INTERVENTO INIZIALE
Qualche settimana fa ho incontrato un noto artista visivo italiano, Fabrizio Plessi, che utilizza ampiamente nelle sue installazioni le nuove tecnologie e la virtualità. Mi ha parlato del suo lavoro e poi mi ha detto: “Anch’io insegno all’Università, in Germania a Colonia, nella Facoltà di Ingegneria.” “Quale materia?” “Una materia che è stata creata apposta per me: si chiama ‘Umanizzazione della tecnologia’”.
Per me è stato un segno. Umanizzazione della tecnologia, insegnata da un artista in una facoltà assolutamente scientifica!
Le domande mi si sono affollate nella mente. Perché la scienza sente ufficialmente la necessità di umanizzare i suoi prodotti tecnologici? E perché lo fa attraverso l’arte? E perché proprio ora? Naturalmente, collegavo le questioni in particolare alle arti del corpo, e alla danza prima di tutto, che sono il mio territorio privilegiato.
L’uomo e la macchina si sono confrontati a lungo durante tutto il secolo appena trascorso e le arti del corpo si sono confrontate con la scienza. All’inizio del novecento i nuovi artisti del movimento ricercavano attraverso le scienze la conoscenza del funzionamento “naturale”, e ideale, del corpo e della mente, per costruirsi su quella base parametri artistici adeguati alla nuova percezione di sé e del mondo che le scienze stesse e le nuove tecnologie stavano creando.
L’analisi scientifica del movimento, del ritmo, dello spazio, del tempo e dell’energia, offrivano alla nuova arte autocoscienza e qualificazione culturale nel mondo del progresso della tecnologia meccanica. E’ il caso, per esempio, degli studi di Laban e Jaques-Dalcroze. Ma, in altri casi, il fascino modernista e avveniristico delle macchine, sempre più perfette nella loro efficacia inorganica, spingeva altri artisti-ricercatori ad adeguare a esse il fallibile corpo organico. Nasce il mito del corpo-macchina, la meccanizzazione del biologico alla ricerca di una maggiore potenza, di un migliore rendimento organico nell’arte (e ricordiamo la teoria della teknè come dinamica dell’essere di Heidegger). L’arte del corpo ingloba metaforicamente la macchina per esorcizzarla e incorporarne la potenza oggettiva riducendo le defaillances della materia organica. E’ questo il caso, per fare alcuni esempi, della biomeccanica di Meyerchold, di alcune esperienze del Bauhaus, del manifesto della danza futurista: “Bisogna superare le possibilità muscolari e tendere nella danza a quell'ideale corpo moltiplicato dal motore che abbiamo sognato da lungo tempo. Bisogna imitare con i gesti i movimenti dei motori, fare una corte assidua ai volanti, alle ruote, ai pistoni, preparare così la fusione dell'uomo con la macchina, pervenire al metallismo della danza futurista".
Oggi le scienze e le tecnologie hanno fatto progressi straordinari e stanno di nuovo cambiando la percezione del mondo. Il pensiero scientifico è predominante, elabora continuamente nuove conoscenze e metodologie. Lavora sempre più con la materia organica, biologica, fino a manipolare la vita, a ricrearla oppure a simularla tecnologicamente. E’ così, io credo, che ha cominciato a pensare a se stesso come creativo e a sentire il bisogno di confrontarsi con il pensiero e il fare artistico. La scienza cerca forse oggi una ridefinizione e il perfezionamento della propria efficacia tentando di avvicinarsi al maggior segreto dell’essere umano: l’immaginazione creativa, la capacità di creazione simbolica attraverso il medium organico e imprevedibile del corpo-mente. E la tecnologia, soprattutto quella cibernetica e della virtualità – le macchine con cui quotidianamente ci misuriamo – assume dinamiche e linguaggi biologici e si crea corpi virtuali da manipolare per la simulazione della vita. Assistiamo, allora, all’antropomorfizzazione della macchina, all’umanizzazione della tecnologia. La macchina assorbe l’uomo per esorcizzarlo e farne propria l’intrinseca qualità ed efficacia biologica riducendo le defaillances dell’inorganico. Adegua i processi del suo pensiero artificiale a quelli dell’essere umano e ne carpisce il segreto vitale per creare una nuova arte tecnologica.
Dall’arte dell’uomo-macchina si passa all’arte della macchina-uomo.
Questo bisogno recente della scienza di confrontarsi con l’arte è evidente, ad esempio, nei primi grandi convegni che si tengono in Italia e che sono organizzati da ambiti scientifici, come la matematica, la fisica, l’ingegneria. Il pensare e il fare creativo viene considerato come transdisciplinare, trait d’union tra le potenzialità dell’arte e quelle della scienza. La processualità artistica e quella scientifica, incontrandosi, perdono e acquistano ciascuna qualcosa e condividono il potere della progettazione e il piacere della scoperta.
Esiste già un concetto, nelle scienze, che viene espresso con il termine inglese “serendipity” e che indica il fare, ricercando, delle scoperte fortuite, imprevedibili e interessanti. Lo ritengo un concetto molto familiare alle pratiche artistiche e in particolare a quelle del movimento corporeo.
Ammesso che ciò che ho detto fino a questo punto abbia qualche significato, che cosa accadrà, nell’era della tecnologia virtuale, al corpo e alla sua arte del movimento? Che accade nell’attuale ibridazione artistica corpo/macchina? I dubbi e le domande sono tante in questo momento di svolta e tra noi c’è probabilmente chi potrà dare risposte o indicare soluzioni. Io mi limito a porre ad alta voce alcune questioni, volutamente paradossali, a partire dalla centralità del corpo e dalla sua sempre ricercata unità fisico-spirituale.
Se il meraviglioso mistero dell’arte del movimento umano consiste nella capacità del corpo di incarnare e rendere vive nel tempo e nello spazio reali le metafore e le visioni astratte dell’immaginazione e del sogno, l’arte delle nuove tecnologie non agisce forse al contrario? Annulla il tempo e lo spazio reali e disincarna il corpo, facendolo vivere come doppio metaforico nello spazio dei calcoli numerici e della rete informatica… forse nello spazio del sogno?
Si parla della tecnologia virtuale come protesi del corpo, che lo dilata e gli offre la possibilità di estendersi oltre se stesso. Ma si tratta di protesi del corpo o della mente?
Non parlo, naturalmente, delle vere protesi corporee usate da artisti come Stelarc, che dichiara il corpo organico ormai obsoleto e finito e lo riprogetta a partire dall’innesto di effettive protesi meccaniche. Sarà questo l’approdo definitivo di tutto quel “rifare il corpo” – per dirla con Artaud – in termini di dilatazione organica dell’efficacia comunicativa e della “presenza” scenica, a cui molti artisti di danza e di teatro si sono dedicati durante tutto il novecento?
Parlando ancora di corpo virtuale, qual è la sua relazione con il corpo reale?
Si profila all’orizzonte il declino e l’atrofizzazione del corpo biologico e lo sviluppo della mente e delle sue proiezioni antropomorfiche, come temono gli apocalittici, o si va verso l’esaltazione e l’immortalità del corpo nella fusione con la macchina e le sue protesi virtuali, come proclamano gli integrati? La tecnologia favorirà l’avvento di un corpo pensante digitale, capace di rendere realtà scientifica quel pensiero-in-termini-di-movimento strenuamente perseguito da Laban attraverso un processo psicofisico? o approfondirà all’estremo la frattura corpo/mente, eliminando l’esito corporeo del processo mentale e rendendo superflua l’idea di un’arte del movimento fisico?
Arte e scienza sono ancora ai primi passi di una relazione consapevole che si immagina fruttuosa per entrambe e di cui possiamo per ora appena ipotizzare gli sviluppi futuri. Certo ciascuna può aiutare l’altra a ridefinirsi e a progredire nella nuova era.
Le nuove tecnologie stanno provocando un mutamento epocale nella nostra percezione del mondo e di noi stessi come esseri umani che lo abitano. Nella nuova arte numerica è possibile programmare il processo creativo; progettare sogni virtuali da vedere e ascoltare (e presto da odorare, gustare, toccare artificialmente) a distanza, elaborati da una macchina a sua volta programmata dall’uomo. Si potrà salvare il piacere della scoperta, dell’improvvisazione, della spontaneità, del pensiero deviante? Come progetterà i suoi sogni l’arte del futuro?
E le arti del corpo, depositarie di una forma di espressione diretta e di comunicazione in presenza, faccia a faccia e corpo a corpo, diverranno rituali arcaici per pochi iniziati di una religione della metacinetica? o invece la consuetudine forzata con la macchina risveglierà in modo diffuso il desiderio di esercitare il corpo e di viverlo con pienezza nel movimento, perfezionandolo come soggetto-oggetto di creazione artistica?
Per concludere con una battuta, tra pochi decenni esisteranno, forse, come oggi avviene per i negozi di generi alimentari, dei locali contrassegnati dalla scritta: “Arte biologica, non modificata tecnologicamente”?
INTERVENTO FINALE
Non una conclusione, ma solo qualche riflessione finale, perché i problemi affrontati e le suggestioni ricevute debbono rimanere aperte, in continua rielaborazione. Proverò soltanto a tendere un mio personale filo rosso tra i discorsi ascoltati.
Quali relazioni, dunque, possono intercorrere tra la scienza e l’arte? In particolare tra scienze e arte del corpo, la danza? E quali vantaggi ne traggono l’una e le altre?
Il rapporto più diffuso e tradizionale è prevalentemente univoco: parte da uno dei due poli e va verso l’altro. Ad esempio, le scienze prendono la danza come oggetto di studio ed applicano ad essa le loro metodologie di ricerca. E’ soprattutto il caso di alcune scienze umane che possono trovare nella danza un vero laboratorio sperimentale privilegiato. In questo caso la scienza ottiene nuove conoscenze forse applicabili altrove e la danza, di riflesso, scopre nuovi aspetti di se stessa. Si può pensare alla pedagogia, alla psicologia, all’antropologia, ma anche all’ergonomia, alla dinamica, alla fisica, ecc.
Oppure è la danza ad avvicinarsi alle scienze per applicarne i principi al proprio processo tecnico, creativo e produttivo. Può essere il caso della matematica, della geometria, dell’architettura, della fisica, e così via. La danza si arricchisce di strumenti concettuali per la propria elaborazione estetica o risolve problemi tecnici, mentre la scienza, di riflesso, scopre un nuovo campo applicativo.
Questi rapporti possono essere a senso unico o avvenire consapevolmente per volontà congiunta di artisti e di scienziati con un maggiore arricchimento reciproco, sia in vista di un ampliamento delle conoscenze di entrambi, sia in vista di creazioni artistiche in collaborazione. Ne abbiamo molti esempi nella storia e nel presente.
Che cosa succede, invece, quando la scienza crea tecnologie? Crea degli strumenti, dei sussidi tecnici? La danza li utilizza per la messa in scena, per l’illuminazione, per la riproduzione del suono, infine per la riproduzione dell’immagine. A questo punto il rapporto comincia a complicarsi, perché questi ultimi strumenti creano proprie arti e proprie forme di comunicazione e di espressione, che si mettono a loro volta in relazione con la danza, soprattutto per quanto riguarda la produzione di immagini in movimento. Qui incomincia un processo di fusione che passa attraverso la smaterializzazione della danza, che si fa pura visione.
Pensiamo al cinema: nei suoi primi tempi, tempi di camera fissa, la danza era uno dei suoi soggetti preferiti. Poi il video. Utile per la documentazione e la conservazione ma, come videodanza, forma d’arte ibrida, in cui la tecnologia impone le sue regole e la danza è solo immagine incorporea di se stessa. Con la televisione si rende possibile una larga diffusione e la danza assorbe particolari modalità di configurazione e di montaggio. Infine il computer e le infinite possibilità di riproduzione, ricreazione numerica, trasmissione in tempo reale. Non c’è più bisogno della persona reale: il danzatore virtuale si stacca dalla persona umana. Quel simulacro di danza ha i suoi principi nella danza organica, ma è pura immagine in movimento.
La danza può far uso di queste sofisticate tecnologie e confrontarsi con esse esteticamente. Schermi in scena, proiezioni che interagiscono con i danzatori in carne ed ossa, campi sensoriali che, sollecitati dal corpo in movimento, producono suoni, luci, immagini, parole, oggi ibridano, complicano, confondono o arricchiscono il linguaggio della danza.
Si è detto, comunque, che tutto ciò non cambia la danza in sé. E questo è vero, se per danza si intende quell’attività umana concreta e metaforica, quel flusso di energia fisica, mentale ed emozionale, che si sostanzia nel movimento del danzatore.
Io credo, però, che qualcosa possa cambiare nel modo che la danza ha di vedere se stessa e di pensare se stessa in rapporto alla più generale visione del mondo della sua epoca.
Il progresso della scienza ha più volte modificato la visione del mondo nella storia.
Si è molto parlato, durante questo convegno, dello spazio in rapporto alla danza.
Ma la concezione dello spazio è anch’essa più volte cambiata nel tempo.
Nella visione rinascimentale, ad esempio, lo spazio acquisisce tridimensionalità rispetto alla piattezza paratattica medioevale e l’occhio dell’uomo lo organizza, attraverso la scienza prospettica, in una struttura geometrica gerarchizzata a partire dal suo sguardo, secondo linee rette e simmetriche, convergenti su un fuoco centrale. All’interno di una cultura aristocratica che tende utopicamente alla perfezione, l’uomo ha valore per i suoi natali e per ciò che progetta e che produce, tanto nella cultura che nella politica o nell’arte. La danza come arte nasce qui come espressione elitaria, esibizione di un corpo e di un comportamento elevati e ideali, simboli di una classe egemone. Pensa così se stessa soprattutto come forma, disegno, perfezione di geometrie collettive nello spazio organizzato e si modella come rappresentazione, istituendo una norma tecnica e compositiva assoluta.
La rivoluzione scientifica della visione del mondo fa esplodere all’inizio del novecento queste idee di spazio e di uomo. La teoria della relatività dà al mondo una quarta dimensione, il tempo, e, traslatamente, polverizza l’idea monolitica della cultura. Con le nuove tecnologie il mondo può essere visto dall’alto, dall’interno, si vede l’infinitamente piccolo e si abbraccia l’enormemente grande: lo spazio è infinito, globale, comprende il mondo e l’intero universo, e il moto senza fine è la manifestazione universale della vita. Nella nuova società democratica, l’uomo acquista valore in sé, come essere umano e come individuo e la danza è la manifestazione dinamica esteriore della unitaria individualità di ciascuno. Pensa se stessa come movimento che definisce il proprio spazio e si modella come espressione, stabilendo di volta in volta le proprie regole.
Che cosa sta succedendo ora? A questo punto azzardo solo delle ipotesi, a partire da ciò che gli artisti che usano le tecnologie della virtualità hanno detto e mostrato. Con i nuovissimi mezzi tecnologici di comunicazione non soltanto si raggiunge e si comprende la globalità del mondo, ma si modifica ancora la concezione dello spazio. Oltre allo spazio fisico, reale, come già poteva essere pensato, si apre la dimensione del virtuale, ossia dell’infinità di spazi possibili che l’immaginazione umana può concepire. Spazi mentali, forse, ma resi visibili e sensorialmente percepibili dalla tecnologia scientifica, spazi in cui l’uomo può proiettare il proprio simulacro virtuale. Non so se tutto questo arriverà a modificare la nostra Weltanschauung, la nostra complessiva concezione del mondo. Certo sta già modificando la nostra idea del tempo e dello spazio. E potrà forse cambiare il modo in cui la danza pensa se stessa: se i media numerici diventeranno nella società futura un modo primario di creazione e di fruizione dell’arte, la danza si penserà forse come immagine e si modellerà in termini di riproduzione, secondo leggi scientifiche?
Aspettando il futuro, io continuo a credere in quella danza organica e “in presenza”, successione di azioni di movimento viventi, gioco di tensioni e liberazioni muscolari, emozionali e intellettive, arte della “peripezia” del corpo/mente nel tempo e nello spazio, che alcuni artisti ci hanno mostrato in questi giorni e che non credo potrà mai cessare di esistere.