Ci sono figure intorno a cui si addensa un alone mitico e leggendario tenace, che ne costituisce in gran parte il fascino, ma spesso impedisce di distinguerne con chiarezza la realtà e la portata storica. Isadora Duncan è certamente una di queste. La trasgressività e la tragicità della sua vita, i suoi piedi nudi e le tuniche alla greca sono stati e sono assai più familiari all'immaginario collettivo degli stessi cultori della danza che non i suoi principi tecnici e coreografici. Lei stessa ha ampiamente contribuito alla superfetazione mitica della propria immagine per i contemporanei e per i posteri, amplificandone in ogni occasione i tratti romantici con dichiarazioni esuberanti e presentandosi come prototipo al femminile dell'artista impastato di genio e sregolatezza. E in tal modo è vissuta a lungo nelle pagine spesso romanzate delle numerose biografie a forti tinte a lei dedicate, incerte tra il documento e il pettegolezzo, incapaci o disinteressate a leggere più in profondo le sue vicende umane e artistiche.
E del resto, è innegabile che la sua vita si presenti davvero come eccezionalmente accidentata, eccessiva nel bene e nel male, spreco generoso di energie vitali, fisiche e psichiche, per l'affermazione delle sue idee, della sua libertà creativa ed esistenziale. L'inestricabilità dell'intreccio di destino e volontà, di studio e intuizione, a bella posta alimentato in omaggio allo spirito dionisiaco della sua esistenza, ha fatto sì che ci venisse tramandata sotto il segno inafferrabile dell'istinto e dell'ispirazione, della personalità geniale ed irripetibile la cui arte segreta non può che finire con lei. L'esistenza effimera delle sue scuole, pur tanto intensamente volute e fondate, non ha fatto che confermare superficialmente l'idea di una assenza di elaborazione tecnica e di metodologia per la sopravvivenza e l'ulteriore sviluppo della sua danza.
"Profetessa", "visionaria", "pioniera", così è stata concordemente definita la Duncan fino ad oggi dai suoi esegeti, attuandone un inconscio allontanamento nel tempo e nello spazio a giustificazione e alibi di una fondamentale mancanza di conoscenza: il profeta è infatti oscuro per definizione; il visionario rasenta la follia; il pioniere dissoda in modo rudimentale terreni che altri, in futuro, faranno meglio fruttare. Solo molto recentemente, nell'ultimo ventennio, alle solite memorie dei conoscenti e alle fantasie degli affascinati hanno cominciato ad affiancarsi studi via via più accurati e rigorosi, aprendo nuovi spiragli interpretativi che negli anni Novanta hanno infine squarciato il velame della leggenda.
Individuando la documentazione dispersa e indiretta, esplorando la rete di relazioni che la Duncan e la sua opera intrattenevano con la società e la cultura del suo tempo, mettendo in uso grimaldelli sociologici, antropologici e filosofici, oltre ché propriamente estetici, gli studi più attuali -quasi esclusivamente di ambito statunitense, quelli editi- hanno riportato in buona parte alla luce una figura storicamente concreta, pienamente calata nel suo tempo e dunque finalmente atta ad entrare in rapporto dialettico, e non più mitologico, col nostro.
Le cause contingenti di questa rivisitazione non sono troppo difficili da individuare. In primo luogo, la scadenza del centenario della nascita e del cinquantenario della morte, nel 1977, ha offerto il destro alle eredi della sua tradizione, danzatrici duncaniane di terza e quarta generazione, di uscire con clamore alla luce negli Stati Uniti. Dunque, si è scoperto, una tradizione esisteva, tecnica e coreografie non erano frutto di improvvisazione, ma erano state fissate e tramandate, anche se in modo sommesso e separato rispetto alle rutilanze della danza spettacolo, e potevano essere ancora analizzate e apprese, e ancora potevano affascinare il pubblico e attrarre nuove proseliti.
Erano questi anche gli stessi anni del primo manifestarsi di una nuova critica e di una storiografia della danza che andava sviluppando problematiche e metodologie aggiornate di ricerca. Dal vecchio metodo agiografico e chiuso nella separatezza del genere, che aveva caratterizzato gli scarsi studiosi delle generazioni precedenti, si stava passando a una consapevolezza più allargata e acuta della storia, alla necessità di calare la danza, le sue opere e i suoi protagonisti nel proprio contesto epocale per radicarla come arte nelle culture del passato rivendicandola come cultura nel presente.
Questo movimento degli studi, che oggi è in piena fioritura, verso un recupero storico-critico rigoroso della danza, non nasce d'altronde senza motivo né è indotto soltanto dagli stimoli della nuova storiografia che già è stata applicata con successo agli studi teatrali. Forti motivazioni giungono proprio dal mondo della danza.
La danza del Novecento ha conosciuto uno sviluppo concitato, trascorrendo rapidamente da un'innovazione all'altra, da uno stile all'altro, da un rifiuto all'altro. Come per le altre arti, la parola d'ordine del secolo è stata la novità, il continuo superamento di modi e tecniche rapidamente usurati, sempre in bilico tra voluttà di contaminazione e anelito di purezza, così come tra virtuosismo e quotidianità. In questa corsa frenetica in avanti, che ha svalutato il concetto di "scuola" come luogo di apprendimento paziente e fedele considerandolo limitato e limitante, e ha alimentato un'idea di formazione frantumata e fagocitante, fatta di brevi approcci a molte tecniche diverse -e di tanti insegnanti e pochi maestri- ben poco tempo è rimasto per guardarsi alle spalle, per riflettere sul percorso compiuto e da compiere. Proprio in questi ultimi decenni, dopo esperienze di ogni genere -dalle eversioni post-moderne ai nuovi virtuosismi vitalistici, dalle variegate forme di teatro-danza allo sbocciare reiterato di "nuove danze" nazionali, dalle danze multimediali a quelle virtuali- che tuttavia sempre più spesso sembrano girare a vuoto dal punto di vista della pregnanza coreografica come di quella tematica, il tasso di disorientamento pare aver raggiunto un alto livello. Il bisogno di fermarsi e volgersi indietro, per generazioni con troppi padri mal conosciuti o con nessuno, si è fatto più consistente. Scoprire le proprie origini, cercare e mettere a fuoco il punto di partenza, permette di riconoscersi e definirsi dialetticamente nel momento presente, individuando e orientando così il percorso futuro. La danza contemporanea, alla nuova svolta di secolo, sta compiendo un nuovo "ritorno alle origini", cercando nuova linfa alle radici e compiendo verso i padri fondatori di inizio secolo lo stesso tragitto rivelativo di principi vitali che essi avevano compiuto verso fonti ideali come la "natura", l'antica Grecia o l'Oriente. E' sostanzialmente, a mio avviso, il riconoscersi, dopo un secolo che ha esaltato l'eresia continuata come valore artistico, parte di una tradizione: definire la propria storia per costruire il proprio avvenire.
In questo processo tuttora in atto, gli artisti rivisitano sempre più frequentemente le danze dei maestri del passato, non soltanto per una moda effettivamente diffusa del "rétro" o per assecondare propensioni commemorative del mercato, ma per confrontarsi e riconoscersi. E gli studiosi li affiancano elaborando materiali documentari e visioni critiche. Così, nel mondo della danza e della sua cultura, parte di un più vasto e generalizzato movimento artistico e culturale, in attesa di nuovi grandi maestri si interrogano le ombre corpose di quelli antichi.
E, alla radice, si ritrova la Duncan, la "divina Isadora" già frutto dell'immaginario collettivo della sua epoca, proiezione dei bisogni e dei desideri più o meno consapevoli di una società colta che anelava alla rigenerazione fisica e morale, all'autoaffermazione dell'individuo, alla rivalutazione della donna, alla libera espressione psicofisica. E, più o meno consapevolmente, si scopre che è ancora possibile, anche per noi, proiettare su di lei le nostre attuali domande e pulsioni. Proprio perché profetica e utopica nel dire e nell'agire, perché "non sistematica" nella sua eredità coreutica e pedagogica, ci permette di riplasmarla, storicamente e artisticamente, ricreandola alla luce delle nostre nuove conoscenze ma anche delle nostre necessità profonde.
L'apparente semplicità delle sue danze, così come ci vengono riproposte dalle sue eredi, ci affascina per la naturalezza dei modi, per l'evidenza essenziale dell'espressione, per la sensazione di spontanea leggerezza; eppure è impossibile non constatare l'esistenza di tecniche precise e perfettamente incorporate, la precisione architettonica del disegno coreografico, il rapporto emozionale e armonico ma non pedissequo con la musica, la distillazione sapiente e discreta dell'impulso emotivo, il messaggio limpido e universale che la mente riceve da ogni brano. Come non cercare confronti con tanta involuzione macchinosa del movimento, tanti eccessi energetici violentemente esibiti, tanto tecnicismo o, al contrario, tanta evidente carenza tecnica, tanta approssimazione coreografica, tante irrisolte copresenze musicali, tanta "autoespressione" che sfiora l'autismo, tanta oscurità tematica e drammaturgica che ha tormentato e tormenta molta danza dei nostri giorni? Se la sua generazione voleva vedere nella Duncan l'improvvisazione geniale, noi cerchiamo in lei il segreto dell'organicità del corpo danzante, la chiave di una "seconda natura" del movimento che armonizza con la prima ma la eleva ad un livello superiore di evidenza, il mistero di una comunicazione limpida ma non banale del pensiero e dell'emozione sostanziati in danza.
E ancora ci può dire molte cose la volontà della Duncan che la sua danza fosse più uno stile di vita che un metodo coreutico. Le sue scuole accoglievano bambine da far crescere in un ambito pedagogico improntato allo svelamento della bellezza universale e alla libertà espressiva, non da addestrare con formule didattiche; erano scuole di vita più che di danza, per formare donne armoniose e felici e non professioniste. (E qui sta la causa reale delle loro difficoltà di sopravvivenza: nelle difficoltà gestionali, logistiche ed economiche, che queste scuole-convitto imponevano per la loro gratuità, non nella mancanza di "metodo"). Ancora oggi le danzatrici Duncan iniziano dall'infanzia il loro percorso formativo e solo dopo la recente riscoperta danzatrici adulte si sono avvicinate per arricchimento personale a queste scuole e alle loro tecniche. Che problemi e risposte suggerisce oggi questa visione pedagogica alla nostra ricerca sulla vocazione formativa della danza, all'uso della danza nell'educazione, alla richiesta generalizzata e scomposta di danza di ogni tipo e genere proveniente dal sociale, ai modi e alle tecniche dell'addestramento professionale, all'apprendimento "mordi e fuggi" degli stages e dei workshops?
Alla "grande Madre" Isadora, restituita a una dimensione storica che la trasferisce dal puro mito ad una sorta di epicità brechtiana, si rivolgono oggi, in fondo, le stesse domande estetiche ed etiche, attualizzate, che lei stessa, allora, rivolgeva con assai meno strumenti e assai più fede alla Grecia antica, ai capolavori d'arte del passato, alla "natura" come sede della perfetta armonia. Domande sui dilemmi dialettici che ancora, pur se diversamente, ci assillano: su natura e arte, su spontaneità e tecnica, su libertà e rigore, su emozione ed espressione, su individualismo e coralità, su tradizione e rivoluzione, e così via. Qui risiede il nuovo - e immagino indefinitamente rinnovabile- fascino di Isadora Duncan: nell'aver proposto una visione così semplicemente totalizzante della danza, da svelare e nascondere i suoi segreti più riposti. Come l'antico oracolo, Isadora può ancora rivelare la verità, ma solo a chi ha orecchie e cuore per interpretarla e intenderla.