvento dell’èra della conoscenza riduce ancora di più la necessità delle componenti legate alla terra e al lavoro e vede anche una riduzione della necessità di capitale. L’unica cosa che aumenta ad ogni passaggio è la necessità della conoscenza e della sua gestione.

 

La crescita dello spazio legato alla gestione di informazione, conoscenza e comunicazione all’interno del ciclo produttivo è, a mio avviso, il tema più importante all’interno del mondo produttivo capitalistico dell’ultimo secolo. Rispetto alla produzione capitalistica industriale pre-tayloristica, tutto quello che è avvenuto dopo è il risultato di un processo dirompente legato all’aumento esponenziale dell’informazione sussunta nel ciclo produttivo. In seguito anche il lavoro e le stesse merci furono investite da tale ciclone. Rispetto alla produzione affidata alla conoscenza accumulata da uno o più operai, che veniva definita esperienza, man mano che l’impostazione tayloristica conquista spazio nelle logiche produttive risulta sempre più significativa la conoscenza analizzata a monte del processo produttivo e sulla base del quale l’impianto o la produzione veniva organizzata. La potenza della forma tayloristica travolge assetti produttivi secolari. La scomposizione della produzione della merce in mansioni semplici, ripetitive e cooperanti tra loro risulta un fattore di crescita esponenziale della capacità produttiva dell’umanità. Certo il processo di alienazione, che accompagnerà quella che Marx aveva pronosticato come la sussunzione reale, risulterà devastante. Nessun lavoratore avrà più compiutezza, conoscenza e capacità nell’intero ciclo produttivo.

 

Ma in questa occasione a me rimane il compito di osservare come il ruolo della informazione nell’attività del produrre modifichi la stessa forma del ciclo e non addentrarmi sulle specifiche caratteristiche del processo di alienazione che ci porterebbero  fuori dai limiti che ci siamo dati per questa discussione.

 

L’aumento della conoscenza nel ciclo produttivo si può descrivere sia sotto la modifica della natura degli impianti, sia sotto quella della ridescrizione delle singole mansioni. Ma anche le merci iniziano ad essere merci “nuove”, merci che contengono, via via, processi di ingegnerizzazione delle loro funzioni e delle loro forme. Man  mano che andiamo avanti all’interno del processo di sviluppo di questa tendenza diviene sempre più necessario avere capacità di acquisizione, gestione e controllo di flussi di informazione. Si modifica la distribuzione della conoscenza all’interno della produzione, nella forma del lavoro e nelle stesse merci. Se analizzassimo la composizione del lavoro operaio artigianale potremmo distinguere sostanzialmente due aree di componenti necessarie. Da un lato la capacità di donare forza e dall’altra la capacità (accumulata nell’esperienza) di utilizzare la propria conoscenza. Una terza parte, quella della conoscenza accumulata nel sistema macchinico era molto bassa e, in larga parte, utilizzata per moltiplicare le prime due. La rottura tayloristica modifica tale rapporti di forza. Dall’avvento della scomposizione attuata dalla “organizzazione scientifica del lavoro” la terza componente diviene sempre più importante a scapito delle prime due.

 

L’avvento delle tecnologie digitali consente un potente salto in avanti sulla capacità già in atto dei modelli produttivi capitalistici. Questo passaggio fu definito come l’avvento del post-industriale, ma nulla di più sbagliato era considerare tale passaggio come la fuoriuscita dal sistema tayloristico (e, quindi, dal nuovo processo di industrializzazione aperto qualche decennio prima).  Cambiava “solo” la forma dell’organizzazione del lavoro e il cambiamento faceva saltare quell’accumulo di capacità di conflitto sulla quale si era basata la risposta operaia alla standardizzazione tayloristica della produzione dopo la fine del lavoro operaio artigianale.

 

La struttura tayloristica era caratterizzata da una parcellizzazione caratterizzata dalla rigidità della linea. Una volta ingegnerizzata l’idea e costruita la linea di montaggio le modifiche erano costose e spesso impossibili da realizzare. La linea era anelastica rispetto all’ambiente produttivo e alle necessità che emergevano durante la sua vita. Inoltre, la sequenzialità delle fasi era obbligata e rigidamente costruita e la struttura di controllo assumeva la forma dell’ispezione e della forzata ricongiunzione dei comportamenti alla idea teorica di produzione che era il frutto della scomposizione ideata a monte.

 

L’avvento delle tecnologie digitali non cambia la scomposizione tayloristica  ma la sua forma assume caratteristiche che offuscano per anni il dibattito teorico spingendolo verso l’inganno della “fine della fabbrica” quando, invece, era la nuova forma del taylorismo digitale[1] che si allargava a macchia d’olio a tutte le forme produttive e alle stesse forme relazionali umane, mettendo a valore i singoli atti di vita. La scomposizione teorizzata da Taylor assume la forma di una parcellizzazione caratterizzata dalla ubiquità, slegata, cioè, dalla condivisione dello spazio. Tale caratteristica porterà ai grandi processi di delocalizzazione e alla costruzione di quella che fu chiamata la “fabbrica virtuale”. La struttura della cooperazione diventerà la disgiunzione di capacità lavorative uniformate dalla logica di flusso del lavoro digitalizzato (l’uso di apparecchi che si basano tutti sulla stessa logica del flusso informatico). Il controllo, infine, viene garantito nelle tecnologie digitali dalla stessa logica di funzionamento del flusso informatico. Ognuno di noi ha potuto sperimentare, almeno una volta, un comando di controllo di un programma informatico che ci indica di rifare un lavoro perché quello svolto non è stato eseguito secondo la logica di flusso prevista. Le stesse forme del taylorismo classico sono riprodotte dalla forma digitalizzata, anche se pochi si sono accorti di tale semplice verità e le conseguenze sono state la rottura della capacità di contrattazione dell’organizzazione del lavoro all’interno dei luoghi della produzione.

 

Ovviamente anche il taylorismo digitale ha i propri specifici “rapporti di produzione”. In primo luogo l’emersione di questa nuova forma di produzione è stata caratterizzata da una duplice caratteristica. I vecchi apparati di produzione (con i loro rapporti di produzione) integrarono progressivamente le logiche del taylorismo digitale sostituendole a quelle dell’èra meccanica. Tale processo portò al rafforzamento della struttura di comando, anche per la mancata comprensione da parte delle organizzazioni sindacali del mutato panorama produttivo e per la loro incapacità di alzare le forme del conflitto e della contrattazione al livello del taylorismo digitale. Dall’altro lato iniziò a formarsi un’industria di nuova generazione, che non aveva alle spalle le incrostazioni organizzative del passato e poteva poggiare sulla flessibilità delle merci da loro prodotte, le nuove merci immateriali. In tali comparti il taylorismo digitale produsse immediatamente nuove e più elevate forme di organizzazione del lavoro. Questi luoghi diventarono presto i laboratori della grande trasformazione capitalistica e le forme di organizzazione sviluppate al proprio interno esempi da imitare in tutte le industrie. Sarebbe stato opportuno ripartire da questi punti per organizzare il conflitto sociale in grado di porsi all’altezza dei processi innovativi del capitalismo digitale. Comprenderne le nuove forme e potenzialità rilanciando una stagione di lotte che avrebbero potuto aprire un ciclo lungo analogamente a ciò che accadde con il conflitto sociale costruito intorno alla prima fase tayloristica. Analogamente a quella, infatti, chi rimase ancorato alla forma produttiva pre-tayloristica rimase travolto sia sotto il profilo della capacità produttiva (per le aziende) sia sotto quello della forma di conflitto sociale (con l’emersione del sindacato dei consigli, infatti, anche il sindacato prese atto di una nuova forma produttiva che era avanzata e si era consolidata nel ciclo).

 

Ma l’organizzazione del lavoro possibile attraverso l’innovazione tecnologica introdotta dal digitale non è necessariamente inscritta nel taylorismo digitale. Queste “catene”, infatti, sono obbligate dagli specifici rapporti di produzione esistenti nel momento in cui le tecnologie digitali si presentarono sullo scenario tecnologico. Le loro potenzialità, però, sono ben più ampie del limitato perimetro nel quale sono state relegate fino ad oggi. Le tecnologie digitali, infatti, possono essere molto più malleabili di quelle meccaniche e consentono l’emersione di forme di organizzazione del lavoro basate sulla condivisione, sulla cooperazione e sull’autogestione. Nei settori tecnologicamente più avanzati, infatti, le forme di produzione sono state attraversate da nuove modalità produttive, come nel caso degli Open Source. Anche nelle forme relazionali, rimodulate dalle tecnologie digitali, emergono nuove modalità decisionali e dello stare insieme. L’attivazione di comunità cooperanti che producono fattori produttivi avanzati e “anche” delle merci “gratuite”, stanno a dimostrare come il modello di produzione di matrice capitalistica può essere attraversato da logiche totalmente esterne e, come accade per l’effetto tunnel a livello subatomico, produrre effetti economici e macroeconomici di nuova generazione. Effetti che alludono a forme di produzione liberate dai “vincoli” della valorizzazione capitalistica e che si avvicinano più alla idea del valore d’uso che a quello di scambio. Inoltre, proprio le tecniche digitali riaprono la partita dell’idea stessa di proprietà, dissolvendola nella sua forma privatistica e sciogliendola verso la sua dimensione sociale.

 

Tutto questo ovviamente non può diventare egemone senza un progetto politico che sappia superare i rapporti di produzione esistenti.

 

Nel taylorismo fordista lo scontro principale era tra il capitale e la conoscenza operaia.  Secondo lo schema marxiano, il capitale dopo aver trasformato il fare umano, necessario alla vita e alla sopravvivenza, in lavoro salariato (quella che Marx chiama la sussunzione formale) avrebbe attaccato la capacità del fare umano accumulata nelle persone inglobandola nella macchina, intesa come apparato complessivo (quella espropriazione che Marx definì come sussunzione reale). Ma nell’era meccanica la componente della conoscenza necessaria alla produzione ancora incorporata nell’umano era fondamentale. La tendenza all’automazione si infrangeva sui limiti della stessa capacità meccanica di inglobare conoscenza. In quella fase la contrattazione dell’organizzazione del lavoro avviene proprio per la capacità del lavoro di dover gestire e interpretare il funzionamento del sistema macchinico. La necessità del saper fare inglobato nell’umano (inteso sia come classe sia come singolo lavoratore) mantiene la sua enorme centralità. La capacità sindacale di utilizzare questa centralità è fortissima e produce vette altissime di proposta e di conflitto che puntano direttamente al cambiamento della qualità del modello di organizzazione del lavoro, passando ad una gestione collettiva della relazione tra capitale e lavoro. Si pensi, ad esempio, alla proposta delle “isole di qualità” degli anni ’70.

 

Esiste anche un’altra condizione che “facilita” la capacità di organizzare conflitto sociale nei luoghi di lavoro durante la fase del taylorismo fordista. Tale condizione non risiede nella “durezza” e “asperità” del lavoro in fabbrica, ma nella sua alterità rispetto al modello relazionale della vita sociale. Il lavoro in fabbrica è segmentato, spezzettato, “alienante” e perciò disumano. L’organizzazione del lavoro è lontanissima dalla forma delle relazioni sociali che sono ancora fortemente basate sulla contiguità di relazioni fisica, sulla condivisione di spazi sociali e abitativi (osterie, bar e quartieri dormitori). Tutti luoghi che mantengono una stretta capacità di costruzione del senso di appartenenza. Appartenenza che si condivide, nell’orario di lavoro, nella fabbrica tayloristico-fordista. La contrapposizione tra forme di vita sociale e forme dell’organizzazione del lavoro agevola la percezione dell’estraniamento, della violazione dell’umano, della illogicità della forma del tempo trascorso nella linea produttiva. Anche tale condizione “lavora” a favore della costruzione del senso di appartenenza e della “coscienza di classe”.

 

L’avvento progressivo del taylorismo digitale erode tutti questi presupposti. Non cambia il luogo del comando e del potere, ma svuota i meccanismi di difesa e di attacco costruiti nell’èra meccanica dal movimento dei lavoratori. Il sistema macchinico, con le macchine automatizzate sotto il controllo digitale, riesce ad inglobare il saper fare dell’umano ad uno o due ordini di grandezza maggiori. Inizia una fase di automazione enorme che consegna a chi organizza la progettazione delle macchine e dell’intero ciclo, una capacità di eliminare parti importanti delle fondamenta del conflitto della fase precedente.

 

L’organizzazione del lavoro trasla sempre più nell’organizzazione del flusso e della gestione delle informazioni. Questo passaggio, inoltre, viene sempre più affidato ai processi di ingegnerizzazione e affidato alle logiche dei diagrammi di flusso derivate dai programmi informatici. Proprio questa forma sfrutta la logica degli stati fondamentali per cui una singola informazione può assumere  tre valori: congiunzione, disgiunzione e negazione, ovvero AND, OR e NOT. Questi stati, se ben visti, sono omologhi alla forma del discorso relazionale. Come ci aveva spiegato Watzlawick in una comunicazione non possiamo far altro che Confermare, Negare e Disconfermare. Esattamente come fa il nostro apparato digitale nello gestire le informazioni. L’intero sistema, quindi, è molto omologo alla struttura relazionale umana e risulta molto più flessibile nella capacità di inglobare conoscenza di quanto non potessero fare ingranaggi e pistoni idraulici. L’organizzazione del lavoro, costruita intorno ad un sistema macchinico che assume sempre più la forma di uno scambio comunicativo, risulta isoforme alla forma relazionale umana. Tale isoformità risulterà vincente nel far percepire il nuovo modello dell’organizzazione del lavoro come “più umano”. Inoltre risulta più difficile fare conflitto sociale verso una forma di organizzazione del lavoro che lavora con la stessa logica delle relazioni umane e utilizza apparecchiature identiche a quelle che si riversano nella società per mantenere le relazioni sociali, come il PC, i cellulari e, oggi, gli smartphone o i tablet. La forma della organizzazione produttiva diviene sempre più isomorfa alla forma della vita relazionale.

 

Sia la forma della comunicazione sia lo stesso linguaggio, inoltre, subiscono la pressione “riordinatrice” che il flusso comunicativo digitale produce. Una spirale di trasformazione inizia ad inglobare la stessa forma del lavoro.

 

Nel taylorismo digitale la forma della parcellizzazione è rappresentata dalla possibilità dell’ubiquità della singola mansione o di parti della scomposizione del ciclo. Tale possibilità consentirà i processi di delocalizzazione mantenendo il controllo del flusso produttivo. Non solo. Lo stesso principio frattale della rete (uno dei sei principi individuati da Lévy fin dalla fine degli anni ’80), consente di pensare ogni pezzo di ciclo come una rete stessa. Il limite non si ferma neanche al singolo individuo che inizia a percepire se stesso come un reticolo di forme produttive (relazionali) connesse.

 

La cooperazione necessaria al processo produttivo avviene attraverso la disgiunzione e ricomposizione a rete delle capacità lavorative. Una disgiunzione di capacità che, allo stesso tempo, sono rintracciate per la loro specificità ma assumono sempre più la stessa forma proprio per l’impatto con le tecnologie digitali. Questo permette di portare alle estreme conseguenze l’assunto di Taylor della possibilità di sostituzione del singolo lavoratore con chiunque altro. I processi di precarizzazione dipendono molto da questa possibilità di sfruttare una capacità diffusa e isomorfa di saper fare legato molto all’uso di tecnologie digitali.

 

Il controllo avviene non più attraverso la coercizione forzata all’interno di uno schema di lavoro completamente estraneo alle forme di vita relazionale. Un controllo che necessita di una ispezione umana che misura la difformità degli atti dei singoli rispetto alle previsioni del processo ingegnerizzato. Il controllo nell’èra digitale avviene all’interno stesso dell’atto cognitivo della mansione. È l’intero contesto che viene ad essere costituente dello spazio di logicità della risposta richiesta. Il tempo di risposta, almeno fino ad oggi, necessita sempre meno di forme di controllo esterne perché la mansione lavorativa assume, spontaneamente, la forma della “risposta” ad un atto comunicativo. Il controllo avviene, quindi, spontaneamente e rimane racchiuso all’interno della logica del sistema informatico costruito a monte nel diagramma di flusso. Il controllo è spersonalizzato, automatico e auto-realizzato nella relazione individuale con la macchina.

 

Ma come abbiamo accennato la forma della produzione nell’èra digitale non raggiunge il suo massimo d’efficienza nella strutturazione tayloristica. Infatti la struttura preordinata di una risposta è come la costruzione di un “romanzo automatico”. La potenza dell’atto creativo sta proprio nella “capacità” di apportare modifiche che “rompono” lo schema, come in un qualsiasi atto comunicativo che non sia una semplice recita a copione. Spontaneamente, infatti, stanno emergendo forme di produzione che superano i vincoli del taylorismo digitale e propongono nuove e più libere strutture creative. Strutture che rompono anche gli assetti dei rapporti di produzione esistenti, poggiando sulle forme di condivisione, cooperazione e autogestione, tipiche degli approcci teorici della storia sinistra. Il punto è che sia il sindacato che la sinistra di oggi non riescono a fuoriuscire dagli schemi del passato e ad interagire con queste fasi avanzate. Non riescono, cioè, a fare diventare proprie le proposte politiche che emergono nel corpo sociale.

 

La contrattazione si è sempre appoggiata su due grandi pilastri: il salario e l’organizzazione del lavoro. Questa incapacità di affrontare il cambiamento del secondo pilastro inficia la stessa capacità contrattuale del mondo del lavoro. Se è vero che molta dell’organizzazione del lavoro è inglobata nel software (e il software è acquistato dalla azienda che sceglie anche come farlo applicare alla sua specifica necessità) il tema della proprietà intellettuale del software diventa primario nella capacità di contrattazione. Infatti, se il software è di proprietà di una azienda fornitrice, la possibilità di intervenire sulla forma del software diviene praticamente nulla. Avere, invece, un software Open Source che è modificabile da un qualsiasi informatico può consentire al sindacato di chiedere una trasformazione dell’organizzazione del lavoro contenuta nel software stesso. Il sindacato può recuperare, quindi, la propria capacità di contrattazione sulla forma dell’organizzazione del lavoro e riprendersi una parte fondamentale delle sue prerogative.

 

L’avvento delle tecnologie digitali può rappresentare una sconfitta strategica o il terreno per una vittoria impensabile. Tutto dipende dalla forma con la quale si costruirà il conflitto da domani e dalla ridefinizione dei mezzi con i quali si vuole raggiungere l’obiettivo di una società nella quale lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sia bandita. Questo è il compito del rinnovamento, non quello dell’abiura.

 

 

[1] Cfr. Bellucci Sergio, E-work. Rete, Lavoro, Innovazione. Roma, Derive e Approdi, 2005.

 

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