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I L P C I : U N A S T O R I A A P E R T A
(dalla presentazione dell'iniziativa)
È nei momenti alti della Storia che si misura la capacità politica di saper indicare il senso di marcia di una comunità umana, dell’intera umanità, del destino della vita sul pianeta. Il PCI non è stato solo quell’organizzazione umana che ha saputo resistere alla deriva del fascismo, divenire il collante di una Resistenza di cui interpretò l’essenza pur salvaguardando lo spirito unitario che delineò e produsse con il Comitato di Liberazione Nazionale. Fu quell’organizzazione che diede un “senso” al processo di emancipazione di un mondo del lavoro che usci dalla subalternità per candidarsi alla guida del paese; fu l’organizzazione che colse nel mondo delle donne la possibilità di attingere ad una nuova visione delle relazioni umane e, anche se in maniera dialettica, seppe spingere per decenni i confini delle pratiche sociali; fu l’organizzazione che seppe tenere insieme la capacità di intervenire nel “qui ed ora” delle scelte politiche quotidiane legandone ad una prospettiva di marcia che sapeva guardare “oltre” gli assetti sociali, politici ed economici esistenti.
Il PCI rappresentò, per il mondo che era stato fino ad allora subalterno, non un canale di “rappresentanza” istituzionale dei propri interessi, ma lo strumento attraverso il quale essi si potessero auto-rappresentare.
Un grande elemento di emancipazione non in senso puramente liberale ma oltre “il liberalismo delle libertà formali”: un’organizzazione che cercò di far divenire le classi subalterne protagoniste di una stagione di partecipazione nuova.
La capacità di mantenere una visione strategica connessa alla necessità della difesa quotidiana della condizione sociale dei lavoratori arrivò, forse, al suo momento più alto con l’assemblea degli intellettuali del Gennaio 1977. Per primi al mondo, i comunisti italiani indicavano a tutti la necessità del superamento della società basata sui consumi. La proposta di una “austerità” non come riduzione della possibilità di emancipazione sociale ma come motore di una totale trasformazione economico-sociale.
Questa fu la proposta di Enrico Berlinguer. Una proposta che anche parti consistenti della sinistra lessero come una “rinuncia” alla prospettiva di benessere delle grandi masse ed era, invece, portatrice di un grande progetto alternativo al capitalismo finanziario.
La politica riparte da qui!
“Questa esigenza nasce dalla consapevolezza che occorre dare un senso e uno scopo a quella politica di austerità che è una scelta obbligata e duratura, e che, al tempo stesso, è una condizione di salvezza per i popoli dell’occidente, io ritengo, in linea generale, ma, in modo particolare, per il popolo italiano.
L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è cosi per noi. Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata”.
Enrico Berlinguer, discorso agli intellettuali. Roma, Gennaio 1977.
Inviato il 18/01/2021