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UNITÀ TEMATICA N. 9
LA DIFFERENZA DI GENERE

Autrice

Eugenia Casini Ropa

LOIE FULLER E ISADORA DUNCAN:
donne nuove per una danza nuova

Articolo pubblicato in : AA.VV., "Documenti. Danze di luce. Seminario 3",

Skira Editore, Milano 2003

 

Inviato il 11/12/2024

Figure di artiste che hanno rivoluzionato l'arte della danza nel primo Novecento evidenziando nuove potenzialità creative ed esistenziali della donna.




Eugenia Casini Ropa

 

Loïe Fuller e Isadora Duncan: donne nuove per una nuova danza

 

Il vasto rinnovamento di cultura e società che caratterizza in occidente il passaggio tra Otto e Novecento abbraccia anche la rifondazione su basi nuove della danza come arte, sottilmente ma intimamente connessa alla rivalutazione del ruolo femminile. Sono infatti figure isolate e singolari di donne che, nei decenni immediatamente precedenti alla più diffusa rivoluzione modernista, si evidenziano come perni dei primi moti di innovazione e di riscatto, tanto del mestiere screditato della danza teatrale, quanto della posizione sociale subalterna e passiva della donna. Come sementi anomale e vigorose, queste iniziatrici germogliano in America, terra giovane dalle potenzialità di sviluppo illimitate, per trapiantarsi in Europa, il vecchio mondo bisognoso di innesti eversivi per rigenerare le sue secolari tradizioni.    

Nell’atmosfera culturalmente e socialmente in fermento dell’epoca, s'intrecciano scoperte scientifiche e visioni filosofiche, utopie socio-politiche e ricerche artistiche, tutte impegnate nella definizione di un processo progressista che vede al centro un’illimitata fiducia in un Uomo Nuovo, rigenerato nelle sue potenzialità originarie, degno protagonista di una riforma epocale della vita in tutti i suoi ambiti. Negli Stati Uniti, la fede nell’evoluzionismo naturale e sociale alimenta la fiducia nel ruolo guida a livello planetario della fresca Nazione e della sua gente, mentre la maggiore presenza pubblica della donna e il suo addestramento ad una discreta decisionalità, dovuto alla dura esperienza del pionierismo, facilita lo sviluppo della questione femminile. Insieme alle riforme igieniche e dell’abbigliamento, alla rivendicazione del diritto allo studio e al lavoro professionale, anche l’accesso alle arti e all’espressione estetica divengono strumenti e mete dell’emancipazione femminile fine Ottocento. E poiché lo spettacolo rappresenta uno dei pochi ambiti ricercati, pur se socialmente e moralmente screditato, di emancipazione individuale della donna in quel periodo, e la danza è praticata come attività precipuamente femminile, proprio dalla danza teatrale sorgono alcune personalità e proposte innovatrici. È dall’interno e dall'ovest del paese, terre di frontiera e di donne decise, e dalla danza, espressione quasi interdetta al mondo maschile, che nascono infatti due protagoniste, Loïe Fuller (1862-1928) e Isadora Duncan (1877-1927), assai diverse per nascita, complessione fisica e attitudine artistica, ma di analoga audacia di pensiero e influenza sovvertitrice.

Cronologicamente prima delle singolari danzatrici americane, precorritrici della danza moderna, la Fuller inizia la sua vicenda teatrale negli spettacoli di burlesque dell’epoca. Affascinata dalle potenzialità magiche della nuovissima luce elettrica, inventa una danza, che chiama “serpentina”, fatta di amplissimi abiti di seta che, lanciati variamente in aria e colpiti da raggi di luce colorata, creano nel buio oniriche e metamorfiche figure di fiori, uccelli, farfalle, fiamme, e così via. Trasferitasi a Parigi, alle Folies Bergères, nel 1892, ne diventa regina e genera miriadi di imitatrici in tutto il mondo occidentale, a loro volta soggetto privilegiato, con le loro evoluzioni, del cinema delle origini. La sua danza impalpabile, dove il corpo si nasconde, facendosi puro motore dell’effetto illusionistico, affascina i simbolisti quanto i futuristi, che ammirano il suo uso sapiente e innovativo della nuova tecnologia illuminotecnica, e ispira l’Art Nouveau. E’ impresaria decisa per sé e per altre danzatrici, imprenditrice d’arte e film-maker. Con propensione all’omosessualità, nella vita privata è discreta e non tollera interferenze o scandali.

Sostanzialmente autodidatta nella danza e decisamente anticonformista nel comportamento, dopo aver mosso i primi passi in America ed essersi trasferita in Europa nel 1900, Isadora Duncan riesce ad influenzare il mondo artistico e l’opinione pubblica con la sua visione estetica e il suo atteggiamento provocatorio. Propugna e pratica l’amore libero e la maternità volontaria fuori dal matrimonio - legame che abborre - e compie liberamente le proprie scelte di vita come quelle ideologiche e professionali, pagandone spesso duramente di persona il prezzo. Crede nelle potenzialità rigeneratrici della Natura (letteralmente e metaforicamente intesa) per il recupero di una perduta bellezza fisica e morale della donna, da attuare fin dall’infanzia attraverso la pratica di una danza libera ed auto-espressiva, il cui modello estetico rintraccia nell’arte della Grecia classica. Su queste basi opera per la rivalutazione della danza da mero intrattenimento spettacolare o da artefatto virtuosismo ad Arte dell’espressione psicofisica femminile, adottando, in questo processo, strategie di distinzione adeguate alla temperie culturale della sua epoca. Esalta il corpo della donna, liberato negli indumenti, nei movimenti e nella sessualità, ponendolo al centro della propria visione della questione femminile, di cui non condivide tuttavia i risvolti più nettamente politici e suffragisti.

Entrambe, Fuller e Duncan, trasferiscono dall’America all’Europa le ricerche e le scoperte che vanno facendo nell’ambito di un’attività popolare e mercantile e, in un ambiente artisticamente più stimolante e ricettivo, le perfezionano e le impongono rendendole Arte e Cultura. Così facendo, costruiscono e propongono anche nuovi prototipi di Donna Nuova per una nuova società.

Entrambe studiano e lavorano intensamente e caparbiamente per creare la propria specificità artistica, pur nella difformità dei loro percorsi. Partendo dalla realtà della danza da vaudeville allora in auge - quella skirt-dance tutta saltelli e mossette e sventolare di gonne e di gambe tornite, unica ampiamente diffusa nel loro paese - la superano, per “sublimazione” l’una e per negazione l’altra.

La Fuller porta il genere alle estreme conseguenze, rendendolo irriconoscibile: decine e decine di metri di tessuti leggeri prendono il posto delle tradizionali gonne e la loro manipolazione si affina e si specializza fino a renderli, con l’aiuto di raggi luminosi sapientemente diretti, il materiale impalpabile per la creazione di figure mutevoli e inconsistenti e d'immagini oniriche, ma suggestivamente vive e presenti allo sguardo dello spettatore. La funzione della luce - la luce elettrica appena introdotta nei teatri - è essenziale in questa trasformazione, e la Fuller impara a gestirne l’uso con eccezionale abilità, inventando addirittura nuove apparecchiature e accessori e sperimentandone applicazioni d’avanguardia. Trasforma inoltre funzionalmente lo spazio scenico, ideando per prima il non-spazio della scatola nera, all’interno della quale sono le sue creazioni illusionistiche e simboliche a rielaborare la spazialità attraverso il movimento, mentre il suo corpo concreto di donna perde la propria fisicità organica per farsi motore semi-invisibile dell’evento dinamico. Esibendosi nei luoghi destinati alla danza d'intrattenimento (come le Folies Bergères a Parigi), li trasforma in culle di nuovi impulsi artistici. Il suo fine è sì lo spettacolo, che vuole sorprendente, d'insuperabile livello tecnico e d'infallibile efficacia visiva ma, nel creare un genere teatrale di larga popolarità e dilagante successo commerciale, crea e diffonde suggestioni estetiche che vanno ben oltre i luoghi e gli ambiti del suo agire scenico.

La Duncan rifiuta invece del tutto le forme di danza teatrale esistenti, skirt-dance e balletto, per costruire su basi che considera fondamentalmente alternative: il movimento “naturale” del corpo e le sue leggi connaturate di armonia, bellezza ed espressività. Col corpo libero, sciolto ed esposto in tuniche leggere alla greca, esegue danze semplici e solo apparentemente spontaneistiche fatte di camminate, corse, piccoli salti, fluttuazioni delle braccia e del torso. Nei suoi “concerti di danza” la presenza vitalistica del suo corpo di donna, veicolo di una vasta gamma d'emozioni e stati d’animo diretti o ispirati dai brani classici dei più grandi musicisti, che è solita ereticamente utilizzare, riempie lo spazio vuoto della scena, incorniciata solo da semplici tendaggi grigio-azzurri. Il suo fine è la diffusione di una nuova qualità culturale della danza come arte della creatività e dell’espressività individuale femminile, possibile fondamento pedagogico - come tendono a dimostrare le diverse scuole da lei successivamente fondate - per la formazione di generazioni future di donne, la cui armonia fisica e spirituale possa influire beneficamente sulla generale disarmonia della società a predominio maschile

Entrambe, per realizzare le proprie idee artistiche, sono costrette a lottare con un ambiente teatrale in cui le ballerine, generalmente d'estrazione popolare e bassa cultura e completamente gestite da impresari dispotici e di gusti facili, erano considerate poco più di gambe e sorrisi per il divertimento erotico-digestivo del pubblico maschile. Oltre che creatrici ed esecutrici uniche delle proprie opere, per la maggior parte solistiche, si fanno perciò produttrici, impresarie e promotrici di se stesse, svincolandosi dalle imposizioni del mercato e dalla discrezionalità altrui sul loro lavoro, e assumendo ruoli imprenditoriali e gestionali tradizionalmente maschili.

Entrambe, per elevare lo status culturale del proprio lavoro personale, oltre a quello della danza in generale, s'impegnano nella frequentazione di persone e ambienti qualificanti che migliorano le loro conoscenze e le innalzano nella scala dei valori: in particolare scienziati e artisti l’una (dai coniugi Curie a Dumas figlio a Rodin), principalmente artisti e intellettuali l’altra (da Craig e Stanislavskij ai tanti pittori e scultori a Esenin). Non solo, ma sollecitano anche la sensibilizzazione e la modificazione funzionale dell’ambiente in cui operano, con veri e propri interventi di promozione culturale allargata: l’una, ad esempio, con la costruzione di un proprio teatro all’Esposizione Universale di Parigi del 1900, l’impresariato di artiste e compagnie di teatro-danza orientali, giavanesi e giapponesi (e sarà anche la prima impresaria europea della stessa Isadora), l’organizzazione di una mostra di Rodin in America; l’altra, con i suoi numerosi interventi divulgativi orali e scritti e la fondazione di tre diverse scuole in tre diversi paesi (Germania, Francia e Russia sovietica).

Entrambe, con le loro incisive personalità - cui conferisce un potere al tempo stesso irritante e irretente sugli europei l’eredità tutta americana di un'incrollabile fiducia in se stesse - e la loro forza creativa innovatrice, influenzano profondamente la riflessione, il gusto e la produzione artistica del loro tempo. Basti pensare, per la Fuller, all’esaltazione poetica di Mallarmé, che vede in lei la metafora vivente dell’idea simbolista, al robusto apprezzamento del futurista Marinetti, conquistato dal suo uso avveniristico della tecnologia, all’influsso delle sue danze “serpentine” sui tanti artisti dell’Art Nouveau, che ne immortalano le volute nei più disparati materiali, e sul cinema delle origini, che ne fa un soggetto tra i preferiti delle prime pellicole; allo stesso modo, per la Duncan, si pensi ai tanti artisti figurativi che hanno insistentemente, e a volte quasi ossessivamente, schizzato, disegnato, dipinto o modellato le forme del suo corpo in movimento per carpirne le qualità plastiche, dinamiche ed espressive (da Rodin a Bourdelle a Clara a Witkowitz e tanti altri) o agli uomini di teatro, come Craig o Stanislavskij o la Duse, che hanno riconosciuto in lei l’incarnazione dell’essenza scenica e drammatica del teatro stesso.

Entrambe perseguono e raggiungono in tal modo, con le dovute differenziazioni, i fini personali di qualificazione estetica del proprio lavoro e quelli più generali di riconoscimento della danza come attività culturale e artistica. Contemporaneamente, e di conseguenza, ottengono di rivalutare culturalmente e artisticamente la figura della danzatrice attraverso la costruzione di una nuova, riconoscibile autonomia creativa e di una concreta competenza e professionalità, che si rivela nell’uso scientifico e tecnologico dei materiali e nell’efficacia delle invenzioni cinetiche e visive, per l’una, nella costruzione di un linguaggio corporeo espressivo, allo stesso tempo naturale e classico, per l’altra.

Ma, evidenziate le loro conquiste nel mondo dell’arte, altrettanto interessante appare la loro collocazione, come modelli pubblici ed esemplari, all’interno delle problematiche riguardanti la condizione della donna e la concezione del suo ruolo sociale.

Entrambe, si è visto, assumono e svolgono funzioni professionali, creative e manageriali, normalmente precluse alle donne e riescono ad imporre il prodotto del loro lavoro intellettuale e artistico nel mercato dello spettacolo e nel dibattito culturale, sfatando così i pregiudizi correnti in questo ambito. Altre suggestioni determinanti, tuttavia, derivano dai loro comportamenti pubblici e privati e dalle idee, apertamente espresse o veicolate dalle azioni, di cui si fanno portatrici.

Entrambe, pur non impegnandosi formalmente a livello politico nel movimento femminile, ma praticando autonomia di scelte e libertà di modi e costumi, mettono in discussione e tendono a sovvertire i principi e le convenzioni sociali e morali vigenti, sempre maggiormente costrittive quando si applicano alle donne. Anche in questo caso, però, come per le poetiche e le tecniche teatrali, pur parallele nelle finalità liberatorie, le loro visioni dell’emancipazione femminile ci appaiono diverse, e paiono quasi anticipare le correnti interne al futuro movimento femminista. Mentre la Fuller tende principalmente alla conquista per la donna delle prerogative maschili e si pone su un piano di concorrenzialità con l’uomo, la Duncan valorizza ed esalta soprattutto le peculiarità che ritiene proprie del genere femminile, proponendole come integrative e correttive del modello intellettuale e sociale maschile. Questo si rivela fin dalle strategie di qualificazione culturale di fondo già sottolineate, che fanno leva su visioni dialetticamente presenti in quegli anni, con straordinaria forza trainante, nel pensiero sociale della borghesia colta. L’una, infatti, si appoggia all’ideale progressista delle conquiste scientifiche e tecnologiche, l’altra a quello tardo-romantico del ritorno alla natura e dell’ellenismo.

Nell’ambito della sessualità e dei rapporti sentimentali, entrambe rivendicano piena libertà nelle scelte e nelle pratiche: l’una non occultamente omosessuale, l’altra impegnata in una lunga serie di relazioni e madre di tre figli di padri diversi, tutti nati fuori dal matrimonio. Il modello femminile che propongono ha il sapore dell'eccezione e dello scandalo, ma non per questo è meno efficace.

Entrambe fanno del proprio corpo di donna lo strumento della loro arte, ma l'uso che ne propongono è assai diverso. La Fuller, pur non preoccupandosi particolarmente di nasconderlo dietro gli ampi veli dei suoi costumi di scena, finisce con l'annullarlo nella percezione dello spettatore in favore delle immagini che genera. Il suo corpo è il motore dinamico di un evento artistico che lo travalica e lo cancella. E' strumento misterioso di una danza che sembra non appartenergli. La Duncan, invece, fa del suo corpo esposto e semiscoperto il soggetto/oggetto della creazione artistica, la materializzazione in carne e sangue degli impulsi emozionali che solo attraverso di esso possono venire espressi e comunicati. Il corpo dell'una, celato, si dissolve nel meraviglioso degli effetti luminosi e le fa acquistare un'aura magica, il fascino della fata o della strega; quello dell'altra, palesato, diffonde una vitalità intensa e primigenia, che oscilla tra la purezza inconscia della bambina e la veemenza estatica della menade. Fata, strega, bambina, menade: tutto il repertorio degli attributi della femminilità, usati pro e contro l'emancipazione della donna, sono presenti nella suggestione della loro danza. E tuttavia, per entrambe, ciò che sulla scena sembra perdere d'evidenza è il sesso, il richiamo sessuale e sensuale: in maniera evidente per l'una, in cui la sessualità viene metaforizzata nelle volute serpentine dei tessuti; in modo più sorprendentemente paradossale per l'altra, perché la tangibile e gloriosa carnalità del suo corpo si distanzia nell'aura classica e si sublima nella naturale genuinità dell'afflato lirico. Per l'arte e per la professione, questa è certamente una via per distinguersi dalla folla di bambolette sensuali e di lascive Salomè che popolavano gli spettacoli dell'epoca, e, per l'impatto sul pubblico e il riflesso sulla questione femminile, è la dimostrazione della potenza creatrice e trasformatrice della donna, capace di configurare visioni del mondo e ruoli sociali propri e innovativi, al di fuori e al di là della funzione meramente sessuale sempre e soltanto attribuitale.

Così, infrangendo gli stereotipi della cultura maschile e usando liberamente il proprio corpo e la propria mente sulla scena e fuori, entrambe hanno aperto la via a una nuova arte della danza e a una nuova arte della vita.

 

 

Riferimenti bibliografici essenziali:

 

L. Fuller, Fifteen years of a dancer's life, Small, Maynard & Company, Boston,

1913;

G. Lista, Loïe Fuller. Danseuse de la Belle Époque, Stock-Édition d'Art Somogy,

 Paris, 1994;

I. Duncan, Lettere dalla danza, La casa Usher, Firenze-Milano, 1980

I. Duncan, La mia vita, Poligono, Milano, 1948

A. Daly, Done into dance. Isadora Duncan in America, Indiana University Press,

Bloomington & Indianapolis, 1995

S. Banes, Dancing Women. Female bodies on stage, Routledge, London & New York, 1998

A. Koritz, Gendering bodies/Performing art, University of Michigan Press, Ann Arbor, 1995

S. Leigh Foster (a cura di), Corporealities. Dancing knowledge, culture and power,

Routledge, London & New York, 1996

E. Guzzo Vaccarino (a cura di), Documenti. Danze di luce. Seminario. Ediz. illustrata (vol.3), ‎ Skira, 2003.