Innanzitutto mi sembra infine corretto premettere che in generale mi muovo all’interno di queste tre citazioni: “La mancanza di scrupoli impegnata / nella registrazione delle entrate” (I. Bachmann[1]), “Ti venderemmo tutto quello di cui tu hai bisogno se non preferissimo che tu abbia bisogno di ciò che vendiamo” (J. Saramago[2]), “Certo che c’è la lotta di classe, ma è la nostra classe, quella dei ricchi, che la sta vincendo” (W. Buffett[3]).
Il liberismo è un programma politico e la sua mondializzazione è una costruzione sociale reazionaria. Non vi è una globalizzazione buona e una cattiva, ma la globalizzazione liberista è ciò che è, perché è stata pensata e realizzata per determinare gli esiti che presenta. “È un sistema che ha dichiarato guerra all’umanità intera” (Alex Zanotelli). Proprio perché ci troviamo immers* in questa guerra, mi soffermerò brevemente sul rapporto tra dolore e politica, tentando di sollevare quello che ritengo un problema.
Parto dal notissimo discorso tenuto da Pietro Calamandrei alla Costituente del 1947: “Questo che noi facciamo è il lavoro che un popolo di lavoratori ci ha affidato […] Se noi siamo qui a parlare liberamente è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigione, l’esilio, la morte […]. A noi è rimasto il compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili ed oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini alleati a debellare il dolore…”.
Su questa espressione, a quanto mi risulta, non ci si è soffermati neppure in questi mesi, eppure “debellare il dolore” vuol dire non solo che si vedeva nella redigenda Carta Costituzionale uno strumento che andava in questa direzione, ma che si dava la grande idea della possibilità di una terra senza dolore, indicando un programma politico strategico, esaltante e coinvolgente.
Perché la politica dovrebbe mettere al centro il dolore? Perché il dolore è una delle voci del verbo vivere. Quindi è un universo immenso, come la storia che lo contiene e che lo produce. Filosofia, religione, letteratura, tutte le arti, in ogni tempo e latitudine lo hanno rappresentato in varie forme e si sono confrontate con esso[4]. La politica no.
Eppure essa ha a che fare con il dolore nel senso che la maggior parte delle sofferenze umane sono inferte proprio attraverso le sue decisioni, anche se alcune forme di dolore possono sembrare lontane. Ad esempio se le disuguaglianze non sono un destino naturale, se esse sono incapsulate nel sociale-storico, vuol dire che sono il frutto di scelte. Disuguaglianze, ingiustizia non sono entità astratte, impattano sulla specifica singolarità dei corpi, producono un tale dolore, che quel corpo che le subisce, può arrivare talvolta a sopprimersi. Allora se scelgo la disuguaglianza, le sofferenze che ne derivano sono da imputarsi alla politica e alla struttura economica del capitalismo che domina da alcuni secoli. Per questo sarebbe necessario un inventario di quella nuvola cumuliforme che è il dolore perché da esso si può ricavare molte informazioni sul modo di stare al mondo di quel primate che ci ostiniamo a chiamare Homo Sapiens Sapiens.
Il dolore può essere definito in termini neurofisiologici, clinici, psicologici, psicoanalitici, sociali, religiosi, comportamentali ecc. Abbiamo diverse forme: il dolore del divenire, il dolore di una perdita (morte e abbandono), il dolore della crescita e del cambiamento, il soffrire nell’oscillazione fra passato e presente, per la trasformazione del corpo. In sintesi le forme dell’umano soffrire possono essere fisiche, psichiche, morali. Nell’analisi, queste diverse fenomenologie vanno tenute separate, eppure tra tipologie così differenti spesso vi sono intime connessioni e compresenze (Cfr. Salvatore Natoli)[5].
Dal dolore – e questo è per me il punto centrale - viene la misura della propria vulnerabilità e finitezza, si arriva alla precarietà del nostro stare al mondo. La sofferenza evidenzia la propria insostituibilità e perciò la propria individualità e quindi enfatizza l’unicità di un individuo. È qui che il dolore mi aiuta a passare dalla dimensione privata del dolore alla sua rilevanza politica. Mi fa entrare nell’aspetto del dolore inflitto da esseri umani ad altri esseri umani. Questo dolore prodotto è saldamente ancorato nella storia.
Sappiamo che le nostre vite sono precarie, sappiamo che quando un corpo muore, scompare per sempre: è una perdita irripristinabile; con la sua scomparsa se ne va per sempre anche la memoria dei suoi traumi e delle sue gioie. Eppure la facilità con cui si annichilisce quella unicità irripetibile continua a non costituire problema per la politica, così come non costituisce problema il fatto che al dolore inferto e alla soppressione di un corpo non c’è, né può esserci, riparazione. Quasi mai qualcuno è chiamato a rendere conto del dolore inferto dallo Stato, dalle istituzioni, dai governi, dalle imprese, dalle scelte politiche. Da anni siamo di fronte a dei genocidi che non si ha nemmeno il coraggio di definire tali. Ma talvolta si chiede scusa: si chiede scusa dopo secoli per l’inquisizione, si usano espressioni quali “Siamo profondamente dispiaciuti per l’accaduto”, frase applicata a diversi contesti; oppure nel caso di conflitti bellici, si definiscono “danni collaterali” i bombardamenti degli ospedali, delle abitazioni civili, ecc. Ora nessuna scusa postuma può diminuire di uno zero virgola, il dolore provato da Giordano Bruno che brucia sul rogo o restituire la vita ai 100.000 soldati irakeni morti nella prima guerra del Golfo, o alle contadine e contadini brasiliani uccisi, o alle migliaia di donne assassinate in Messico: l’elenco è immenso fino al limite dell’incomputabile. Per questo le parole di scusa sono non solo vane ma, in moltissimi casi, sono un’offesa perché non esiste possibilità di risarcimento.
Tuttavia occorre impedire che si getti nel pozzo nero del tempo il ricordo degli orrori. Un futuro di pace ha bisogno di questo ricordo affinché la memoria diventi una forza critica (Benjamin) che fa emergere nodi problematici e irrisolti della storia relativa alla protesta, alla rivolta, alla rivoluzione contro la sofferenza inferta.
Il dolore rivela l’unicità del corpo che richiederebbe la tutela della sua costitutiva precarietà. Ma perché invece questa unicità viene facilmente soppressa? Perché la fragilità, la vulnerabilità, la precarietà si scontrano con la volontà di potenza, di dominio, prodotto storico tutto umano – non richiesto da nessuna divinità - in cui la violenza è costitutiva, e l’azione politica, fino ad oggi, è incardinata su di essa, anche se attualmente le sue forme sono date dal sociale-storico della globalizzazione liberista, un vero e proprio governo del tempo e del dolore che decide quali “vite contano in quanto vite” (Butler). Va rilevato che il governo del dolore da infliggere, produce una domanda che genera fiorenti attività economiche. In questo scandalo non è coinvolto solo l’Occidente.
“Il dolore dà vita a un senso complesso di comunità politica” (Butler[6]) e fornirebbe il potenziale per motivare le persone all’azione e superare la violenza radicata nel sistema capitalistico. Ma perché ciò avvenga, la politica dovrebbe raccogliere nelle proprie mani il fragile e il vulnerabile non come un segno di disponibilità terapeutica o di buoni sentimenti, ma come unico modo per riprendere il cammino per diventare umani. Dobbiamo ancora diventarlo e “per il momento questa prospettiva sembra sempre più in pericolo, se non indefinitamente preclusa”[7]. Anche per questo, per me il compito della politica è quello di mettere al centro della propria elaborazione teorica e pratica il dolore, interrogandosi su questo scandalo di cui attualmente è la principale responsabile.
L’attenzione alla precarietà, al fragile diventa l’attenzione al dettaglio e al frammento. Abbiamo l’universalità di un passato che si ripete uguale a se stesso. Coloro che non contavano continuano a non contare. Vite minuscole che devono misurarsi con la violenza di ogni giorno, sempre uguale a se stessa anche se in forme cangianti. Per la politica del dominio e dello sfruttamento siamo come i neutrini, particelle subatomiche, che interagiscono assai poco con la materia: un neutrino proveniente dallo spazio cosmico ha quasi la certezza di attraversare tutta l’atmosfera e tutta la Terra senza praticamente essere rilevato. Il silenzio di quei corpi considerati dei neutrini, quei “corpi che non contano” (Butler), sono un'opera d'arte che attende ancora una politica nuova che sia il suo artista-testimone. Dunque il dolore scorre nelle vene del mondo, ossia nelle strade delle città, ma è un fiume carsico che la politica ignora, o meglio nasconde.
Da una parte, come illustra William Davies[8], l’ideologia della scienza della felicità riceve oggi grande attenzione perché è necessaria una “regolazione del dolore” per far fronte ai traumi del sistema produttivo, al punto tale che un crescente numero di aziende hanno nel proprio organico il manager responsabile della felicità dei dipendenti. Dall’altra, fin dai tempi antichi e in contesti culturali molto diversi, il rapporto fra violenza e politica si è configurato realistico e inevitabile, come se la politica non fosse altro che la scena inequivocabile della naturale aggressività umana: la rappresentazione terrestre dello scontro cosmico tra bene e male.
La politica dominante marca una lontananza dal dolore ma contemporaneamente i due mondi sono in contatto. In questa zona oscura, la nostra politica dovrebbe entrare con più coraggio. Per nascondere la crudeltà del presente, il pensiero unico con i suoi cantori o i suoi “liberi servi” (Zagrebelsky), deve rimuovere il dolore che genera, richiamandosi alla condizione esistenziale immutabile: il dolore è sempre esistito - come la guerra. La politica di potenza deve così recuperare l’universalità della condizione esistenziale umana per disarmare il soggetto e raggelarlo nell’impotenza: è per questo che vorrei che il dolore diventasse un tema politico, ed entrasse nello spazio pubblico. La pluralità e l’irripetibilità dei corpi sono la chiave d’ingresso per la politica della fragilità, un modo anche per resistere alla naturalizzazione delle differenze, dell’economia e del dolore.
Nel liberismo, che considero la versione più spietata del capitalismo perché non ha più ostacoli, trovo molti bottegai dell’umanesimo che hanno un duplice obiettivo: mettere in ombra gli spietati rapporti di potere in atto e le conseguenze della politica di potenza. Il mettere al centro il dolore potrebbe essere un modo per contrapporsi a una posizione neotradizionale e restauratrice in cui tutta la vita si realizza al di qua della storia, in una sfera esistenziale privata certo allargata fino a comprendere in sé una dimensione collettiva, ma come risultato della semplice giustapposizione di tante esistenze private, al di qua della storia.
È come se l'essere-per-la-morte di quel nazista di Heidegger, venisse completato dal liberismo con la possibilità dell’azione attiva dell’uccidere; anzi diventa una sorta d’imperativo per difendere il proprio stile di vita o per esportare la democrazia. La storia degli uomini – e così l'esperienza generale della storia posta da Carl Schmitt, sotto il segno della politica – è caratterizzata dal fatto che gli uomini hanno sempre avuto come obiettivo dei loro sforzi la sopravvivenza. Un gruppo si mantiene solo nella misura in cui difende se stesso e la propria identità contro altri. La relazione fondamentale tra "amico e nemico", storicizza la matrice guerriera, distruttiva di ogni relazione con l'altro. Così inevitabilmente nel corpo del potere sono inscritti i segni di una storia che si manifesta oggi nelle migliaia di morti (per migrazione, guerre, fame, torture, disoccupazione), che denudano la natura della “rivoluzione conservatrice” liberista.
Per questo mi sembra fondamentale mettersi in ascolto – con riferimento all’opera di Berio e Calvino “Il re in ascolto”[9] - dei punti di vista di quei femminismi che, in varie forme e pratiche, intaccano sempre più quella visione patriarcale ancora dominante. E pensare così a una risposta materialista e laica, per una politica che rappresenti almeno una tregua al dolore inferto.
[1] Ingeborg Bachmann, Non conosco mondo migliore, Parma, Guanda 2010, p. 11.
[2] José Saramago, La caverna, Torino, Einaudi, p. 267.
[3] Cfr. Marco D’Eramo, “La lezione di Buffett”, in Il manifesto, 17.8.2011.
[4] Non a caso una delle vie principali che conduce alle religioni è proprio quella del dolore. L’umanità attanagliata da questa esperienza ha tentato di darne un senso, una giustificazione. Si è visto il dolore come castigo inflitto per una colpa che esige riparazione; istanza salvifica legata a una prova, ecc.
[5] Salvatore Natoli, L’esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli, 2016.
[6] Judit Butler, Vite precarie, Milano, postmedia book, 2013, pag. 48.
[7] Ivi pag. 110.
[8] William Davies, L’industria della felicità, Torino, Einaudi, 2016.
[9] Ascoltando il canto di una donna invisibile, il Re scopre l’unicità di ogni essere umano, attraverso l'unicità di quella voce.