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Autore

Gianni Tamino


CRESCITA INSOSTENIBILE
DISTRUZIONE DELL’AMBIENTE,
SCARSITÀ E GUERRE

in QUADERNI DELLA DECRESCITA, 2, maggio /settembre, 2024.


                     Sommario:

  • Sostenibilità e insostenibilità
  • Emergenze planetarie
  • Cambiamenti climatici
  • Estensione del modello lineare all’agricoltura
  • Economia della scarsità
  • Globalizzazione, carestie, epidemie e guerre
  • Clima e armi
  • L’ipotesi della Decrescita

 

Abstract

La crisi bellica è sola una delle tante facce della crisi generale causata da un sistema produttivo lineare, fondato su un paradigma meccanicista e riduzionista che non tiene conto dei limiti imposti dalle caratteristiche del nostro Pianeta. Un sistema produttivo che ritiene possibile una continua crescita delle produzioni e dei consumi non è sostenibile e provoca gravi conseguenze ambientali e sanitarie: inquinamento, perdita di biodiversità, cambiamenti climatici, epidemie e guerre. Questa economia di rapina e sfruttamento, ha come obiettivo la scarsità dei beni per garantire la loro mercificazione. Per contrastare questa logica che rischia di portarci alla catastrofe occorre pensare a nuovi approcci, cambiando il paradigma da una impostazione riduzionista a quella di complessità, dalla crescita alla decrescita, dalla scarsità alla frugale abbondanza.

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Introduzione:

 

La crisi bellica è solo un’altra faccia della crisi globale, che si manifesta, a seconda del punto di osservazione, come economica, sociale, ambientale, energetica, climatica o sanitaria. Ma vi è una sola crisi ed ha una sola origine: un’economia lineare di rapina verso la Natura e di sfruttamento di tutti gli esseri viventi, a partire dagli esseri umani. Il risultato è l’esaurimento delle risorse naturali e la distruzione dell’ambiente (inquinamento, rifiuti, cambiamenti climatici).

Questa economia, basata sulla crescita economica illimitata, trae origine da un paradigma sbagliato, riduzionista, che ignora i limiti, sviluppato durante la rivoluzione industriale e basato su un sistema economico produttivo lineare, mentre l’economia della natura funziona in modo circolare.

La visione meccanicista e riduzionista, che ha caratterizzato scienza ed economia negli ultimi due secoli e che pure ha garantito notevoli progressi tecnologici, era funzionale ad una società nata dalla rivoluzione industriale e dall’illuminismo, che considerava come scopo principale della scienza e della tecnologia quello di fornire all’uomo strumenti per dominare e sottomettere la natura. Questa visione, divenuta ideologia del sistema produttivo liberista, riduce a merce ogni risorsa naturale, comprese quelle ritenute patrimonio comune e indispensabili per la vita, come l’acqua che beviamo, fino agli stessi organismi viventi, uomo compreso. Questa ideologia porta a credere che la tecnica sia in grado di risolvere ogni problema, sia ambientale che sanitario, in un ambiente dove energia e materie prime sono ritenute sempre disponibili, praticamente infinite. C’è in tutto ciò un irrazionale e irresponsabile ottimismo, che fa ritenere credibile una crescita continua della produzione industriale e che porta a pensare che qualunque effetto negativo questa produzione possa arrecare all’ambiente o alla salute umana, può essere risolto dalla scienza e dalla tecnica.

Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista”, autore di questa celebre frase è un economista, Kenneth Boulding, uno dei pochi che negli anni Settanta, sostenevano che l’economia mondiale doveva essere interamente ripensata in difesa della biosfera, insieme al Club di Roma e a Nicholas Georgescu-Roegen (che in base ai principi della termodinamica aveva dimostrato l’inevitabile degrado di materia ed energia). Questi autori si impegnarono a convincere il mondo che il sistema industriale andava consumando la base del suo operare. Per queste ragioni proposte come “Sviluppo sostenibile” e “Green Economy”, fondate su un’economia di crescita,  non risolvono il nodo di fondo dell’attuale economia: l’incompatibilità con l’economia naturale. Meglio parlare di sostenibilità.

Nell’impostazione meccanicista non c’è spazio per la prevenzione e per la precauzione, ma solo per interventi mirati a curare i danni avvenuti (inquinamenti, malattie, ecc.), interventi che richiedono nuove produzioni e nuovi consumi, che fanno crescere il PIL, unico vero parametro preso in considerazione dall’economia liberista, frutto di questa visione riduzionista.

Dalla rozza semplificazione dei fenomeni naturali a fenomeni meccanici, occorre passare ad una analisi dei sistemi naturali, interagenti tra loro, intesi come sistemi complessi. Ogni organismo presente in un ecosistema svolge un ruolo nei cicli biogeochimici che garantiscono, mediante equilibri dinamici, i flussi di materia ed energia. Questi flussi sono possibili grazie alle relazioni, anche produttive, che si instaurano tra i diversi organismi, realizzando quella che possiamo definire l’Economia della Natura, come affermava anche Ernst Haeckel, per spiegare il termine Ecologia, da lui coniato.

L’uomo, dal punto di vista biologico, è un animale, frutto di un particolare processo evolutivo e adattativo e, come tale, soggetto alle stesse logiche degli altri organismi presenti nella biosfera. Nell’equilibrio ecologico ogni specie deve limitare la propria crescita entro i limiti che permettano alle altre forme di vita di coesistere con essa. Solo la specie umana sembra non rispettare questo ruolo naturale: la sua crescita si è recentemente estesa senza controlli su tutta la superficie terrestre, sottraendo spazi vitali alle specie selvatiche e costringendo in allevamenti lager gli animali usati come cibo. L’origine di questa visione antropocentrica (relativamente recente rispetto alla storia evolutiva umana) va cercata nella logica di dominio sulla natura (e sugli altri animali), che alcune società umane hanno sviluppato nel corso della loro evoluzione culturale e sociale.

Per uscire da questa logica sbagliata e perversa, frutto di un paradigma obsoleto come quello che ha dato origine alla rivoluzione industriale, dobbiamo riuscire a modificare quegli aspetti culturali, sociali ed economici, che hanno portato a privilegiare, in nome della crescita del PIL, l’aumento della produzione di prodotti per lo più inutili e spesso pericolosi, con metodi dannosi per l’ambiente e responsabili di nuove patologie umane. Questo sistema sociale ed economico ha anche fatto crescere le ingiustizie sociali, la povertà nel mondo e il rischio di conflitti.

 

Sostenibilità e insostenibilità

 

L’attuale sistema produttivo industriale ed agricolo e l’utilizzo di fonti fossili per ogni esigenza energetica sta gravemente compromettendo la biodiversità del pianeta, risultando del tutto insostenibile per gli equilibri ambientali. Molte specie di animali e di piante sono ridotte a pochissimi esemplari e, quindi, in pericolo o, addirittura, in via di estinzione. L’estinzione è un processo naturale ma ora, a causa delle attività umane, sta avvenendo molto più rapidamente che in passato. La comunità scientifica è d’accordo nell’affermare che il tasso attuale di estinzione è 100-1000 volte superiore a quello precedente la comparsa dell’uomo. Secondo le stime dell’Unione Internazionale per la conservazione della natura (IUCN, 2024) più di 44.000 specie sono a rischio di estinzione, ovvero il 28% di tutte le specie conosciute. Si tratterebbe della “sesta estinzione di massa” della storia, conseguente al cattivo stato di salute della Terra, mai così critico da 65 milioni di anni a questa parte, ovvero dalla scomparsa dei dinosauri. Un disastro mai visto prima, se si pensa che a causare le crisi precedenti ci sono voluti svariati milioni di anni e delle catastrofi naturali, non, come oggi, poco più di un secolo di “rivoluzione industriale”.

Per verificare la sostenibilità o l’insostenibilità dell’attività umana si possono utilizzare vari metodi, tra cui la cosiddetta “carryng capacity” o capacità di un territorio di sostenere una popolazione, oppure l’impronta ecologica, cioè la misura del territorio in ettari necessario per produrre ciò che un uomo o una popolazione consumano.

Ribaltando l’approccio tradizionale alla sostenibilità, il metodo dell’impronta ecologica, proposto da Wackernagel e Rees (2000), si propone di non calcolare più quanto “carico umano” può essere sorretto da un habitat definito, bensì quanto territorio (terra e acqua) è necessario per un definito carico umano, cioè per reggere l’impronta ecologica che una determinata popolazione imprime sulla biosfera.

L’impronta ecologica così calcolata può essere messa a confronto con l’area su cui vive la popolazione e mostrare di quanto è stata superata la carrying capacity locale e, quindi, la dipendenza di quella popolazione dal commercio e dai consumi. Questa analisi, inoltre, facilita il confronto tra regioni, rivelando l’effetto delle diverse tecnologie e dei diversi livelli di reddito sull’impatto ecologico. Così l’impronta media di ogni residente delle città ricche degli USA e dell’Europa è enormemente superiore a quella di un agricoltore eritreo (USA 12, Italia 4,2, Eritrea 0,35), che è come dire che sul pianeta uno statunitense “pesa” come 35 eritrei (Ecological Footprint Atlas, 2010).

Per ridurre l’impronta ecologica i consumi devono essere quantitativamente e qualitativamente sostenibili. Così la scelta dei prodotti industriali deve riguardare le modalità con cui sono stati prodotti, l’energia utilizzata, i materiali che li compongono e la loro origine, la loro durata, la loro riciclabilità, evitando consumi superflui. Analogo discorso va fatto per l’uso dell’energia, dell’acqua e dei trasporti.

L’insostenibilità del nostro modo di produrre sta dunque nella linearità, cioè nel prelevare risorse naturali esauribili (come le fonti di energia fossile e i minerali) per utilizzarle in processi produttivi che producono una gran quantità di rifiuti e di inquinamento, oltre all’oggetto da vendere, di effimera durata, che diviene a sua volta rifiuto, spesso non riciclato o peggio non riciclabile. Ma anche le risorse rinnovabili, come i prodotti naturali di origine vegetale o animale, utilizzati sia come cibo che nei processi industriali (si pensi al legno dei boschi o al pesce del mare) sono prelevati (rapinati) negli ecosistemi, in misura insostenibile, cioè in quantità maggiore rispetto alla naturale capacita di rigenerazione. Ad esempio si cattura ogni anno più pesce di quanto si riproduce in quell’anno, così l’anno successivo ci sarà una minore produzione naturale, ma un maggior prelievo, fino all’esaurimento della risorsa. Se consideriamo l’insieme delle risorse rinnovabili possiamo verificare che ogni anno esauriamo la quantità prodotta dalla natura in un tempo sempre più breve: il giorno in cui tali risorse vengono esaurite viene chiamato “overshoot day”. L’ultima volta che le risorse sono state esaurite alla fine dell’anno, cioè il 31 dicembre, risale al 1986, mentre negli ultimi anni siamo arrivati all’inizio del mese di agosto (Earth Overshoot Day, 2024): è come dire che dopo tale data e per tutti i giorni da agosto a dicembre stiamo intaccando il capitale naturale, portando all’esaurimento le risorse (bosco, foresta, stock ittico, ecc.). Tutto ciò non significa solo esaurimento delle risorse, ma anche distruzione degli ecosistemi e degli habitat di molte specie che vanno verso l’estinzione.

 

Emergenze planetarie

 

Le emergenze ambientali, come i cambiamenti climatici, la distruzione degli habitat, la perdita di biodiversità, ma anche l’inquinamento, soprattutto dell’aria, che provoca ogni anno milioni di morti nel mondo, sono strettamente collegate alla crisi economica e alla crescente povertà della maggior parte degli abitanti del pianeta, a partire dalla riduzione della fertilità dei suoli e dall’aridità delle terre, con conseguenti rischi di denutrizione e malnutrizione per miliardi di abitanti.

In soli due secoli le attività umane hanno radicalmente modificato il flusso di energia sul pianeta, bruciando combustibili fossili, che si erano accumulati nel corso di molti milioni di anni, per realizzare processi produttivi lineari, che danno origine a quantità crescenti di rifiuti e di inquinanti incompatibili con i cicli biogeochimici naturali. Infatti, se confrontiamo l’economia della natura con quella industriale umana, ci rendiamo conto che, a differenza dei processi produttivi naturali, che utilizzano energia solare, seguono un andamento ciclico, senza produzione di rifiuti e senza combustioni, gli attuali processi produttivi industriali bruciano energia fossile, sono lineari e producono inevitabilmente inquinamento e rifiuti (con sprechi di materia e di energia).

La combustione è un processo complesso che inevitabilmente trasforma i combustibili in un gran numero di nuovi composti (alcune migliaia, se consideriamo anche i composti in tracce), alcuni aeriformi, altri liquidi o solidi, che diventano rifiuti e inquinamento. Tra questi composti vi è anche la CO2, che, insieme ad altri gas, favorisce l’effetto serra e di conseguenza i cambiamenti climatici.

 

Cambiamenti climatici

 

All’origine dei cambiamenti climatici vi è un incremento dell’effetto serra: come avviene in una serra per effetto della chiusura con vetro o plastica, anche in atmosfera, a causa della presenza di alcuni gas (come CO2, vapore acqueo, metano, ecc.), la radiazione solare passa attraverso questi gas (come attraverso il vetro), riscalda l’ambiente e produce calore che viene però trattenuto, almeno in parte, all’interno della “serra”. Questo processo rende la Terra più calda di quanto sarebbe senza atmosfera, ed è fondamentale per la vita sul nostro Pianeta, le cui temperature sono in tal modo idonee agli organismi viventi. Il problema si pone quando un incremento di questi gas, in grado di alterare il clima, provoca un rapido aumento delle temperature al suolo e nei mari.

Variazioni di questi gas, come delle temperature, ci sono state anche nel passato, ma per fenomeni del tutto naturali e in tempi piuttosto lunghi; ma ora, secondo la gran parte degli scienziati, in particolare quelli dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), un grosso contributo ai cambiamenti climatici, avvenuto in tempi brevi, è imputabile alle attività umane, in particolare all’utilizzo di combustibili fossili. Ad esempio la CO2 è passata in atmosfera da circa 260 parti per milione degli ultimi millenni (e fino alla metà del secolo scorso) agli attuali 420 ppm (CNR, 2023), conseguenza di un enorme consumo di energia di origine fossile ed in generale di processi di combustione.

L’incremento di questi gas agisce sul clima, favorendo un tendenziale innalzamento della temperatura del Pianeta ed infatti gli ultimi dieci anni sono stati i più caldi della storia umana, con conseguenze sempre più gravi sugli eventi atmosferici. Va chiarito che c’è una differenza tra clima ed eventi meteorologici: la meteorologia studia variazioni del tempo su scala da quotidiana a stagionale, mentre la climatologia lavora su scale temporali più lunghe (decenni), osservando le condizioni medie e studiando i processi che le modificano. Pertanto un aumento di gas ad effetto serra non produce effetti lineari e continui: nell’arco di mesi e anni si possono avere eventi anche opposti (prima più caldo e poi più freddo), ma su scala dei decenni si verifica un innalzamento delle temperature (oltre un grado in 50 anni). L’aumento delle temperature determina un incremento di energia al suolo e nei mari, con conseguente aumento di evaporazione, formazione di venti e di tornado, ecc., ma modifica anche il regime delle piogge, favorendo fenomeni sia di siccità che di forti precipitazioni, con conseguenti alluvioni, aggravate dalla cementificazione del territorio e dal continuo disboscamento.

I cambiamenti climatici aumentano dunque intensità e frequenza dei fenomeni atmosferici, come forti precipitazioni alternate a lunghi periodi caldi e siccitosi: è quello che è successo nell’estate del 2023 in Italia, come nel resto del mondo. Purtroppo questi eventi catastrofici sono destinati ad aumentare nel tempo, se non si pone rimedio al più presto, eliminando più rapidamente possibili l’energia fossile, utilizzando fonti sostenibili e rinnovabili, riducendo gli allevamenti intensivi, responsabili di emissioni di metano, e difendendo boschi e foreste, che catturano la CO2. Servono decisioni su scala globale, che coinvolgano tutti gli stati del mondo, ma finora i vari incontri nati dopo gli accordi di Kyoto del 1997, non hanno portato a significativi risultati.

 

Estensione del modello lineare all’agricoltura

 

Anche la moderna agricoltura, industrializzata, è diventata lineare e produce rilevanti impatti.  L’energia contenuta nei vegetali, misurata in calorie, un tempo derivava quasi esclusivamente dall’energia solare, salvo l’energia umana e animale utilizzata per il lavoro dei campi, comunque garantita dal cibo così prodotto.

La “Rivoluzione Verde”, sviluppata negli anni Sessanta, ha comportato, oltre a un incremento di produttività, un notevole aumento dell’energia impiegata in agricoltura. Questa energia aggiuntiva è fornita dai combustibili fossili sotto forma di fertilizzanti, pesticidi ed energia per la lavorazione del terreno, per i trasporti, per l’irrigazione, per le trasformazioni del cibo, ecc. Secondo Mario Giampietro e David Pimentel (1993), la Rivoluzione Verde ha aumentato di circa 50 volte il flusso di energia rispetto all’agricoltura tradizionale, così nel sistema alimentare degli Stati Uniti sono necessarie fino a 10 calorie di energia fossile per produrre una sola caloria di cibo consegnato al consumatore. Ciò significa che il sistema alimentare statunitense consuma da 5 a10 volte più energia di quanta ne produca sotto forma di cibo o, se si vuole, che utilizza più energia fossile di quella solare catturata dalle piante coltivate.

In conseguenza di tale logica, la superficie adibita ad agricoltura industrializzata non solo non è in grado di assorbire la CO2 come potrebbe farlo un equivalente bosco o prato o campo coltivato con metodi tradizionali, ma anzi produce più CO2 di quanta possa assorbire, contribuendo all’effetto serra.

A causa di questo modello produttivo lineare, nell’industria come in agricoltura, siccità e cambiamenti climatici stanno mettendo a rischio il futuro dell’agricoltura, il cui fabbisogno idrico aumenterà sempre più, impoverendo le falde e riducendo ogni altro possibile utilizzo dell’acqua.

Dobbiamo quindi ripensare come produrre cibo, ma anche cosa e per chi. E’ necessario passare dalla logica quantitativa, basata sulla produttività, che ha caratterizzato l’agricoltura intensiva, nata dalla rivoluzione verde, alla logica qualitativa, basata sulla compatibilità ambientale e sulla salubrità dei prodotti.

Ciò significa rispettare il patrimonio naturale e passare a produzioni finalizzate a mercati prevalentemente regionali, con l’obiettivo della tendenziale autosufficienza alimentare. Ma per poter sfamare tutta l’umanità occorre anche modificare la dieta prevalentemente carnea dei paesi ricchi, verso una dieta simile a quella mediterranea, più sana e sostenibile, anche rispetto ai cambiamenti climatici (come già detto, gli allevamenti intensivi contribuiscono significativamente alle emissioni di gas serra).

 

Economia della scarsità

 

Questa economia lineare, fondata sulla crescita continua, non solo è un’economia di rapina e sfruttamento, ma è anche  un’economia della scarsità. Come spiega Serge Latouche (2011): “L’economia attuale trasforma l’abbondanza naturale in scarsità, creando artificialmente mancanza e bisogno, attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione” .

La scarsità è una delle condizioni di esistenza dell'economia politica: la scarsità di un bene o di una risorsa determina anche il suo prezzo economico. In caso di assenza di scarsità non ci sarebbe ragione di ricorrere allo scambio in quanto il bene sarebbe disponibile gratuitamente per tutti, cioè i beni sarebbero liberi: un esempio di bene libero è l'aria (ancora per quanto?). Il concetto di scarsità è fortemente dipendente dal fabbisogno: un bene può essere scarso anche se disponibile in enormi quantità se il fabbisogno umano (domanda, spesso indotta) è ancor più elevato. In economia politica la scarsità è pertanto un concetto relativo e non assoluto: è questo sistema economico che ha necessità di rendere scarso anche ciò che è abbondante o quantomeno sufficiente, come nel caso della distruzione di prodotti agricoli o nel caso dell’acqua, ora oggetto di mercificazione.

Per queste ragioni si preferisce continuare ad utilizzare le fonti fossili, letteralmente raschiando il fondo del barile, piuttosto che favorire l’energia solare. Infatti, nonostante si stia andando verso l’esaurimento del petrolio e in prospettiva del gas, che sono in gran parte responsabili dei cambiamenti climatici, le multinazionali energetiche ostacolano il passaggio alle fonti rinnovabili, perché, una volta realizzato l’impianto (fotovoltaico, eolico o idrico) l’utente non dipende più da un’impresa che gli vende la fonte energetica e ne determina il prezzo in base alla logica della scarsità, ciò che non si può applicare alla fonte solare.

 

Globalizzazione, carestie, epidemie e guerre

 

La globalizzazione, cioè l'estensione dell’economia occidentale a tutto il mondo, indispensabile per tentare una crescita continua dei consumi, ha provocato una crisi economica, i cui costi sono stati addossati alle classi lavoratrici dei popoli ricchi, mentre i popoli poveri, privati del necessario per vivere, sono costretti ad emigrare in massa dalle loro terre nel tentativo di trovare altrove la possibilità di sopravvivere.

Un'economia finalizzata alla crescita della produzione di merci implica uno sfruttamento sempre maggiore delle risorse naturali e, quindi, un'estensione della sopraffazione della specie umana su tutte le altre specie viventi, che si traduce inevitabilmente anche in un aumento delle iniquità e delle diseguaglianze tra gli esseri umani.

Le crisi ambientali e i cambiamenti climatici aumentano anche la probabilità di conflitti tra gli Stati, per il controllo della terra, per l’uso delle risorse, per l’acqua, ecc. Spesso queste guerre sono innescate e favorite da stati esterni a quelli belligeranti, interessati alle loro risorse naturali o agricole.

Come abbiamo visto, gli ecosistemi si mantengono in equilibrio senza superare i limiti grazie al principio della “carryng capacity”, che regola le dimensioni delle popolazioni delle diverse specie.  Anche nella storia umana quando, in base alle caratteristiche ambientali, climatiche, politiche e tecnologiche (capacità di produrre cibo), si superava il limite demografico per quel territorio, intervenivano fattori ambientali e sociali che riportavano la popolazione entro il limite. In pratica quando le risorse diventavano insufficienti a rispondere alla crescente domanda, si sono verificate oltre alle carestie, epidemie e guerre (e spesso migrazioni): basta ricordare le ricorrenti epidemie di peste nell’Europa dal ’300 al ’600, che sono state accompagnate da gravi crisi alimentari e da sanguinose guerre.

In altre parole, la mancanza di cibo (carestia) favoriva la guerra per conquistare nuove terre e nuove risorse, ma carestie e guerre rendevano più deboli le popolazioni e si sviluppavano più facilmente le epidemie (Tamino, 2020).

L’ultimo esempio, prima della pandemia da Covid 19, è stato la diffusione dell’influenza spagnola, una pandemia collegata alla prima guerra mondiale (popolazioni più fragili, carenze alimentari e scarsa igiene). Ma ora la situazione è simile: ad esempio la guerra in Ucraina ha ripercussioni sulla disponibilità di cibo in varie parti del Pianeta, e la fame produce rischio di nuove guerre, ad esempio in Africa. Così la guerra a Gaza sta letteralmente facendo morire di fame la popolazione ed è incombente la diffusione di malattie infettive. Non dissimile la situazione in Sud Sudan o nella regione del Nord Kivu (a nord est del Congo).

Secondo i dati ufficiali della FAO (2021, a) negli ultimi anni si è registrato un incremento di decine di milioni di persone in condizioni di insufficiente alimentazione: circa 800 milioni di individui oggi soffrono la fame, con la drammatica contraddizione di avere da un lato un quarto della popolazione infantile che soffre di arresto nella crescita e dall’altro 1,9 miliardi di adulti in sovrappeso, che vivono nei paesi ricchi. Una visione più generale della crisi in atto richiede maggiore impegno per la sicurezza alimentare, il miglioramento della nutrizione e lo sviluppo di un modello agricolo sostenibile, con l’obiettivo finale “zero fame entro il  2030”.  Oltre all’Organizzazione mondiale della Sanità anche la FAO (2021, b) propone l’approccio “One Health”, in base al quale la salute globale va preservata assicurando sicurezza umana, animale e ambientale, come un tutt’uno. Da qui la necessità di elaborare azioni di indirizzo e sostegno nelle politiche agricole e alimentari. L’approccio One Health è dunque fondamentale anche  per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU.

Oggi, comunque, la carestia non va intesa solo come scarsità di cibo, ma come carenza di tutte le materie prime necessarie alla società dei consumi (fonti fossili, metalli rari, litio, terre rare, ecc.). Questa è la principale causa delle moderne guerre.

 

Clima e armi

 

Il settore militare mondiale, come spiega Marinella Correggia (2023), è responsabile del 5,5% delle emissioni di gas serra, mentre le spese militari globali sono arrivate a 2240 miliardi di dollari nel 2022 e sono in ulteriore crescita per le guerre in Ucraina e Palestina.

Le spese militari e i sussidi per i combustibili fossili, con l’aggiunta di alcune imposte ambientali, se dirottate a favore dell’ambiente, sarebbero “più che sufficienti a finanziare la mitigazione, l’adattamento e il fondo perdite e danni”, afferma il rapporto Climate Collateral (2022) sul rapporto fra spese militari globali ed emergenze di origine climatica.

Una ricerca condotta da ricercatori della Durham University e della Lancaster University mostra che l’esercito americano è uno dei maggiori inquinatori climatici della storia, consumando più combustibili liquidi ed emettendo più CO2 rispetto alla maggior parte dei paesi. Questo nuovo studio (2019), pubblicato su Transactions of the Institute of British Geographers, calcola parte dell’impatto delle forze armate statunitensi sul cambiamento climatico attraverso l’analisi critica delle sue catene di approvvigionamento logistico globale. Il coautore Dr Oliver Belcher, ha dichiarato: “La nostra ricerca dimostra che l’esercito americano è uno dei principali attori climatici”.

Per salvare il Pianeta dobbiamo uscire dalla logica di guerra e dalla logica di crescita per realizzare una cultura di pace, ovvero fare pace oltre che tra gli uomini, anche con l’ambiente e con gli altri esseri viventi: ciò significa realizzare un disarmo ecologico.

Del resto l’unico modo per realizzare, parzialmente e per un tempo limitato, un’economia di crescita una volta raggiunti i limiti imposti dall’ambiente, è quello di distruggere e ricostruire, come avviene all’indomani delle guerre (si ricordi l’espansione economica realizzata negli USA e in Europa dopo la seconda guerra mondiale). L’economia di crescita è un’economia che porta alla guerra.                            

La guerra deve essere messa fuori dalla storia, sviluppando programmi per costruire una cultura di pace che esalti la via “dell’uguaglianza nella diversità e della diversità nell’uguaglianza”, come affermava Ernesto Balducci, e che attui quanto diceva Maria Montessori: “Tutti parlano di pace, ma nessuno educa alla pace, si educa alla competizione e questo è l’inizio di qualsiasi guerra; quando educheremo a cooperare ed essere solidali l’un l’altro, quel giorno, educheremo per la pace”.

 

L’ipotesi della Decrescita

 

Per uscire dalla crisi in atto dobbiamo uscire dall’economia di crescita, favorendo un disarmo ecologico in grado di ripristinare equilibri ambientali sostenibili e un clima vivibile, oltre a scongiurare il pericolo di guerre. Se l’obiettivo della crescita continua non è né praticabile né auspicabile, e comunque porta ad un’economia della scarsità e al rischio di guerra, che non può certo rendere felici, possiamo allora ipotizzare una decrescita che garantisca un’“abbondanza frugale”, definita da Latouche (2012) come l’orizzonte di senso per una fuoriuscita dalla società dei consumi.

La decrescita richiede, sul piano economico ed ambientale, una riduzione delle quantità prodotte e delle risorse impiegate, ma anche una complessiva trasformazione della nostra struttura sociale, economica e politica e dell’immaginario collettivo, avendo come prospettiva un significativo aumento, non certo una riduzione, del benessere sociale.

Ovvero la “sobrietà felice” che si realizza in un contesto di “prosperità senza crescita”, per dirla come Tim Jackson (2010), raggiungibile da tutti, vero antidoto ai conflitti.

In altre parole dobbiamo produrre meno merci, realmente necessarie, durevoli ed aggiustabili, consumando meno risorse e garantendo più occupazione, non per vivere peggio, ma tutti decisamente meglio

Si tratta di realizzare un cambio di paradigma e passare da un approccio riduzionista ad una visione di complessità, per affrontare i tanti problemi che incombono su di noi. La nuova economia deve ispirarsi ai principi dell’economia circolare e della bioeconomia proposta da Georgescu-Roegen (2003): entrambe si realizzano imitando l’economia della natura. Ma deve essere anche un’economia sostenibile a livello sociale, eliminando ingiustizie e povertà, a partire dai paesi più poveri. Un recente Rapporto dell’OECD  (2022) indica che entro il 2030 oltre l’80% della popolazione più povera nel mondo vivrà all’interno di Stati fragili, attraversati da conflitti, epidemie, povertà estrema, come effetti anche dei cambiamenti climatici. Queste popolazioni, così fragili ed indebolite, sono “terreno fertile” per la diffusione di epidemie, che, attraverso le inevitabili migrazioni, diverranno gravi pandemie: dobbiamo porre un freno a questo suicidio di massa, non solo cambiando il modo di produrre, di utilizzare le risorse naturali, ma cambiando completamente il paradigma culturale, economico, sociale e politico che ci ha portato a questo punto, che rischia di essere “di non ritorno”.

 

 

 

Bibliografia

 

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Inviato il 14/10/2024