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UNITÀ TEMATICA N. 38
IL SENSO DEL TEATRO

Autore

Eugenio Barba

SUL SENSO DEL TEATRO

   Un paese chiamato esilio
   Un granello di sabbia
   La danza del Grande e del Piccolo
   La terza sponda del fiume

Collage di brani scelti da Eugenia Casini Ropa dai volumi dell'autore Eugenio Barba: "Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta." Ubulibri, Milano, 1985 " e "Prediche dal giardino, L’arboreto, Mondaino 2010.

 

Inviato il 24/06/2024

da Eugenia Casini Ropa




Un paese chiamato esilio

Questi tempi non li riconosco come miei. Voglio e posso godere il vento di un altro modo di vivere il tempo. Forse è un’illusione, ma il paese in cui abito me lo permette. Spesso mi sono chiesto se il mio paese possa essere raccontato come esempio o se, invece, sia solo un’eccezione. Eccezione fa pensare a qualcosa di eccezionale. Me è una parola amara, perché so che l’eccezione, alla fin fine, conferma la regola a cui si oppone.

Per sfuggire alla retorica e all’amarezza, mi dico: il mio paese può essere definito un volontario esilio. Il paese in cui abito è il teatro. Ma anche intorno a questa parola bisogna intendersi.

Vi sono teatri che rimangono in piedi come case, sopravvivono ai loro abitanti e mantengono una propria identità passando di mano in mano.

Vi è poi un’altra identità del teatro, che non si cura di pietre e mattoni. E’ il teatro la cui architettura consiste solo di relazioni fra le persone che li compongono (….) Sono teatri che consistono nell’intreccio dei sentieri che aprono i suoi abitanti. Quando questi smettono di avanzare, anche il loro teatro perde il suo riconoscibile profilo, la sua casa.

Abito in un paese di questo tipo. E piccolissimo. E’ vasto. Siamo in tanti, sparsi su diversi continenti, lontani, profondamente diversi, stretti da legami solidi, elastici e fragili, come i fili di una tela di ragno. A volte siamo in pochi, tre, quattro, quindici persone. A volte spendiamo tempo, lavoro e denaro, e allora per due giorni, una settimana, un mese ci raduniamo. Poi torniamo a separarci e ognuno torna alla non isolata solitudine che lo  definisce.

Il mio paese ha uno spazio paradossale. Vivere l’esilio come una patria è infatti una contraddizione in vita. E’ un triste segno dei tempi il fatto che questo tipo di esilio possa assomigliare all’utopia.

 

Da: Eugenio Barba, Prediche dal giardino, L’arboreto, Mondaino 2010

 

 

Un granello di sabbia

Il concetto di utopia è strettamente connesso a quello di isola. L’isola non è isolata, sta a sé nel mare, che è il mezzo di comunicazione per eccellenza. L’isola è connessa al mondo circostante, è distante, ma non distaccata.

Ricordiamo i grandi racconti che ci giungono dal passato, i miti dei Giardini. Ogni giardino sereno ha la sua insidia, c’è sempre il veleno di un serpente che si nasconde nell’erba del Paradiso.

Quale serpente si nasconde nell’isola di libertà del teatro?

Quando cominciamo, il nostro sogno più grande è di poter approdare alla terra del mestiere, coltivarne gli alberi della Conoscenza, incontrare in una lotta-abbraccio i suoi spiriti familiari e gli spiriti che la invadono dagli angoli remoti della terra.

Quando cominciamo, teniamo una fiamma tra le mani per illuminare una voce lontana: la nostra vocazione. Con gli anni, le nostre mani stringono cenere, e tutta la nostra energia e il nostro sapere sono tesi nello sforzo di mantenere in vita la poca brace che ancora arde.

Non siamo sbarcati sull’isola della libertà, siamo inghiottiti nelle viscere del mostro. Il teatro è un mostro che soffoca subdolamente la nostra necessità originaria con la consuetudine, la ripetitività, gli alibi e la grigia fatica. Il teatro diventa semplicemente una dimestichezza con un mestiere che ha perso la sua magia, il suo ethos, i suoi ideali. All’ora di cena ci sediamo a tavola. All’ora di andare a letto, sbadigliamo. Vediamo un albero, e raccogliamo la sua frutta. Il teatro sopravvive e ci fa sopravvivere avvolti in un sano fatalismo di indifferenza e tiepidezza.

Solo la rivolta ci può proteggere, una rivolta contro noi stessi, contro le nostre tentazioni, i nostri piccoli cedimenti e compromessi, contro l’impulso naturale a scegliere le soluzioni conosciute e seguire il cammino meno arduo. Quel che trasforma il mostro in un’isola di libertà è la via del rifiuto, del lavoro anonimo e incorruttibile, ogni giorno, per anni, anni e anni.

Non dobbiamo nutrire aspirazioni ambiziose. Dobbiamo essere consapevoli che dentro le viscere del mostro siamo solo un granello di sabbia.

Dobbiamo essere sabbia, non olio, nella macchina del mondo.

 

Da: Eugenio Barba, La conquista della differenza, Bulzoni Ed., 
Roma 2012

 

 

La danza del Grande e del Piccolo

Cosa vedo quando penso alla storia? Vedo la danza tra il Grande e il Piccolo. Il suo ritmo grottesco, tenero, alla fine sempre crudele, impedisce al tempo di fluire in maniera uniforme, e invece lo scalfisce e lo sfaccetta riempiendo le nostre vite di essenza e sostanza, di profumi e passioni.

In questa danza, vi sono momenti in cui siamo trascinati, e momenti in cui siamo noi a influire sul corso del tempo. Allora sembra che il nostro destino sia guidato dalle nostre mani. Molti pensano che questa possibilità di modellare il proprio destino sia una pura illusione. In realtà, ci illudiamo di illuderci.

Esiste la Grande Storia che ci trascina e ci sommerge, sulla quale spesso sentiamo di non poter intervenire. Non la possiamo neppure conoscere, non possiamo capire in che direzioni si muova, mentre si sta muovendo, e noi con lei. Solo osservandola a ritroso, dopo che il tempo è passato, le sue svolte e i suoi capovolgimenti ci appaiono chiari. La Grande Storia non ci concede libertà alcuna. Procede inesorabilmente e va non sappiamo dove o perché. Spesso ci raccontiamo favole di Speranza o di Disperazione. Tutte ugualmente insensate, anche se a volte la loro insensatezza accende una fievole luce nel buio che ci circonda.

Eppure nella Grande Storia è possibile ritagliare piccole isole, minuscoli giardini dove la nostra mano può essere efficace e dove possiamo vivere la nostra Piccola Storia.

La Piccola Storia, intessuta di rifiuti e di “superstizioni”, è quella della nostra vita, della nostra casa, della nostra famiglia, dei malintesi, degli incontri e delle coincidenze che ci hanno guidato al mestiere e all’ambiente ai quali abbiamo deciso di appartenere.

E’ evidente che la Grande Storia e le Piccole Storie non sono indipendenti. Ma le Piccole Storie non sono delle semplici porzioni della Grande.

 I bambini che costruiscono una piccola diga ai margini della corrente di un grande fiume, che ricavano una minuscola piscina in cui bagnarsi e sguazzare, non giocano nella corrente impetuosa, ma non sono neppure in un’acqua separata da quella che scorre al centro del fiume. Creano, lungo i suoi margini, delle cavità e degli habitat imprevisti, trasmettendo al futuro le tracce della loro differenza.

Tutto questo l’ha descritto Voltaire nel suo Candide. Sotto un diluvio d’ironia e di avventure, crolla l’illusione che il mondo in cui viviamo sia vivibile o sia “il migliore dei mondi possibili”. Dopo aver a lungo partecipato al gioco meccanico della lotta tra pessimismo e ottimismo, il protagonista di Voltaire approda, nell’ultima pagina, alla coscienza che bisogna lavorare senza pensare al destino del proprio lavoro, impegnandosi a “coltivare il proprio giardino”. Questo atteggiamento non significa arrendersi, cedere, non è un richiamo all’egoismo o a una visione ristretta ed egocentrica della vita. E’ l’affermazione della necessità di contraddire la Grande Storia con una Piccola Storia che possa appartenerci. E provare a farle danzare.

 Il teatro è il tentativo di stare nell’acqua del fiume senza lasciarsi trascinare dalla corrente.

Questa è la storia del teatro: piccoli giardini, pozze d’acqua riparate, a volte spazzate via, dall’impeto della corrente.

 

Da: Eugenio Barba, Prediche dal giardino, L’arboreto, Mondaino 2010

 

 

La terza sponda del fiume

Un vecchio viveva con la sua famiglia vicino a un fiume. Un giorno prese la sua barca, la mise in acqua, remò fino al centro del fiume dove la corrente era più forte e lì si fermò remando. Non tornò più a terra. Ogni giorno suo figlio gli portava del cibo, lo pregava di tornare a casa, sulla riva. Il padre, ostinato, continuava a remare contro la corrente. Continuò così, giorno dopo giorno, anno dopo anno, fino alla notte della sua morte. All’alba il figlio prese la barca e andò al centro del fiume a remare contro la corrente.

 

Da: Eugenio Barba, Teatro. Solitudine, mestiere, rivolta, 
Ubulibri, Milano1985

 

 

 

PER APPROFONDIRE E. Barba, La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, il Mulino, Bologna - Le mie vite nel Terzo teatro. Differenza, mestiere, rivolta, Edizioni di Pagina, 28 settembre 2023, formato Kindle.