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UNITÀ TEMATICA N. 23
MOVIMENTO ED ESPRESSIONE

Autrice

Eugenia Casini Ropa

FRANÇOIS DELSARTE
O GLI IMPROBABILI TRAGITTI
DI UN INSEGNAMENTO

Articolo pubblicato in: “Quaderni di Teatro”, a. VI, n. 23, febbraio 1984.

 

Inviato il 28/02/2025

Sintesi della vicenda biografica e magistrale di F. D., maestro di canto e di recitazione francese dell’Ottocento, che elaborò una onnicomprensiva teoria dell’espressione umana, diffusasi per vie impensate nel mondo occidentale e rivelatrice delle potenzialità espressive del corpo.

 

PER APPROFONDIRE: E. Randi e S. Brunetti (a cura di), “I movimenti dell’anima. François Delsarte fra teatro e danza”, Atti del Convegno, Edizioni di Pagina, Bari 2013.




 

Nel 1970, tra le altre ammiccanti strenne natalizie, era possibile acquistare nelle librerie americane un volumetto dalla veste editoriale raffinata e dal titolo adeguatamente curioso: Come essere un pubblico oratore davvero stupefacente, senza dire una parola[1]. Edito per i tipi rivelatori Dell’American Heritage Press (Retaggio americano, appunto) il libro era un ennesimo sfrutamento in chiave blandamente satirica del sempre funzionante “come eravamo”. In ogni pagina l’immagine di un distinto signore (o signora) in abiti fine ottocento o in panneggi alla graca ritratti in pose improbabili, eccessive o manierate, chiarificata in calce dall’indicazione dello stato d’animo o del sentimento che tale atteggiamento esprimerebbe; a piè di pagina, in caratteri più attuali, un irriverente commento del curatore che suggerisce interpretazioni alternative dell’immagine sfoggiando quell’ilare comicità da telefilm che spesso sfugge a noi europei. Si trattava in realtà di un florilegio estrapolato dalle ben 150 illustrazioni del seriosissimo trattao del prof. Edward Barrett Warman, Gesti e atteggiamenti: una esposizione della filosofia dell’espressione di Delsarte[2], edito nel 1892 e di larga diffusione e risonanza negli Stati Uniti almeno per un ventennio, responsabile e indice, con un’altra ventina di testi più o meno analoghi, della “delsartomania” che dilagò in America nello stesso periodo.

 

Tra il 1880 e il 1900 non ci fu infatti in America scuola di recitazione, oratoria, canto, ginnastica, comportamento, che non si fregiasse, a torto o a ragione, dell’insegna pedagogica di Delsarte, il cui sistema espressivo, mal conosciuto, frainteso, reinterpretato e ridotto in pillole buone per ogni uso, formò il gusto estetico in
fatto di espressione vocale e gestuale, in arte come nella vita di società, di un’intera generazione di americani. Una fioritura di manuali ampiamente illustrati e ricchi di esemplificazioni favorì una delsartizzazione diffusa con la divulgazione di scale di esercizi ginnico-vocali graduati, garantiti per consentire non soltanto a ogni attore, cantante e speaker dilettante e non, ma anche a ogni fanciulla di buona famiglia di assicurarsi un portamento armonico e fisiologicamente corretto, un gestire espressivo e convincente, una voce educata e ricca di toni, un parlare fluente e incisivo[3]. Il tutto invocando e applicando a oltranza e spesso con grottesca pedanteria la formula magica delsartiana che impone l’accordo di ogni moto espressivo esteriore al sentimento interiore a esso connesso[4]. Il risultato di tanto lodevole sforzo, là dove un uso più intelligente delle intuizioni del maestro non dette frutti imprevisti e originali che vedremo in seguito, fu nel peggiore dei casi una diffusa affettazione di spontaneità e di emotività rivelata da un parlare e un gestire che esibivano una ridondante quanto inutile espressività. Quel gestire oggi grottesco che il prof. Warman esemplificava e che porge il destro alla satira di oggi.

 

Il prevalere e la diffusione della vulgata americana, l’unica d’altra parte esaurientemente documentata, rendono difficili la riscoperta e la comprensione
senza pregiudizi dell’autentico insegnamento di François Delsarte (1811-1871), il semi-dimenticato maestro francese di estetica applicata. Negli anni tra il 1840 e il 1870 il suo studio parigino fu infatti il laboratorio di indagine e sperimentazione di un «sistema» dell’espressione estetica tanto ricco di implicazioni teatralmente eversive da costituire in seguito uno strumento di massimo rilievo nel passaggio (che è insieme rottura ed evoluzione) dalla tradizione «rappresentativa» del teatro dell’Ottocento alla tradizione «espressiva» di quello del Novecento. Ed è sotto questo aspetto che la sua azione pedagogica acquista nuovo interesse e merita una più attenta rilettura.

 

Ciò che spingeva gli allievi e gli estimatori di Delsarte a frequentare lo studio del Boulevard de Courcelles era innanzitutto la fama singolare del singolare maestro. Noto come uomo piissimo e incorruttibile, sposo e padre di proverbiale tenerezza, uscito
con le sole proprie forze da un’infanzia di infelicità e miseria indicibili, con la voce spezzata per sempre dagli ottusi insegnamenti impartitigli al Conservatoire, ostile e inaccessibile al mondo fatuo delle scene, restio a esibirsi in pubblico persino su invito del re, Delsarte teneva i suoi corsi in una saletta della casa modesta in cui viveva in idilliaca armonia con la numerosa famiglia, con la timida moglie che l’accompagnava al pianoforte e i bambini che spesso si fermavano ad ascoltare e commentare le lezioni. Attori e cantanti di fama come la Rachel, la Malibran, Macready, la Sonntag, avvocati e predicatori come il giudice Duprés e l’abate di Notre Dame, musicisti come Bizet e Rossini, letterati come Lamartine, Dumas, Gautier, artisti come Delacroix insieme con giovani allievi venuti da ogni parte d’Europa partecipavano con reverenza al rituale delle lezioni di quest’uomo dimesso e amabile che si presentava in lunga palandrana, pantofole e berretto da casa, attendendo ogni giorno il momento del miracolo, della rivelazione. E il miracolo puntualmente avveniva ogniqualvolta il maestro, terminate le spiegazioni teoriche, per offrire un esempio agli allievi alzava la sua voce velata a recitare i versi di una tragedia o a cantare una romanza: allora pareva uscire dal suo bozzolo informe e si trasformava a vista nella vivente incarnazione del personaggio rappresentato, fosse questi un tiranno perverso o una fanciulla spaurita, diveniva un fascio di vibranti passioni che riversava a fiotti su un uditorio attonito e incapace di resistere all’emozione. Ai presenti si rivelava così la prova inconfutabile di come fosse davvero possibile giungere direttamente al cuore dell’ascoltatore, convincere commuovere persuadere, utilizzando quella nuova, profonda conoscenza di sé e dei propri mezzi espressivi che costituiva il fulcro del difficile insegnamento del maestro, a cui si erano avvicinati spesso più per curiosità o insoddisfazione che per reale consapevolezza. E l’atmosfera di esaltante serenità, di complicità spirituale e intellettuale che l’uomo e l’ambiente sapevano creare, così incredibilmente distante dalla freddezza impersonale delle tradizionali lezioni del Conservatoire che tutti ben conoscevano, si dimostrava l’humus più propizio e congeniale al particolare processo pedagogico che vi si svolgeva e che se ne nutriva.

Se questo tipo di descrizione, che tenta di restituire l’eco dell’emozione con cui allievi ed estimatori ricordano le lezioni di Delsarte[5], rivela almeno in parte il singolare carisma del maestro, non rende tuttavia conto delle sue teorie filosofiche e della sua pratica di insegnamento, elementi fra loro inscindibili.

 

Autodidatta, profondamente credente con qualche tendenza alla bigotteria, fortemente influenzato da letture platoniche e scolastiche, ma attratto dalla scientificità positivista e in una certa consonanza con il saintsimonismo, Delsarte
 era giunto alla definizione del proprio sistema teorico per induzione, partendo dall’osservazione sistematica delle espressioni umane e cercando di penetrarne le leggi. Era stato spinto a questa ricerca, di cui fece lo scopo della propria vita, fin dall’adolescenza, quando, conscio che gli insegnamenti di retorica, gestualità e vocalità impartitigli al conservatorio producevano espressioni innaturali e false,
ma incapace di comprenderne la ragione, fu preso dal bisogno quasi ossessivo di rintracciare le leggi naturali che presiedono agli atti espressivi e che sole possono istituire la discriminante tra «verità» e «falsità» nell’espressione. Durante decenni di instancabile studio dell’uomo còlto nelle situazioni più varie della sua esistenza (nei giochi dell’infanzia come sul letto di morte, negli ospedali come nelle feste popolari, per strada come nei salotti), avendo analizzato e classificato a migliaia i fenomeni dell’espressività umana, trovò la sistematizzazione ideale di tutto il materiale raccolto e la risposta definitiva alla sua domanda di fondo nella formulazione della legge trinitaria e nella sua applicazione estetica[6].

 

Il principio regolatore di ogni cosa e dell’uomo in particolare è la trinità. L’uomo partecipa della triplice natura divina attraverso le sue tre componenti costitutive: vita, anima, spirito, che presiedono rispettivamente al suo stato sensibile (sensazioni), morale (sentimenti), intellettuale (pensiero). A ognuno di questi tre stati interiori corrisponde una modalità espressiva esteriore, a essi indissolubilmente interrelata: la voce per le sensazioni (vita), il gesto per i sentimenti (anima), la parola per il pensiero (spirito)[7]. Non può dunque esistere «verità» nell’espressione umana,
se la manifestazione, il moto espressivo esteriore, non corrisponde a un rispettivo impulso o moto interiore (e viceversa). Ogni intonazione, gesto o parola che non ottemperi a questa fondamentale legge di corrispondenza sarà pertanto falsa, affettata o convenzionale.

 

E, venendo all’estetica, poiché per Delsarte l’uomo è l’oggetto dell’arte, compito dell’arte deve essere la rivelazione e la celebrazione del riflesso divino nell’uomo ipostatizzato nella sua natura trinitaria, in una prospettiva che tende a identificare il bello (attributo massimo della vita) con la manifestazione del vero (spirito) illuminato dal buono (anima). Ogni forma d’arte nella propria ricerca estetica non dovrà dunque prescindere dalla conoscenza della legge generale e potrà far uso specifico della
vera e propria scienza dell’espressione che ne deriva, attuando così un processo che Delsarte definisce di estetica applicata[8]. Particolare vantaggio trarranno da questa applicazione le arti di cui l’uomo, attraverso l’uso dei suoi tre linguaggi espressivi, è agente diretto: la recitazione, il canto, l’oratoria, oggetti precipui di insegnamento nello studio del maestro.

 

L’intera, complessa scienza dell’espressione elaborata da Delsarte è governata da un unico principio ordinatore (criterium) universale, immediatamente derivato dai precedenti postulati, che permette l’analisi a prova d’errore di ogni fenomeno espressivo percettibile.

 

Data la compresenza e l’interazione nell’uomo delle sue tre nature e degli stati da esse determinati, anche i linguaggi espressivi, oltre a essere collegati tra loro, saranno costantemente improntati dal triplice influsso dei tre stati di cui sono emanazione diretta. Delsarte definisce pertanto il genere di ogni espressione di derivazione vitale come eccentrico (rivolto all’esterno), di derivazione animica come normale (in equilibrio tra esterno e interno), di derivazione spirituale come concentrico (diretto all’interno), precisando inoltre la sua specie, ossia il tipo di influenza che su di essa esercitano gli altri stati compresenti. Il criterium generale si configura così come una tabella di nove caselle derivate dall’incrocio dei tre generi con le tre specie e secondo la quale ogni moto umano è definibile. Proseguendo nelle specificazioni (e nelle moltiplicazioni per tre) si può giungere con Delsarte a definizioni sempre più dettagliate e minute, fino 
a una tabella di 729 elementi attraverso la quale l’espressione sarà definita non solo per genere e specie, ma anche per varietà, sottovarietà, tipo e fenomeno.

 

Poiché comprendere il criterium esposto in maniera tanto sintetica e astratta risulta ostico e certo poco funzionale, conviene cercarne una più comprensibile applicazione nello studio del gesto, la parte più approfondita e originale della ricerca di Delsarte[9].

 

Agente diretto dell’anima, dei sentimenti, delle facoltà morali dell’uomo, di 
tale pregnanza espressiva da poter agire senza l’ausilio della voce e della parola che invece da lui acquistano definizione, il gesto è per Delsarte al vertice della gerarchia dei linguaggi espressivi. La sua analisi del movimento espressivo dell’uomo, dagli atteggiamenti del corpo intero alle più minute variazioni fisiognomiche, raggiunge finezze funamboliche e affronta problematiche la cui fertilità si è pienamente rivelata in seguito, ma che erano ai suoi tempi quasi totalmente inesplorate. Se infatti, da un lato, la ricerca si innesta sul filone di origine illuminista degli studi sull’espressione delle passioni (di cui J. J. Engel è il portabandiera con il suo Ideen zu einer Mimik)[10], sulla fisiognomica e la chironomia, che avevano già dato luogo a successive applicazioni in campo prettamente teatrale con la compilazione di manuali di
«pose sceniche» per l’attore[11], si arricchisce dall’altro, oltre che dell’esperienza romantica, di accenti positivisti e di moduli antropologici, anticipando di una ventina d’anni, pur nella sua particolare accezione e applicazione estetica, studi scientifici e psicologici di fine secolo della portata di quelli di Darwin, Piderit, Mantegazza[12].

 

Delsarte studia il gesto secondo tre linee di ricerca: la statica (le leggi che regolano gli equilibri del corpo), la dinamica (le leggi del movimento connesso ai relativi impulsi interiori), la semeiotica (le leggi che regolano la connessione tra la forma del movimento e il suo significato). Ogni gesto risulta così analizzabile sia nei necessari rapporti di equilibrio ed equiponderazione tra gli agenti fisici in esso implicati, sia nelle sue modalità dinamiche di ritmo, inflessione e armonia, sia nella sua qualità segnica che lo configura elemento di un codice di linguaggio.

 

Un esempio concreto: se esaminiamo una persona che piega il capo dalla parte del suo interlocutore, la statica ci permetterà di considerare le spinte in atto e il bilanciamento tra testa e spalle in rapporto alle posizioni degli arti e del torso. La dinamica – in stretto accordo con il criterium generale – ci consentirà a prima vista di attribuire al gesto il genere concentrico (poiché rivolto verso l’oggetto e dunque di derivazione spirituale) e, se il mento ci appare diritto e non abbassato o alzato, la specie normale (che denota equilibrio interiore e derivazione animica). Potremo poi proseguire nelle specificazioni prendendo in esame le inflessioni particolari aggiunte al gesto dalla posizione di occhi, palpebre e sopracciglia, labbra, naso, eccetera, fino ad aver definito l’intera espressione nelle sue minime particolarità di connessione agli stati interiori. Al termine di questa indagine saremo in grado
di valutare le qualità di velocità, ritmo e armonia con i contemporanei moti di altri agenti del corpo, del gesto in esame. Infine l’approccio semeiotico, tenendo conto
dei due precedenti e del disegno curvilineo del movimento, ci dirà che il gesto in sé significa tenerezza, purché l’esame dell’intera fisionomia, della posizione delle spalle
e degli arti non portino per approfondimenti successivi a concludere, ad esempio, che l’apparente tenerezza altro non è che infida simulazione generata da un profondo odio.

 

L’intero, ramificato sistema di Delsarte, di cui questi pochi e schematici 
accenni forniscono purtroppo soltanto una pallida e assai parziale immagine, ci appare in effetti una macchina implacabile, un insieme definitorio e totalizzante
 di enunciazioni di leggi, di compendi schematici sempre più complessi, di grafici vagamente simili agli studi di un coreografo, di tavole illustrate (da cui nove
paia di occhi ci guardano con vario cipiglio, nove bocche si torcono, nove mani si contraggono, nove paia di gambe saggiano il terreno, eccetera), che con l’arte pare avere assai poco a che fare. Eppure nell’atelier del maestro la scienza dell’espressione trovava applicazione pratica in campo pedagogico ed estetico.

 

Le lezioni, seguite quotidianamente da una ventina di persone, erano costantemente divise in due parti: nella prima, teorica, Delsarte illustrava qualche principio generale o criterio particolare della sua teoria estetica, che poi, nella seconda, veniva applicato praticamente negli esempi di recitazione e canto forniti da lui stesso e negli esercizi sullo stesso tema degli allievi, analizzati e corretti pubblicamente con la massima attenzione. Il primo stadio dell’apprendimento, transitorio, si fondava necessariamente sull’imitazione. Nei primi tempi infatti, dopo l’illustrazione del tema del giorno con il sussidio della lavagna e di tavole illustrate (poteva trattarsi dell’accentuazione della parola chiave in una frase come delle undici diverse aperture dell’angolo braccio-spalla nell’affermazione come dell’influsso dello stato animico sulla emissione delle vocali), allorché il maestro proponeva esempi di sua scelta, l’allievo non poteva che ripeterli o proporne di simili adeguandosi per semplice imitazione alle intonazioni e ai gesti osservati. Questo livello, tollerato da Delsarte
 che tendeva però al suo sollecito superamento, rimaneva per molti l’unico; chi frequentava lo studio di passaggio, spinto dalla curiosità o convinto di aver già tutto compreso dopo poche lezioni, poteva in questo modo ricevere soltanto qualche stimolo a prendere maggiore coscienza del proprio corpo, dei propri mezzi espressivi e della possibilità di usarli più consapevolmente. Ma per l’allievo deciso e fedele la via per superare questo primo stadio insidioso passava attraverso un duro periodo di studio caparbio e di esercizio costante di tutto se stesso in rapporto alle nozioni acquisite. La teoria doveva incarnarsi in comportamento sperimentandola su se stessi, imparando a conoscere e a dominare a poco a poco, con lunghe ore quotidiane di esercizio, le innumerevoli forme grammaticali e sintattiche dei linguaggi espressivi del corpo e l’infinita gamma di emozioni interiori che a essi trasfondevano significato. Si trattava cioè di innescare e portare a felice compimento innanzitutto un faticoso processo di autoconoscenza e autopedagogia che, solo, avrebbe permesso in seguito l’uso estetico della propria matura esperienza, il trasmutare delsartiano della scienza in arte.

 

Una serie di esercizi adeguati aiutava l’allievo a prendere coscienza, dapprima separatamente, delle leggi della voce, del movimento, della parola; per il gesto
in particolare Delsarte proponeva esercizi sull’equilibrio, sull’opposizione e il parallelismo degli agenti, sul rapporto espressivo tra le varie parti del corpo, eccetera, e si serviva molto spesso anche dell’improvvisazione con la creazione di brevi e vivaci pantomime su tema dato, attraverso cui esercitare su tutte le gamme il rapporto sentimento-espressione. Si passava poi all’unione della voce con la parola e il gesto, recitando di preferenza favole di La Fontaine o brani del repertorio drammatico e melodrammatico contemporaneo. L’insegnamento poteva dirsi terminato quando l’allievo possedeva, se non la completa padronanza di sé, almeno tutti gli strumenti necessari a raggiungerla[13].

 

Chi attraversava appieno l’esperienza dello studio, che si proponeva in termini pedagogici come luogo di rivelazione e formazione dell’«umanità» della persona
nel senso più globale della parola, più che in termini didattici come scuola di addestramento al mestiere, ne usciva, e di ciò fanno fede molte testimonianze, conquistato e mutato nell’animo. Ma come e quanto formato e migliorato nella sua professione di attore non sappiamo con certezza: su questo i testimoni sono più vaghi. Da quanto si conosce è possibile solo affermare che l’attore di formazione delsartiana era certo poco disposto ad assoggettarsi alla convenzione retorica del teatro contemporaneo delle pose sceniche e della voce stentorea e adottava una recitazione più ricca di sfumature psicologiche, più attenta alla verità che alla verisimiglianza, più naturalista in fondo (tanto da attirarsi sovente l’ostracismo della Comédie, roccaforte della tradizione francese). Risultato interessante, ma non talmente eccezionale né
di tale risonanza da giustificare l’enorme popolarità americana di ieri e il nostro rinnovato interesse di oggi per Delsarte.

 

In realtà ciò che di Delsarte ha fruttificato, in maniera talvolta anomala ed estranea ai tempi e alle idee del maestro, ma perfettamente adeguata ai nuovi terreni di trapianto, è da cercarsi non tanto nella poderosa scienza dell’espressione con il suo complesso di leggi e il suo severo metodo applicativo, quanto in alcune straordinarie intuizioni di fondo, in alcuni atteggiamenti della ricerca (soprattutto nel campo del movimento) tanto intrinsecamente vitali da prestarsi ad applicazioni diverse. Ossia, 
e coerentemente se si vuole, più nelle valenze pedagogiche generali, che in quelle didattiche particolari. Il fatto che Delsarte non abbia lasciato quasi nulla di scritto
– solo pochi appunti sparsi, i primi capitoli autobiografici di un libro mai terminato
 e, a stampa, il testo di una conferenza che enuncia i fondamenti filosofici della sua teoria sull’estetica applicata e una tavola sinottica del compendio generale della teoria trinitaria – ha certamente contribuito al riciclaggio dei dati. Steele MacKaye, l’eclettico attore americano allievo ed erede spirituale del maestro, responsabile del “lancio” negli Stati Uniti, diffuse la propria versione di Delsarte con una interminabile serie di conferenze e contribuì alla pubblicazione in lingua inglese degli scritti di alcuni allievi francesi, ricavati da appunti personali[14].  La diversità delle versioni, che rispecchiava le differenze culturali e la divergenza di interessi degli estensori, conservava ai materiali ambiguità sufficiente ad aumentarne le possibilità di interpretazione e d’uso.

 

Mentre infatti seguaci entusiasti e zelanti quanto privi di fantasia traevano dalla lettura di Delsarte improbabili manuali di gestualità e inverosimili pantomime per giovinette, viste più acute o almeno diversamente orientate ne assorbivano lo spirito per farne uno strumento al servizio di esigenze personali. La decisa dichiarazione di parità gerarchica e complementarità funzionale del corpo nei confronti dello spirito, sostenuta con autorità anche scientifica, l’affermazione di una necessaria motivazione interiore dell’espressione, la definizione di leggi del movimento aderenti, anche in campo estetico, a quelle dettate dalla natura, si dimostrarono le vere e fondamentali rivelazioni della dottrina di Delsarte. Gli americani le accolsero entusiasticamente come una possibile risposta al proprio bisogno di liberazione dal puritanesimo e dalle convenzioni comportamentali ed estetiche di origine europea.

 

Il contributo del delsartismo alla trasformazione del gusto in America nell’ultimo ventennio dell’Ottocento fu decisivo e dette frutti di lunga durata; i più immediatamente tangibili nel campo della ginnastica formativa e della danza, discipline a cui Delsarte (vissuto forse troppo presto per immaginare la prima e che probabilmente considerava la seconda riduttiva e persino immorale) non aveva mai neppure pensato. La “ginnastica armonica” che MacKaye aveva elaborato, sui principi del maestro, per la formazione degli attori, suscitò vivissimo interesse negli educatori, soprattutto in campo femminile. Rielaborata e sperimentata al mitico centro estivo di Chautauqua[15] nel 1890, ben presto la ginnastica femminile ‘alla Delsarte’ fu introdotta trionfalmente nei college instaurando un moderno ed efficace principio di collegamento dell’educazione fisica a quella intellettuale e contribuendo all’emancipazione della donna americana.

 

In ambito teatrale, al di là della spinta libertaria e innovativa che impresse alla recitazione drammatica, il delsartismo rese possibile un totale cambiamento
 di prospettiva in fatto di arte del movimento[16]. Ne nacque la rivolta alla convenzionalità dell’accademismo, all’innaturalità dei movimenti e all’assenza di motivazione interiore della danza classica; la rivalutazione ideologica e pratica della danza popolare, primitiva e religiosa; il rifiuto del gesto puramente decorativo o rappresentativo a favore di un gesto che fosse espressione degli impulsi individuali e sociali che agitano l’animo umano. Figure di transizione ma dall’influsso decisivo, come Isadora Duncan e Ruth Saint-Denis, nate negli anni Ottanta, fornirono i primi esempi di uso personalissimo (e non ancora del tutto conscio) degli insegnamenti di Delsarte; più consapevole, Ted Shawn (1891-1972) attuò nel primo Novecento una vera e propria applicazione del «sistema» alla danza, nel più totale rispetto/tradimento delle norme di «estetica applicata» del maestro[17]. Dalla rivolta pionieristica di pochi, che 
trovò un terreno convenientemente dissodato nel gusto di molti, prese vita la danza moderna, primo contributo realmente rivoluzionario dell’America all’espressione teatrale.

 

In Europa gli allievi degli allievi lavorarono più sommessamente in direzioni in gran parte analoghe[18], mettendo alla prova la vitalità degli stessi principi all’interno di una cultura teatrale di ben più antica e radicata tradizione. Negli anni Dieci/Venti, Rudolf vov Laban, proseguendo la ricerca sui linguaggi espressivi, finì per teorizzare e privilegiare la danza libera non solo come movimento espressivo per eccellenza, ma anche come forma di espressione immediata e totale delle radici più autenticamente comunitarie dell’uomo.[19]La sua pupilla Mary Wigman sviluppò la danza libera in senso espressionista, caricandola delle tensioni di una rivolta individuale e generazionale, e trasmise la propria esperienza agli attori tedeschi. Nelle scuole per l’attore poi, Delsarte fu spesso presente nella pratica e nello spirito proprio là dove l’impegno pedagogico era più vivo, dove la ricerca prevaleva e la tradizione era usata in senso evolutivo e non conservativo: dagli atelier di Copeau e Dullin fino al Teatr Laboratorium di Grotowski, che lo utilizzò nel training dell’attore.

 

Ma, al di
là dei momenti specifici, Delsarte è stato nell’‘aria’ che il teatro del Novecento ha respirato per vivere e trasformarsi e ha circolato segretamente nelle sue vene. A lui il teatro «di espressione», quel teatro che rifiuta le norme istituzionali della “rappresentazione” e deriva le proprie modalità e convenzioni estetiche dall’attore e dalle sue esigenze espressive, può guardare come un antico, inconsapevole ascendente[20] .

 

 

[1] Warman Edward Barrett, How to be an absolutely amashing public speaker, without saying anything, American Heritage Press, New York 1970.

 

[2] Warman Edward Barrett, An exposition of the Delsarte philosophy of expression, Lee & Shepard, Boston 1892.

 

[3] Di tali manuali il più organico, oltre che il più noto e diffuso (conobbe sei edizioni, l’ultima delle quali nel 1902, ed è stato recentemente riedito in copia anastatica), è il già citato Genevieve Stebbins, Delsarte System of Expression, New York, Edgard S. Werner, 1885 (New York, Dance Horizons, 1977). Per una bibliografia ragionata accurata, pur se non esaustiva, della divulgazione americana di Delsarte si veda Ted Shawn, Every little movement. A Book about Delsarte, New York, Dance Horizons, 1974 (copia anastatica della seconda edizione del 1963; prima ed. 1954).

[4] Una curiosità significativa: ancora nel 1910 questo atteggiamento ottusamente pedissequo nei confronti della dottrina delsartiana veniva messo alla berlina da una canzone di successo della commedia musicale Madame Sherry dal titolo Every little movement (Ogni piccolo movimento ha un significato tutto suo, ogni pensiero e sentimento può essere mostrato con qualche gesto...); di qui Shawn trasse il titolo del suo libro.

[5] Le fonti più ricche di notizie sulla personalità e i modi d’insegnamento di Delsarte sono Angélique Arnaud, François Del Sarte, ses découvertes en esthétique, sa science, sa méthode, Paris, Delagrave, 1882 e Percy MacKaye, Epoch: the life of Steele MacKaye, New York, Boni & Liveright, 1927.

[6] È interessante notare come il pensiero di Delsarte, che non intrattenne scambi sistematici con studiosi dei suoi giorni e preferì sempre elaborare in solitudine le proprie idee, interagisse in realtà con
i fermenti che circolavano nella cultura parigina ed europea; sarebbe scorretto introdurre confronti, ma può essere significativo cogliere alcune compresenze in ambiti diversi. Nel 1840 De l’humanité, de son principe
et de son avenir di Pierre Leroux imposta una ontologia assai vicina al concetto trinitario; nel 1853 Honoré de Balzac pubblica la sua Théorie de
la démarche, studio tra il serio e il faceto di fisiologia della camminata e degli atteggiamenti umani; nel 1858 Victor Cousin in Du vrai, du beau et du bien, applica alla critica d’arte teorie analoghe all’estetica di Delsarte. E ancora, in senso più lato, la pedagogia si rinnova sulle tracce di Pestalozzi, Herbart e Fröbel; naturalisti e fisiologi cominciano a dedicarsi a studi sulla mimica e il movimento di uomini e animali; in letteratura 
e nel gusto estetico il romanticismo più tardo convive con il nascente naturalismo; l’antropologia conquista dignità scientifica e la psicologia consolida le sue basi.

[7] Cfr. François Delsarte, Système de François Delsarte. Compendium, tavola sinottica a stampa, snt, Bibliothèque Nationale, Parigi.

[8] Cfr. F. Delsarte, Esthétique appliquée, in Conferences de l’Association Philotechnique, anné 1856, pp. 89-139 e il già citato volume della Arnaud.

[9] In generale sull’intero sistema di Delsarte, si veda Delaumosne (Abbé), Pratique de l’art oratoire de Delsarte, Paris, J. Albanel, 1874 e in particolare sullo studio del gesto l’accuratissimo Alfred Giraudet, Mimique, phisionomie et gestes. Méthode pratique d’après de système de F. Del Sarte, Paris, Librairies-Imprimeries Réunies, 1895, da cui sono tratte le tavole qui pubblicate; ambedue i testi sono trascrizioni di allievi delle lezioni di Delsarte.

[10] Johann Jacob Engel, Ideen zu einer Mimik, Berlin, 1885-6 (Lettere intorno alla mimica, trad. it. di G. Rasori, Milano, presso Giovanni Pirrotta, 1818).

[11]Si pensi in proposito agli studi di Talma per la Francia e di Morrochesi per l’Italia.

[12] Tra gli studi più noti quelli su La mimica e la fisionomia di Piderit, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali di Darwin e La fisionomia e l’espressione dei sentimenti di Mantegazza, che ebbero diffusione europea negli anni Ottanta-Novanta.

 

[13] Nella diatriba ancora viva di origine diderottiana su attore «freddo» o «caldo», sensibile o no, Delsarte si inseriva con una personale interpretazione della sensibilità, che identificava con la perfetta conoscenza della scienza dell’espressione, ossia la capacità di intuire l’esatta misura dei collegamenti tra moti interiori ed espressione. Nell’applicazione artistica, al calore di questa perfetta adesione della persona al flusso emotivo-espressivo doveva fare costante riscontro l’incessante sorveglianza dell’intelletto, che permetteva una più fredda presenza a se stessi.

[14] L’edizione più completa e di maggiore diffusione di scritti francesi di e su Delsarte in traduzione inglese vide la luce nel 1893 su iniziativa dell’editore newyorkese Edgard S. Werner con il titolo Delsarte system of oratory. Raccoglieva le opere di Delaumosne e Arnaud, gli scritti inediti di Delsarte, i testi delle lezioni tenute in America dalla figlia di lui, Marie Geraldy, e articoli apparsi su giornali francesi. Su Steele MacKaye e il suo apostolato delsartista si veda la già citata biografia scritta per mano del figlio (Epoch, cit.).

 

[15] La scuola estiva di educazione fisica di Chautauqua (Brooklyn) fu per anni all’avanguardia nella sperimentazione di nuove tecniche di ginnastica formativa. A questo proposito si veda Emily Bishop, Self- expression and health. Americanized Delsarte culture, Chautauqua, 1895.

[16] Ciò fa sì che Delsarte, costantemente ignorato nelle storie del teatro, sia invece comunemente citato in quelle della danza. Particolarmente interessante l’interpretazione che del suo influsso sulla danza offre il filosofo Roger Garaudy nel suo Danzare la vita, Cittadella, Assisi 1973.

[17] Cfr. Ted Shawn, Every little movement, cit. Il volume, edito negli anni Cinquanta, mette a frutto l’esperienza raccolta in quarant’anni di insegnamento e pratica della danza nelle scuole Denishawn e Jacob Pillow, fucine di alcune generazioni di danzatori americani.

[18] Anche in Germania nacque un metodo di ginnastica femminile su basi delsartiane che conobbe una discreta affermazione, ma che finì per confluire nel movimento di cultura fisica propugnato dal nazismo.

 

[19] Il testo di von Laban che maggiormente risente dell’influsso di Delsarte e ne sviluppa in senso originale i temi è: Die Welt des Tanzers, Seifert, Stuttgart 1920.

 

[20],Non si conoscono studi recenti di qualche rilievo su Delsarte ad eccezione del saggio di E. T. Kirby, The Delsarte method: 3 Frontiers of Actor training, in “The Drama Review”, n. 53, 1972, pp. 55-69, un approccio tecnico alla ritmica, la cinesica e la semiotica del gesto in D.Nel 1968, allo scopo di stimolare l’interesse degli studenti di Performing Arts 8e rinnovare il fiorire di tesi di laurea originato negli anni Quaranta dalla donazione dell’erchivio Delsarte al Departement of Speech di Baton Rouge in Louisuana) Jhon W. Zorn ha curato la pubblicazione di una scelta di scritti autografi del maestro e di alcuni suoi allievi (The essential Delsarte, Scarocrow Press, Metuchen 1968).

L’archivio Delsarte portato in America da Steele MacKaye fu donato negli anni Quaranta al Department of Speech dell’Università di Baton Rouge in Louisiana, dove diede subito luogo a un fiorire di tesi di laurea sull’argomento. Dopo anni di silenzio, nel 1968 uno studioso attento, John W. Zorn ha curato la riedizione degli scritti autografi del maestro e di un’ampia scelta di quelli dei suoi allievi (The essential Delsarte, a cura di J. W. Zorn, Metuchen, Scarocrow Press, 1968); il contributo, esplicitamente dedicato agli studenti di performing arts (di cui Zorn è insegnante) ha risvegliato anche l’interesse di alcuni studiosi. Negli anni successivi, oltre alla ristampa del libro della Stebbins, lo studio americano di maggior rilievo su Delsarte può essere considerato il saggio di E. T. Kirby, The Delsarte Method: 3 frontiers of actor training, in «The Drama Review», n. 53, 1972, pp. 55-69, un approccio tecnico alla ritmica, la cinesica e
la semiotica del gesto. Assai più recentemente, in Germania, Claudia Heschke ha riproposto le rappresentazioni grafiche del «sistema Delsarte» tramandate dagli allievi all’interno di uno studio sulla scrittura del movimento (C. Heschke, Tanzschriften. Ihre Geschichte und Methode, Bad Reichenhall, Comes V., 1983).

 

Da “Quaderni di Teatro”, n. 23, 1984, pp. 7-17.

 

 

PER APPROFONDIRE: E. Randi e S: Brunetti (a cura di), “I movimenti dell’anima. François Delsarte fra teatro e danza”, Atti del Convegno, Edizioni di Pagina, Bari 2013.