Premessa
Siamo tutti spaventati da questo virus SARS-CoV-2, ma questa pandemia probabilmente non è il “Big One”, cioè un evento paragonabile ad un globale terremoto catastrofico, tuttavia più andiamo avanti nel tempo e più questa ipotesi, dal punto di vista non solo sanitario ma anche sociale ed economico, ci appare plausibile; sicuramente non è, come , qualcuno ha incautamente affermato, poco più della solita influenza.
L’origine di questa pandemia (cioè un’epidemia diffusa su scala planetaria) va cercata nell’alterato rapporto tra uomo e ambiente, conseguenza di un modello economico insostenibile.
La vita sul nostro Pianeta è regolata da complesse relazioni tra le diverse specie, impegnate ad utilizzare le risorse indispensabili alla loro sopravvivenza. Ogni ecosistema è un sistema complesso, che grazie a queste relazioni, attraverso meccanismi di autoregolazione, tende all’equilibrio: in pratica le reazioni alle perturbazioni tendono a riportare il sistema alle condizioni iniziali, un processo definito omeostasi.
Per Lovelock, autore dell’ipotesi Gaia, i mari, l'atmosfera, la crosta terrestre e tutte le altre componenti geofisiche del pianeta terra si mantengono in condizioni idonee alla presenza della vita grazie al comportamento e all'azione degli organismi viventi: è cioè una sorta di “superorganismo” costituito dall’insieme di tutti gli organismi viventi in relazione con l’ambiente chimico-fisico, che viene continuamente rimodellato da tali relazioni.
Ogni aspetto della vita sulla Terra va visto e interpretato alla luce di due aspetti dinamici fondamentali: i processi evolutivi e le relazioni ecologiche.
L’obiettivo evolutivo di tutte le forme viventi è la propria riproduzione, per colonizzare l’ambiente di vita, obiettivo che entra in relazione, talora conflittuale, con lo stesso obiettivo riproduttivo di tutti gli altri organismi: da queste relazioni, di natura ecologica, si sviluppano gli equilibri che caratterizzano gli ecosistemi e che pongono limiti alla crescita delle popolazioni e dei consumi di ciascuna specie. In ecologia si parla di carrying capacity (o capacità di carico o capacità portante dell'ambiente) per spiegare che, sulla base delle caratteristiche di un ecosistema, gli individui di una popolazione non possono superare i limiti imposti dalle risorse disponibili. E’ a questo punto che intervengono i meccanismi omeostatici (detti anche a feed-back negativo) che mantengono in equilibrio tra loro le popolazioni delle diverse specie. Un classico esempio per spiegare queste dinamiche è quello “preda-predatore”: alla crescita del numero di predatori corrisponde una diminuzione significativa del numero delle prede, che innesca - per scarsità di cibo - un conseguente calo anche dei predatori. In altre parole le due popolazioni, quella dei predatori e quella dei predati si mantengono abbastanza costanti, con oscillazioni sfasate dell’una rispetto all’altra. Questo concetto va esteso alle relazioni tra tutti gli organismi che insistono sullo stesso territorio, all’interno di un ecosistema.
Il superamento dei limiti
Nel caso della popolazione umana si utilizzano concetti simili a quelli di carrying capacity ma con terminologie e metodi di valutazione un po’ diversi: “impronta ecologica” e overshoot day. L’impronta ecologica, un metodo proposto nel 1996 da Wackernagel e Rees, è la misura del territorio in ettari necessario per produrre ciò che un uomo o una popolazione consumano. Gli autori propongono di non calcolare più quanto "carico umano" può essere sorretto da un habitat, bensì quanto territorio (terra e acqua) è necessario per un definito carico umano, ovvero quale sia l'impronta ecologica che una determinata popolazione imprime sul pianeta. Questa analisi facilita il confronto tra regioni, rivelando l'impatto ecologico delle diverse strutture sociali e tecnologiche e dei diversi livelli di reddito: l'impronta media di ogni residente delle città ricche degli USA o dell’Europa è molto superiore a quella di un agricoltore di un paese non industrializzato, per cui sul pianeta un solo statunitense “pesa” come circa 15 afgani.
L’Earth Overshoot Day è, invece, il giorno in cui il consumo di risorse naturali da parte dell’umanità inizia a superare la produzione che la Terra è in grado di mettere a disposizione per quell’anno: nel 2019 questo giorno è stato il 29 luglio. In pratica si analizza la domanda dell’umanità di risorse del pianeta (come ad esempio la produzione di cibo, la pesca, la raccolta di legname, l’impiego di materie prime, l’assorbimento di anidride carbonica, ecc.) rispetto alla capacità naturale di ricostituire quelle risorse e assorbire i rifiuti. Dunque nel 2019, come in generale negli ultimi anni, in circa sette mesi, abbiamo usato una quantità di prodotti naturali pari a quella che il pianeta rigenera in un anno. Il nostro deficit ecologico, pari a cinque mesi, provoca da una parte l’esaurimento delle risorse biologiche (pesci, alberi ecc.), e, dall’altra, l’accumulo di rifiuti e inquinamento, come, tra l’altro, l’anidride carbonica in atmosfera e negli oceani, che aumenta l’effetto serra e provoca i cambiamenti climatici. Le attività umane stanno, dunque, cambiando l’ambiente del nostro pianeta in modo profondo e in alcuni casi irreversibile. Questi cambiamenti sono dovuti non solo all’immissione di materiale inquinante nell’ambiente, ma anche ai cambiamenti nell’uso del territorio e alla conseguente perdita di habitat e riduzione della biodiversità. Tutto ciò rende insostenibile l’attuale presenza dell’uomo sulla Terra, ma l’insostenibilità non dipende solo dal numero di abitanti, quanto dalla loro impronta ecologica, cioè dai consumi di una data popolazione o dei loro abitanti. Inoltre i dati dell’Overshoot Day indicano che dal 1986 ad oggi il tempo di esaurimento delle risorse annuali rinnovabili si è continuamente accorciato, a causa dello sfruttamento eccessivo e irrazionale dei prodotti e dei servizi che il pianeta ci offre gratuitamente.
Stiamo dunque superando, anzi abbiamo già superato i limiti delle capacità del pianeta di sostenere la popolazione umana e mettiamo a rischio la sopravvivenza di molte altre specie, oltre che delle future generazioni umane.
Ma l’attuale sistema produttivo industriale ed agricolo, l’utilizzo di fonti fossili e il continuo ricorso alle combustioni per produrre le forme di energia più utilizzate (elettricità, calore e forza motrice) stanno gravemente compromettendo la biodiversità del pianeta. Molte specie di animali e di piante sono ridotte a pochissimi esemplari e, quindi, in pericolo o, addirittura, in via di estinzione. L'estinzione è un processo naturale ma ora, a causa delle attività umane, sta avvenendo molto più rapidamente che in passato. La comunità scientifica è d'accordo nell'affermare che il tasso attuale di estinzione è 100-1000 volte superiore a quello precedente la comparsa dell'uomo. Moltissime sono le specie minacciate e alcuni scienziati sostengono che il 10-20% delle specie attualmente viventi sul pianeta si estingueranno nei prossimi 20-50 anni. Secondo le stime dell'Unione Internazionale per la conservazione della natura (IUCN) sarebbero più di 7 mila le specie animali e circa 60 mila quelle vegetali a rischio estinzione. Nella lista rossa sono compresi il 25% dei mammiferi conosciuti e l'11% degli uccelli. Delle 350 mila specie vegetali conosciute, invece, sono 60 mila quelle che rischiano di estinguersi. Si tratterebbe della "sesta estinzione di massa" della storia, conseguente al cattivo stato di salute della Terra, mai così critico da 65 milioni di anni a questa parte, ovvero dalla scomparsa dei dinosauri. Un disastro mai visto prima, se si pensa che a causare le crisi precedenti ci sono voluti svariati milioni di anni e delle catastrofi naturali, non, come oggi, poco più di un secolo di “rivoluzione industriale”.
Limiti naturali alla crescita della popolazione umana
Le dimensioni e i consumi delle popolazioni umane sono variati moltissimo nel corso dei millenni, ma ogni volta che le risorse disponibili diventavano insufficienti, le popolazioni venivano ridimensionate, attraverso sistemi di autoregolazione.
Le popolazioni umane primitive, all’età della pietra, si procuravano il cibo raccogliendo frutta, erbe, radici, altre parti di piante commestibili e piccoli animali, come molluschi, insetti, frutti di mare e cacciando, con una certa difficoltà, animali più grandi, con gli strumenti a disposizione in quel tempo (lance e frecce con punte di pietra lavorata). Fino a 12 mila anni fa la popolazione umana, che aveva già colonizzato tutto il pianeta, per motivi di sostenibilità, cioè disponibilità di cibo, non superava probabilmente 1-2 milioni di abitanti, dato che ogni tribù doveva avere un ampio territorio di raccolta e di caccia e quel cibo costituiva il limite alla crescita di ogni singola tribù. Si trattava di un sistema ben autoregolato e in equilibrio con il proprio ambiente; in qualche modo le società di allora potevano essere felici, come dicono alcuni (M. Sahlins, “L'economia dell'età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive”), perché utilizzavano quanto la natura offriva loro, senza un lavoro che occupava tutto il tempo di vita e quindi con tempi per le relazioni con gli altri membri della tribù e per il riposo, come il mitico periodo dell’Eden.
In seguito, in varie zone del pianeta, come nella cosiddetta “mezzaluna fertile”, in Medio Oriente, un importante cambiamento climatico, con riscaldamento globale e conseguente scioglimento dei ghiacciai e rapida diffusione di animali e piante nelle regioni in cui il clima divenne più caldo e umido, favorì la cosiddetta rivoluzione neolitica, cioè l’agricoltura e l’allevamento.
Con la rivoluzione neolitica, i limiti della crescita demografica cambiarono perché, seminando piante e allevando animali, sullo stesso territorio dove prima vivevano le tribù di raccoglitori-cacciatori, gli abitanti dei nuovi villaggi potevano sfamare fino a 1000 persone anziché 40-50, portando la popolazione globale ben oltre la dimensione di un paio di milioni.
Ma quando l’annata dava raccolti scarsi o quando la popolazione cresceva troppo, non restava altra via che la migrazione verso nuove terre da coltivare. Così pian piano questa nuova cultura si estese, a partire dall’Anatolia, verso tutta l’Europa e, partendo da altre zone, a gran parte dell’Asia e parte dell’Africa. In tal modo la popolazione mondiale arrivò prima a decine, poi a centinaia di milioni di abitanti, già alcuni secoli avanti Cristo.
Si stima che nell'Impero Romano, tra il 300 ed il 400 d.C., vivessero tra 60 e 120 milioni di abitanti; ma tale popolazione fu duramente colpita dalla cosiddetta peste di Giustiniano, che, secondo le stime, portò a decine di milioni di decessi. In pratica quando, in base alle caratteristiche ambientali, climatiche, politiche e tecnologiche (capacità di produrre cibo), si superava il limite demografico per quel territorio, intervenivano fattori ambientali e sociali che riportavano la popolazione sotto il limite.
In Europa, attorno al mille, la popolazione, sopravvissuta alle grandi carestie ed epidemie dei secoli precedenti, diede un primo grande assalto alle risorse naturali, distruggendo molte foreste, per far posto a nuova terra da coltivare, necessaria per sfamare una popolazione crescente, che così raggiunse circa 3-400 milioni. Ma quando questo nuovo limite demografico veniva superato, si verificavano una serie di eventi che riportavano la popolazione al di sotto di tale valore: in particolare carestie, guerre ed epidemie erano avvenimenti catastrofici, che riducevano drasticamente la popolazione. Spesso, quando se ne verificava uno, si aggiungevano anche gli altri due. In pratica, in mancanza di cibo (carestia) gli uomini iniziavano a farsi la guerra per conquistare nuove risorse, ma mancanza di cibo e guerre rendevano più deboli le popolazioni e si diffondevano più facilmente le epidemie.
Tra il ‘300 e il ‘600 scoppiarono varie epidemie, associate a carestie e guerre, come la peste decritta dal Manzoni ne “I promessi sposi”, e la popolazione europea subì periodiche drastiche riduzioni.
Va poi ricordato che anche l’emigrazione ha costituito un elemento equilibratore dell’incremento demografico. La popolazione europea ha trovato, dopo la scoperta dell’America, nuove terre da coltivare, spazi da abitare, ricchezze da sfruttare, sottraendoli ai nativi che, oltre ad essere massacrati, venivano debilitati da epidemie di malattie portate dai conquistatori: questa migrazione è continuata nell’ ‘800 e fino al ‘900, con la conquista del Far West. Ma arrivati nel lontano ovest, non c’erano molte altre terre da conquistare ed iniziò il nefasto periodo coloniale, ancor oggi non del tutto finito.
Le epidemie/pandemie del passato e del presente
Oltre alle epidemie di peste appena ricordate, nel corso della storia umana, anche recente, si sono succedute molte altre epidemie/pandemie, molte collegate a guerre e carestie. Facendo una breve carrellata, possiamo ricordare, ad esempio:
- la tubercolosi, una delle più antiche malattie epidemiche che afflissero gli esseri umani, già dal neolitico, provocata da un micobatterio probabilmente derivato da specie già presenti negli animali allevati, come i bovini; descritta da Ippocrate e da Aristotele, portò alla morte, tra la fine del settecento e l’inizio dell’ottocento, circa un quinto della popolazione londinese, indebolita anche dall’inquinamento provocato dalla recente rivoluzione industriale; attualmente è una delle principali cause di morte nel mondo con oltre un milione di decessi, anche a causa della resistenza dei batteri ai farmaci,
- la lebbra, endemica in Europa nel medioevo e provocata da un altro micobatterio,
- la malaria, già presente all’epoca greca e romana, ben diffusa nel medioevo e ancor oggi in grado di provocare quasi mezzo milione di morti all’anno,
- il colera, provocato dal batterio Vibrio cholerae, che ha causato varie pandemie nel XIX ed epidemie nel XX secolo, non ultima quella che colpì l’Italia nel 1973 con 24 decessi; ma ancor oggi provoca nel mondo decine di migliaia di morti all’anno,
- la diarrea (dissenteria) infantile, dovuta all’acqua contaminata da vari tipi di virus, batteri, tipo Shigella, e protozoi come l’ameba; provoca la morte ogni anno, nei paesi poveri, di oltre mezzo milione di bambini con meno di 5 anni,
- la spagnola e ad altre pandemie recenti di influenza (come l’asiatica del 1957 o la Hong Kong del 1968), che nel loro insieme hanno provocato molti milioni di morti,
- l’AIDS, malattia virale, originata forse da un virus degli scimpanzé, con oltre 35 milioni di morti a partire dal suo sorgere negli anni ‘80,
- diverse epidemie di ebola e marburg, provocate da virus il cui serbatoio si trova in diversi animali (scimmie, antilopi e pipistrelli), verificatesi in vari periodi, dalla fine degli anni ’70 e in varie parti dell’Africa, con migliaia di morti: l’ultima recente epidemia (2018-19) in Congo ha provocato oltre 2000 morti, molti dei quali bambini,
- epidemie da ceppi di batteri normalmente simbionti, come Escherichia coli: alcuni ceppi di E. coli sono l'agente eziologico di malattie intestinali ed extra-intestinali, come infezioni del tratto urinario, meningite, peritonite, setticemia e polmonite. Inoltre alcuni ceppi sono tossigenici, producono cioè tossine che possono essere causa di diarrea,
- le epidemie da coronavirus, precedenti all’attuale Covid-19, come nel 2002 la SARS (severe acute respiratory syndrome, che provocò oltre 800 decessi) e, nel 2012 la MERS (Middle East respiratory syndrome, con circa 850 decessi).
Ma non va dimenticato che la comune influenza stagionale, pur con un tasso di letalità inferiore a 0,1 (cioè meno di un decesso per mille malati), causa ogni anno, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), circa mezzo milione di morti in tutto il mondo e secondo Epicentro, in Italia, fino a 8 mila morti all’anno, considerando decessi diretti e per complicazioni a malattie pregresse.
Va inoltre chiarito che le varie epidemie e pandemie possono essere provocate da diversi agenti infettivi, quali virus, batteri e protozoi. A differenza dei batteri e dei protozoi che sono organismi viventi, costituiti da una sola cellula, i virus sono materiale genetico (DNA o RNA) avvolto da proteine, senza una cellula e quindi non viventi in senso stretto: possono riprodursi solo quando parassitano cellule di batteri, di piante o di animali. Per questo motivo hanno una forte variabilità dovuta ad errori durante la replicazione del materiale genetico, ciò che rende mutevoli nel tempo i virus, cha facilmente si evolvono in tipi e sottotipi, con proprietà infettive differenti.
Virali sono le influenze, l’AIDS, ebola e le malattie da coronavirus, come il Covid-19, mentre hanno origine da specifici batteri la tubercolosi, la lebbra, il colera, la dissenteria da Shigella e le infezioni da E. coli; sono invece provocate da protozoi sia la malaria che la dissenteria, causata dall’ameba. Attualmente le infezioni batteriche sembrano meno diffuse, soprattutto nei paesi più ricchi, grazie alla maggiore igiene, ai vaccini e all’utilizzo di antibiotici, tuttavia è sempre più rilevante il rischio di ceppi di batteri resistenti ad ogni trattamento farmacologico. Rimangono ben presenti le malattie virali, che vanno verso un equilibrio con la popolazione quando molte persone risultano immuni, grazie ad un livello diffuso di anticorpi (sia per pregressa malattia o per vaccino e si parla di immunità di gregge), ma che possono diventare molto contagiose e anche molto letali, se derivano da mutazioni di ceppi precedenti, o da virus di altri animali, realizzando il salto di specie (o spillover, come venne chiamato questo fenomeno in un famoso libro di D. Quammen).
Certamente il più rilevante ed interessante caso recente di pandemia è quello di influenza chiamata spagnola (1918-20), forse la peggiore pandemia della storia dell’umanità per numero di contagiati e di morti. È un tipo di influenza A, l’unico che causa pandemie.
Il responsabile è il virus A/H1N1, che tra il 1918 e il 1920 contagiò circa un terzo della popolazione mondiale, mietendo molte decine di milioni di morti, dal momento che aveva una letalità superiore al 2,5%. Mentre normalmente i tipi nuovi di virus attaccano soprattutto anziani e persone debilitate, questo tipo di virus fu particolarmente letale nei soggetti tra i 15 e i 44 anni. Circa la metà dei decessi si verificò infatti tra giovani adulti di età compresa tra i 20 e i 40 anni, fenomeno unico nella storia. Si trattava di un virus nuovo e quindi sconosciuto a tutti i sistemi immunitari. I sintomi erano febbre superiore ai 38°, tosse, mal di gola e raffreddore e altre manifestazioni come dolori alle articolazioni, letargia e mancanza di appetito. Venne chiamata “Spagnola” perché la sua esistenza fu comunicata per la prima volta dai giornali spagnoli, ma l’origine venne poi identificata in un ospedale militare francese, a Etaples: l'ospedale sovraffollato, impegnato a curare migliaia di soldati vittime di attacchi chimici e di ferite di guerra, erano un luogo ideale per la diffusione di un virus respiratorio.
E’ evidente in questa pandemia, sorta sul finire della prima guerra mondiale, la relazione tra le limitate risorse, la malnutrizione (carestia), la scarsa igiene e una popolazione, soprattutto giovani militari ammassati al fronte, debilitata dalla guerra.
Interazione tra inquinamento, cambiamenti climatici e pandemie
Come già detto, epidemie e pandemie sono uno dei possibili meccanismi di controllo delle popolazioni, insieme a carestie, guerre e migrazioni: quanto più si superano i limiti della disponibilità di risorse del territorio, quanto più si altera l’ambiente di vita, tanto più facilmente uno o tutti insieme questi meccanismi entrano in funzione. Per questo motivo l’impatto delle attività umane costituisce oggi un pericoloso rischio, dato che, come abbiamo visto, la misura dell’impronta ecologica e il calcolo dell’overshoot day, indicano che il limite è stato ampiamente superato. La crescita della popolazione umana fino agli attuali oltre 7 miliardi di abitanti, è stata resa possibile dalla Rivoluzione Industriale, che ha utilizzato enormi quantità di energia di origine fossile per attività impensabili in precedenza, non solo nell’industria, ma anche in agricoltura, con la cosiddetta Rivoluzione Verde. Il cibo ottenuto potrebbe sfamare anche più di 7 miliardi di persone se venisse equamente distribuito e prodotto in modo sostenibile, ma una iniqua utilizzazione delle risorse, una crescente disparità tra pochi ricchi e molti poveri, una riduzione delle terre coltivabili a causa della cementificazione, la perdita di fertilità dovuta alle monocolture gestite chimicamente, l’inquinamento ambientale, l’alterazione del clima, danno origine a frequenti casi di carestie e di malnutrizione in ampie fasce della popolazione, soprattutto al sud del mondo.
Inoltre il sistema produttivo industriale e agricolo consuma risorse non rinnovabili e utilizza risorse rinnovabili senza rispettare i tempi di riproduzione (vedi overshoot day), perché a partire dalla rivoluzione industriale abbiamo imposto un’economia lineare su un Pianeta il cui sistema produttivo naturale funziona in modo circolare. Infatti la vita sulla Terra esiste da oltre tre miliardi e mezzo di anni e da oltre due miliardi quasi tutto il flusso di energia che attraversa gli ecosistemi è stato ed è di origine solare: i processi sono ciclici, cioè i materiali vengono continuamente riciclati, senza produzione di rifiuti, come nel caso della fotosintesi e della respirazione. Nella fotosintesi si utilizza l’energia solare per far reagire l’acqua con l’anidride carbonica, ottenendo zuccheri e, come scarto, ossigeno; nella respirazione si ottiene energia ossidando, ma non bruciando, gli zuccheri con l’ossigeno, ottenendo come sottoprodotti acqua e anidride carbonica: cioè i sottoprodotti di un processo sono le materie prime dell’altro. Al contrario i processi lineari dell’economia umana utilizzano, esaurendole, risorse naturali, per ottenere in modo insostenibile prodotti di consumo non durevoli, e producendo in tal modo rifiuti ed inquinamento.
La conseguenza è una continua crescita dell’inquinamento atmosferico, delle acque, dei mari e degli alimenti, e un cambiamento climatico sempre più minaccioso per il mantenimento degli ecosistemi, della biodiversità e degli equilibri ambientali. Tutto ciò comporta ogni anno la morte prematura di molti milioni di persone (12 milioni, nel 2016, secondo l’OMS), ma anche un incremento di malattie cronico degenerative, con conseguente indebolimento di tutta la popolazione, che risulta meno idonea a difendersi da altre malattie come quelle infettive, soprattutto quando i farmaci o non esistono o sono divenuti inefficaci.
A questo quadro poco incoraggiante, dobbiamo aggiungere, come già accennato, che il cambiamento che stiamo realizzando nell’ambiente favorisce le mutazioni dei microrganismi e il loro salto di specie. I cambiamenti climatici e la riduzione delle foreste con l’alterazione degli habitat di molte specie animali, mette sempre più facilmente a contatto animali selvatici con esseri umani, un contatto ancora più stretto quando questi animali vengono catturati per essere venduti in mercati affollati. La carne di animali selvatici (bushmeat) offre maggiori opportunità per la trasmissione, con salto di specie, di numerosi virus dall'ospite animale all'uomo, come accertato per Ebola, HIV e varie specie di coronavirus.
Inoltre gli allevamenti in generale e quelli intensivi in particolare di polli e suini, con concentrazioni di molti capi in spazi ridotti, alimentati con mangimi medicati, contenenti antibiotici, favoriscono una forte pressione selettiva sui loro virus e batteri, che mutano velocemente verso ceppi e tipi più aggressivi anche verso la specie umana. E’ così che si sono originate le recenti epidemie di influenza aviaria, nel 2003-5, e la più pericolosa suina, del 2009 : circa il 70% delle malattie infettive emergenti ha origine dalla ravvicinata convivenza tra umani e animali selvatici o allevati.
Un’ulteriore contributo alla diffusione di agenti patogeni è dato poi dalla globalizzazione, che, grazie al frenetico trasferimento in ogni parte del pianeta di persone e merci, favorisce il passaggio da epidemie a pandemie, che trovano terreno fertile in realtà sociali dove il sistema sanitario o è stato privatizzato o è del tutto inadeguato.
La pandemia Covid-19
Dunque la nuova pandemia Covid-19 era prevedibile e ampiamente prevista, se non proprio nei termini e nei tempi precisi, sicuramente come evento probabile in conseguenza delle modifiche introdotte nell’ambiente dall’attività umana, modifiche in grado di favorire il salto di specie di agenti infettivi. Già nel 2005 l’OMS aveva raccomandato a tutti i Paesi di mettere a punto un Piano Pandemico e di aggiornarlo costantemente seguendo linee guida concordate.
Ma oltre ai ragionamenti fin qui esposti, possiamo anche ricordare che già nel 1972, nel rapporto del MIT per il Club di Roma, dal titolo “I limiti dello sviluppo”, si affermava che se la popolazione mondiale continuasse a crescere al ritmo degli anni Settanta, la crescente richiesta di alimenti impoverirebbe la fertilità dei suoli, la crescente produzione di merci farebbe crescere l’inquinamento dell’ambiente, l’impoverimento delle riserve di risorse naturali (acqua, foreste, minerali, fonti di energia) provocherebbe conflitti per la loro conquista; malattie, epidemie, fame, conflitti non solo frenerebbero la crescita della popolazione, ma ne provocherebbero una traumatica diminuzione.
Vi è poi la previsione contenuta nel libro “Spillover” di David Quammen, come egli stesso ricorda in una recente intervista: “Nel 2012, quando il libro è stato pubblicato per la prima volta in lingua inglese, ho previsto che si sarebbe verificata una pandemia causata da 1) un nuovo virus 2) con molta probabilità un coronavirus, perché i coronavirus si evolvono e si adattano rapidamente, 3) sarebbe stato trasmesso da un animale 4) verosimilmente un pipistrello 5) in una situazione in cui gli esseri umani entrano in stretto contatto con gli animali selvatici, come un mercato di animali vivi, 6) in un luogo come la Cina. Non ho previsto tutto questo perché sono una specie di veggente, ma perché ho ascoltato le parole di diversi esperti che avevano descritto fattori simili.”
Ma quali sono le caratteristiche di questa pandemia?
Oltre a quanto già previsto da Quammen, va aggiunto che il nuovo virus risulta molto contagioso, anche se non particolarmente letale (tasso di letalità probabilmente intorno a 1-2%, comunque ben più alto di quello della normale influenza che è inferiore a 0,1%), perciò difficile da contenere e prevenire, tanto più che la maggior parte dei contagiati è asintomatica o con sintomi poco diversi dalla solita influenza. Avendo fatto da poco il salto di specie, il virus non trova ostacoli nella popolazione, che non presenta difese anticorpali. Se si riuscirà a contenere la sua avanzata, come al momento sembra sia avvenuto in Cina e nella Corea del Sud, grazie ad efficaci metodi di riduzione dei contatti tra le persone, ci sarà comunque un significativo numero di decessi tra la popolazione più anziana, soprattutto con patologie pregresse. Dobbiamo poi sperare che, come succede per altre infezioni da raffreddamento, con la stagione più calda si possa avere una attenuazione della diffusione, ma di questa ipotesi non c’è alcune certezza e l’evoluzione della pandemia è ancora tutta da scoprire.
In ogni caso il pericolo maggiore che stiamo verificando sta nella rapida crescita di persone che risultano positive, con un numero importante di ospedalizzati, molti dei quali hanno bisogno di un trattamento di terapia intensiva. Se il numero dei positivi con sintomi significativi dovesse crescere ancora molto, potrebbe entrare in crisi in molti paesi il sistema sanitario, non solo perché potrebbe risultare insufficiente sia il personale sanitario che il numero di posti nella terapia intensiva, ma si potrebbero sottrarre posti letto per gli altri malati, anche molto gravi (traumatizzati, oncologici, ecc.).
Per queste ragioni è fondamentale contenere la diffusione con ogni intervento che riduca i contatti personali e risulta incredibile la proposta fatta inizialmente in Gran Bretagna da Boris Johnson, di lasciare che l’epidemia si diffonda nel paese fino ad un contagio di almeno il 60-70% della popolazione, per ottenere l’immunità di gregge.
Questa ipotesi avrebbe comportato circa 40 milioni di inglesi contagiati e, con i dati attuali di letalità (confermati anche dall’OMS), circa un milione di decessi provocati o direttamente dal virus o dall’interazione tra virus e precedenti malattie. Inoltre non c’è alcuna certezza di una adeguata immunità di gregge sia perché per certe epidemie virali serve superare l’85% della popolazione infetta, sia perché sembra che possano esserci delle ricadute, anche in persone già guarite, data la probabile mutabilità del virus. Già ora sono stati individuati, grazie allo studio delle sequenze dei genomi virali, almeno tre ceppi: la variante A, quella primordiale nata in Cina; la variante B, sviluppatasi grazie a due mutazioni chiave e diffusa inizialmente nell'Asia orientale; infine la variante C, figlia della B; i tre ceppi, ormai diffusi dappertutto, potrebbero avere comportamenti, velocità di contagio e risposta immunitaria differenti.
Cosa ci insegna questa pandemia
Questa pandemia può costituire un utile avvertimento, per evitare nuove e più gravi pandemie, sicuramente probabili. Covid-19 è una reazione (tra le altre) allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta e quindi per prevenire nuovi eventi simili dobbiamo ridurre le alterazioni dell’ambiente, come la perdita di biodiversità, l’alterazione degli habitat e i cambiamenti climatici, favorendo processi produttivi industriali ed agricoli basati sull’economia circolare, sostenibili, con ricorso a fonti energetiche rinnovabili.
Già poche settimane di blocco dei movimenti delle persone e di parziale riduzione di attività produttive hanno portato ad un netto miglioramento della qualità dell’aria per quanto riguarda le concentrazioni di NO2 (l’ossido di azoto é considerato un indicatore dell’inquinamento atmosferico), sia in Cina che in Italia: questo dato va colto non come futura necessità di impedire la circolazione delle persone e delle merci o di non produrre beni necessari, bensì di ripensare i trasporti e di rendere sostenibili le produzioni industriali ed agricole. In particolare dovremmo ridurre gli allevamenti animali: attualmente vi sono nel mondo 1,5 miliardi di bovini, 1 miliardo di suini, oltre 1,5 miliardi di ovini e caprini e varie decine di miliardi di volatili. La massa degli animali allevati è ben maggiore di quella di tutti gli esseri umani, con un uso di enormi superfici del pianeta per produrre mangimi per gli animali piuttosto che cibo per le persone, un forte inquinamento e un forte aumento di virus e batteri in grado di fare il salto di specie. Inoltre l’abuso in zootecnia di antibiotici è responsabile anche dell’aumento di batteri resistenti a questi farmaci: oltre a nuove pandemie virali, il futuro potrebbe riservarci una diffusione pandemica di nuovi batteri resistenti ad ogni trattamento farmacologico.
Anche in quest’ottica è importante rilevare le carenze, messe in luce dalla pandemia, dei sistemi sanitari nazionali, soprattutto di quei paesi dove si è scelto di smantellare il sistema pubblico: invertire questa tendenza e finanziare adeguatamente le strutture sanitarie pubbliche, insieme alle politiche di prevenzione, potrà essere un fondamentale argine a future pandemie.
Non possiamo, poi, dimenticare che stiamo assistendo a continue guerre locali, come quella in Siria, che creano “fragilità” nella popolazione, più suscettibile alle infezioni. Senza dimenticare che se la guerra diventasse globale, rischiamo la catastrofe non solo di nuove pandemie, ma dell’uso delle armi nucleari.
Considerando l’associazione tra “epidemie, carestie e guerre”, va anche ricordato quanto già detto, cioè che, secondo la FAO, il cibo oggi disponibile potrebbe sfamare più di 7 miliardi di persone, ma una iniqua utilizzazione delle risorse e una crescente disparità tra pochi ricchi e molti poveri, danno origine a frequenti casi di carestie e di malnutrizione in ampie fasce delle popolazioni più povere del mondo.
Siamo dunque di fronte ad una crescente fragilità e vulnerabilità della popolazione mondiale rispetto ad eventi catastrofici, al possibile ripetersi di epidemie come quella del COVID-19, all'impoverimento delle risorse essenziali alla vita e dobbiamo pretendere che le ingenti risorse economiche che verranno messe in campo per superare la crisi, siano indirizzate alla costruzione di un altro modello sociale ed economico, sostenibile e duraturo. A questo scopo si dovrebbe rendere obbligatoria una Valutazione Ambientale Strategica (VAS) su tutti i nuovi investimenti, con l’obiettivo di evitare sprechi di risorse, produzione di rifiuti, di inquinanti e di gas serra, perdita di territorio, in particolare boschivo e forestale. La VAS è una procedura di valutazione prevista dalla normativa europea per piani e programmi economici, al fine di valutare le ricadute sull’ambiente che deriverebbero dalla loro approvazione.
Ma altrettanta attenzione va messa nel tipo di aiuti e cooperazione verso i paesi più poveri:
nessun aiuto militare, nessun aiuto per trasferimenti di industrie inquinanti dai paesi ricchi, invece annullamento del debito, finanziamenti che permettano lo sviluppo di un’economia sostenibile, per produrre ciò che serve alle popolazioni locali, a partire da un’agricoltura come quella biologica e da strutture sanitarie idonee ad affrontare le frequenti epidemie, come quelle di diarrea infantile, che, come già detto, fanno ogni anno più di mezzo milione di vittime.
E’ interesse di tutti gli Stati cooperare in modo solidale con quelli più poveri, se vogliamo prevenire future pandemie. Un recente Rapporto dell’OCSE sulla fragilità degli stati prevede che entro il 2030, fino a 620 milioni di persone, circa l’80% della popolazione più povera nel mondo, vivrà all’interno di Stati fragili, che attraversano situazioni di emergenza, esposti a conflitti, epidemie, povertà estrema, come effetti dei cambiamenti climatici. Queste popolazioni, così fragili ed indebolite, sono “terreno fertile” per la diffusione di epidemie, che, attraverso le inevitabili migrazioni, diverrebbero gravi pandemie: dobbiamo porre un freno a questo suicidio di massa, non solo cambiando il modo di produrre, di utilizzare le risorse naturali, ma cambiando completamente il sistema che ci ha portato a questo punto, che rischia di essere “di non ritorno”. Ciò significa andare all'origine del nostro modo di agire a livello politico, economico, sociale, cioè rimettere in discussione il paradigma culturale attualmente dominante. Senza una rivoluzione culturale le cose resteranno come prima: rivoluzione culturale e cambio di paradigma richiedono anche una capacità di sovvertire la narrativa globale sul possibile domani, di prospettare, cioè, un diverso futuro, desiderabile per tutti, su basi solidali ed egualitarie e su questo dobbiamo riuscire ad esercitare, come spiegava Gramsci, "egemonia culturale". Una cultura che comunque non potrà circolare solo attraverso internet, ma che dovrà ritornare ad essere un momento di confronto reale e di vere relazioni all’interno delle comunità.