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UNITÀ TEMATICA N. 15
VERSO LA GIUSTIZIA RIPARATIVA

Il diritto e gli-occhi-negli-occhi. Sostituire la triade processo-condanna-prigione con la triade mediazione-incontro-riparazione.

Autrice

Claudia Mazzucato

L'UNIVERSALE NECESSARIO
DELLA PACIFICAZIONE
Le alternative al diritto e al processo

in AA.VV. Logos dell'essere, logos della norma.

Studi per una ricerca coordinata da Luigi Lombardi Vallauri,

Adriatica editrice, Bari, 1999, pag.1245 - 1284.

 

Inviato il 5/11/2020

da Luigi Lombardi Vallauri

 

Il presente lavoro rappresenta il tentativo di ricerca di un logos della pacificazione interpersonale.

 

Nella prima parte viene elaborata, anche attraverso il pensiero di Buber, Levinas, Madinier, Tillich, una fenomenologia della pace; vengono individuati tre diversi concetti di pace, posti in una gerarchia di crescente comunicatività-unitività interpersonale: pace come armistizio (mera assenza di guerra), pace come giustizia del dialogo e dell'incontro (nella quale le parti si riconoscono vicendevolmente e fondano una responsabilità nella relazione), pace come amore (nella quale il reciproco riconoscimento viene arricchito dall'amore, dal desiderio di bene e pienezza per l'altro).

 

Nella seconda parte viene indagato più direttamente il logos della pacificazione, attraverso la ricerca delle componenti universali e necessarie del percorso di instaurazione della pace (almeno della pace-giustizia). Alla base della pacificazione vi è il superamento della separazione, fonte di sofferenza e quindi di violenza. La pace si costruisce sulla relazione: il conflitto è un confronto e non uno scontro, l'Altro può essere avversario, non nemico. La pacificazione è un cammino di conoscenza e riconoscimento di sé e dell'Altro che sfocia nella collaborazione/riparazione e nella corresponsabilità.

 

La terza parte illustra la tipologia dei metodi di risoluzione delle controversie dal lato dei soggetti e dei contenuti. Dal lato dei soggetti, si distinguono le varie figure del terzo pacificatore e del terzo giudicante. Dal lato dei contenuti, le forme di risoluzione delle controversie sono state ricondotte entro tre categorie principali - metodi transattivi, giudiziali/contenziosi, riconciliativi -, differenziandole rispetto alla partecipazione delle parti, alla fonte e alla natura della decisione del conflitto, alla presenza e all'attività del terzo, alla rilevanza del diritto positivo rispetto alla soluzione finale. In particolare, viene distinta la struttura contenziosa, rigida, dualistica del processo (e di ogni attività giudicante) dalla struttura collaborativa, flessibile, fondata sull'apertura di una relazione e di una possibilità di incontro della mediazione. È quest'ultimo metodo, infatti, che meglio si presta a instaurare 'istituzionalmente' l'ordine etico della giustizia dialogica, rispetto al quale il diritto positivo diventa 'sussidiario', regola che esprime un 'punto di equilibrio collaudato da una tradizione'.

 




Premessa

 

Con ‘pacificazione’ si intende, quanto meno ai fini del presente lavoro, il procedimento che conduce dei soggetti in conflitto al raggiungimento di uno stato di pace. Il significato che si dà a quest'ultimo termine, non essendo univoco, diviene essenziale per determinare la struttura, il contenuto, le modalità della pacificazione. Ci sono diversi stati di pace e altrettanti modi di risoluzione dei conflitti. Si è quindi dovuto, anche sul fronte dell'indagine sull'universale, ricercare ed elaborare una fenomenologia della (essenza della) pace e una tipologia dei metodi di composizione delle liti. Si è scelto (non arbitrariamente) di considerare (vera) pacificazione interpersonale solo quella che porta, almeno, alla instaurazione di un ordine dialogico e collaborativo fra i litiganti, fondato sul reciproco riconoscimento. Soltanto al verificarsi di queste condizioni è infatti possibile parlare di pace in modo non riduttivo. I metodi di risoluzione pacifica, riconciliativa e costruttiva delle controversie sono gli unici capaci di scardinare il conflitto e creare uno stato intersoggettivo pacificato: è nelle strutture e nelle relazioni di necessità interne a questi ultimi, quindi, che va ricercato il logos della pacificazione.

Le medesime componenti di pacificazione ricorrono, come una trama onnipresente, nell'ambito della risoluzione di ogni tipo di conflitto: da quelli internazionali a quelli interpersonali a ogni livello (amicale, coniugale, familiare, sociale, giuridico civile, penale, amministrativo). Il filo nascosto del logos appare nelle dottrine religiose, nelle culture più diverse, accomuna fra loro pensatori di ogni genere, filosofi, poeti, religiosi, uomini di Stato, scienziati. 

Nello svolgere questo lavoro è stato determinante il contributo di alcune persone impegnate nel campo della mediazione e della risoluzione pacifica dei conflitti, i cui insegnamenti sono spesso ripresi e riportati in queste pagine: in particolare, Jacqueline Morineau direttrice del Centre de Médiation et de Formation à la Médiation di Parigi e il gruppo dei mediatori  del Dispute Settlement Centre di Carrboro, North  Carolina- Cal Allen, Anna Cassilly, Frances Henderson, Andrew Sachs, Jennifer Yarnelle.

Possa questo lavoro aiutare a seminare e a raccogliere qualche granello di pace.

 

 

l.  Fenomenologia della pace.

Alla nozione di pace possono essere riferite situazioni fra loro molto diverse. Una schematica indagine fenomenologica, dal punto di vista dei possibili contenuti del concetto, porta infatti all'individuazione di una struttura a gradi, così configurabile, seguendo un ordine crescente di comunicatività-unitività interpersonale:

l)  - pace come armistizio

    - pace come ordine/certezza

2) - pace come giustizia

3) - pace come amore

 

l.l.  L'armistizio, l'ordine e la certezza: la tranquillità apparente.

La mera assenza di guerra può essere vista (già) come situazione pacifica.  È questo il modo forse più frequente di porre fine (almeno momentaneamente) ai conflitti. All'armistizio sono riconducibili i vari atteggiamenti di interruzione dei rapporti con la controparte, esaurimento delle risorse (materiali o psicologiche) necessarie alla prosecuzione della contesa, rinuncia alle proprie pretese, sopportazione dell'ingiustizia e, in generale, tutte le situazioni in cui i litiganti preferiscono lasciarsi in pace piuttosto che fare la pace. È evidente che, in questi casi, il conflitto che ha dato origine alla contesa resta latente, accantonato e non risolto; permangono, infatti, sofferenza, amarezza, paura, rabbia, disagio. È possibile, allora, parlare di pace solo in modo riduttivo. Fra l'altro, queste situazioni si dimostrano precarie, perché facilmente il dissidio irrisolto darà vita a nuovi scontri.

La creazione di ordine e certezza dei rapporti è prerogativa della giustizia giuridica: di questa natura è la pace che discende dal processo giurisdizionale (e dagli altri procedimenti di tipo giudiziale/contenzioso: cfr. § 3.2.). Ma bisogna intendersi bene: l'ordine imposto attraverso l'applicazione del diritto non è un ordine armonioso, non è kosmos. Il diritto, supremo strumento di individuazione e delimitazione, instaura una tranquillità basata sulla separazione[1], su di un ordine (apparentemente) 'pulito', 'arioso', con contorni nitidi, netti tra un soggetto e l'altro, sulla definizione del diritto e del torto, del giusto e dell'ingiusto, sulla separazione - appunto -, anche fisica, dei colpevoli dagli innocenti, dei vincitori dai vinti.

Il diritto nasce per controllare la violenza, per sottrarre i litiganti alla vendetta e alla giustizia private e arbitrarie. La conservazione della sicurezza e dell'ordine finiscono, però, con il dipendere più dalla forza del diritto, dall'apparato di coazione e dall'arsenale afflittivo disponibile contro i trasgressori, che dal consenso delle parti o dall'efficacia della soluzione.

Tra la violenza e la volontà buona dei litiganti sta la legge che certifica le posizioni reciproche in base a criteri formali, prestabiliti, che rendono tali posizioni dovute, riconosciute in capo a ciascuno, esigibili e coercibili.

Anche questa è una pace in senso riduttivo: essa non può prescindere, per definizione, da un certo grado di imposizione e, quindi, da una certa dose di violenza (anche se istituzionalizzata e ritualizzata), mentre può prescindere, forse completamente, dalla riconciliazione, dalla conversione etica e dalla soddisfazione delle parti, nonché dallo sradicamento effettivo delle cause profonde del conflitto (cfr.§ 3.2.). Non è un caso, probabilmente, che "dopo che gli avvocati hanno preso la parola non si ritorna a parlarsi" (Lombardi Vallauri: 1990, 11).

 

1.2.    La giustizia del dialogo e dell'incontro: l'ordine veramente umano dei rapporti interpersonali.

La pace assicurata dal diritto si dimqstra. oggettivamente insufficiente sia sul piano etico[2] che su quello dell'effettiva risoluzione del conflitto: essa infatti, lo si è visto, non è una vera riconciliazione tra i litiganti che comporti un percorso di auto-comprensione, comprensione reciproca e conversione, nella verità, dei soggetti coinvolti.

La pace come giustizia, nel nostro schema, è invece lo stato in cui si instaura l'ordine del dialogo e dell'incontro che consente di riconoscere l'unicità/originalità delle persone e il loro "completamento reciproco attraverso il rispetto e l'arricchimento delle rispettive singolarità"[3]. Buber, Levinas, Madinier, Tillich, fra gli altri, hanno affermato essere questo l'ordine veramente umano dei rapporti interpersonali[4]: ''l'uomo diventa tale nell'incontro con l'altro" (Tillich). La pace è allora la condizione in cui gli uomini - direbbe Buber - si riconoscono vicendevolmente come dei Tu[5]. Qualsiasi altro stato di ‘pace’ è conseguito attraverso la forza, sia essa la violenza fisica, la suggestione o l'imposizione.

Ciascuno prende coscienza della presenza dell'Altro nella sua irriducibile unicità, la riconosce e l'accetta nella propria vita. Il singolo (il Medesimo, in Levinas) non si pone di fronte all'Altro nell'atteggiamento di scontro e annientamento, né con l'intenzione possessiva ed egoistica di ‘colonizzare’ l'Altro[6], ma 'accogliendone il volto'. È questo il rapporto pacifico ed etico[7]: la presenza dell'Altro non fa violenza[8], anzi, l'epifania del volto fa appello alla responsabilità verso il proprio simile e fonda la libertà di ciascuno, che altrimenti sarebbe ingiustificata e arbitraria. Nell'incontro, ciascuno vede nel Tu non più l'antagonista ma l'essere umano: è in grado così di riconoscerne i diritti, i bisogni, le ragioni, le pretese e, corrispettivamente, di affermarne senza più arbitrio e violenza i propri.

L'accoglienza del volto dell'Altro, l'incontro con un Tu fa sorgere il rispetto reciproco, il dissolvimento del disprezzo[9] e dei pregiudizi; rende illegittimo agli occhi stessi di chi agisce ogni atteggiamento volto a offendere, opprimere, soggiogare, sfruttare, imbrogliare l'altra persona; la relazione dialogica tende a distruggere il rancore e il risentimento provocati dalla lite; talvolta porta anche a rinunciare a esigere ciò che spetterebbe di diritto.

Nell'ordine del dialogo e dell'incontro, l'orizzonte particolaristico di ognuno si apre accogliendo lo sguardo dell'altro, la prospettiva di ciascuno si completa nella diversa prospettiva dell'altro. Attraverso la comprensione reciproca deriva l'arricchimento di ciascuno e sorgono le condizioni per la ricerca e lo svelamento della verità. Mentre per l'uomo chiuso nel suo egoismo, il buberiano uomo del monologo, l'uomo accecato dal conflitto, "la verità è quello che è mio" (o quello che voglio), nella relazione personale dialogica la (ricerca della) verità deriva dall'intersecarsi, dal reciproco riconoscersi e arricchirsi delle prospettive parziali. La ''vera' pace è in qualche modo necessariamente anche una pace cogntiva, una pace nella verità: per questo si tratta di una pace severa, senza sentimentalismi.

In un certo senso, è anche una pace ‘esigibile’, in quanto "rientra nei diritti di chiunque incontriamo chiederci... di essere riconosciuto come persona anche nel più impersonale degli incontri" (Tillich).

La pace, così intesa, è un ordine condiviso chiarificatore delle reciproche posizioni dei soggetti (in ciò, quindi, comprende l'ordine e la certezza), ma non si riduce a questo: mentre la separazione, l'individuazione del diritto sul torto, l'affermazione del vincitore sul vinto, proprie del giudizio, finiscono con il dar vita a un'insanabile divisione (che quindi non ricuce affatto la rottura creata dalla lite), la pace-giustizia è riconciliazione, cioè - nelle parole di Tillich - "ri-unione di ciò che è separato" (Eusebi: 1998a, 1998b), composizione di ogni divisione[10] possibilità di prosecuzione dei rapporti umani. La pace è ristabilita quando le parti del conflitto trasformano la propria visione dell'altro, quando ogni attrito è scomparso: anche da questo punto di vista, essa richiede che non vi sia alcun vincitore a scapito di nessun vinto (la vittoria e la sconfitta ingenerano e conservano sentimenti incompatibili con la pace, quali la frustrazione, il rancore, il desiderio di vendetta)[11]. La vittoria è condivisa fra tutti coloro che hanno, insieme, sradicato l'inimicizia.

La pace dei giusti comporta necessariamente un certo grado di conversione etica dei litiganti, rendendo così inutile il ricorso a qualsiasi forma di coazione o imposizione (cioè in ultima analisi di violenza): essa fa appello e, al contempo, sviluppa e rafforza la buona volontà, il con sénso, la collaborazione. Soltanto a questo livello è quindi possibile parlare di pace in modo non riduttivo, soltanto a questo livello si può dire di essere di fronte a una riconciliazione interpersonale e quindi a un vero sradicamento del conflitto.

 

1.3.   L'amore: la pace degli amanti, degli amici e dei sapienti.

La giustizia del dialogo e dell'incontro non raggiunge ancora il massimo livello di pace intersoggettiva, il massimo grado di unitività/comunicatività, perché in essa non vie e ancora assicurato queilo che Capograssi chiamava il 'bisogno del sorriso'[12], cioè il bisogno dell'uomo di essere amato e totalmente compreso dagli altri.

La 'pace piena' richiede non solo il riconoscimento dell'Altro come proprio simile (con il quale imparare a coesistere e che ciascuno deve comprendere per poter affermare la propria personalità e libertà), ma altresì il riconoscimento e l'amore per la sua meraviglia antologica; non solo rispetto dell'Altro, ma desiderio fervente del suo bene[13]. In questo senso, l'uomo pacifico desidera più di ogni altra cosa che tutti raggiungano la pienezza dell'Essere e la verità.

È questo l'ordine che si instaura tra gli amanti, i veri amici, coloro che condividono una 'cerca' sapienziale o una grande avventura, e che mira a promuovere e a realizzare, nella comune ricerca della verità, il compimento vocazionale di ciascuno, la bellezza dell'Essere, l'armonia, la 'poesia situazionale’ (Lombardi Vallauri: 1969; 1981, 431). Si tratta di una condizione completamente libera, non coercibile, non riproducibile artificialmente, uno stato di grazia, nel quale non c'è posto per il diritto e per la giustizia commisuratrice in quanto la separazione e la creazione di confini è antitetica al desiderio di mettere in comune e condividere[14]. Nell'amore, nell'amicizia personale o sapienziale ci si eleva anche al di sopra della giustizia dialogica, la giustizia "rigorosa del rispondere e della responsabilità", per attingere a quella misericordiosa della completa pacificazione interiore, del perdono, della fraternità e dell'unione, alla luce della quale si superano tutte le difficoltà (Lombardi Vallauri: 1989, 215).

La pace piena è la pace dell'amore e della sapienza. A differenza però dell'amore personale sussistente tra amici e amanti, in cui l'altro viene amato proprio per la sua amabilità, la sapienza è più adatta a fondare un amore/agape incondizionato, cioè l'amore per la bellezza dell'Essere di ogni uomo, anche il meno amabile[15], l'amore libero da qualsiasi dipendenza affettiva e necessità di riconoscimento.

Il santo, il sapiente, il 'cercatore di infinito', il costruttore di pace affrontano l’incontro (eventualmente anche lo scontro) con l'altro uomo a partire da un atteggiamento fondamentalmente 'onto-centrico' e non ego-centrico[16]. Così, nel consapevole raccoglimento interiore e, al contempo, nello spalancamento alla meraviglia dell’Essere, al mistico trasalimento di stupore davanti alla realtà, appare la pochezza e la miseria di ogni conseguimento umano egoico, la sterilità di ogni contesa[17].

Non è un caso che in ogni regola monastica, in ogni comunità sapienziale, la concordia, nascente dalla comune aspirazione alla pienezza spirituale, sia la base di ogni relazione umana. Dove c'è verità non può mancare la pace: i conflitti vengono visti così come segnali di scadimento nella ricerca della verità e della perfezione interiore, concessioni ai bassi istinti egoistici e sterili della miope affermazione di sé. Le eventuali liti vanno dunque superate, 'recuperando' le risorse feconde dell'amore compassionevole e caritatevole.

Nelle prime comunità cristiane (che si possono immaginare come comunità 'sapienziali' di ferventi discepoli) si raccomanda, per esempio, di far scomparire "ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza e ogni sorta di malignità" (Ef 4, 33) al fine di essere "benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonando(vi) a vicenda" (Ef 4, 34); di sostituire alla "parola cattiva" "parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano" (Ef 4, 29). Nella regola non bollata del 1221, San Francesco scrive: "E tutti i frati si guardino dal calunniare alcuno e evitino le dispute di parole, anzi cerchino di conservare il silenzio... E non litighino tra loro, né con gli altri, ma procurino di rispondere con umiltà dicendo: sono servo umile”[18].

Anche il Buddha predica la riconciliazione e il perdono, la superiorità agli oltraggi e ai torti, la rettitudine e la benevolenza.

Nelle comunità gandhiane fondate sulla non violenza vige un interessante sistema di riparazione delle mancanze: l'amore impone che si faccia tacere il bisogno egoico di assaporare la vendetta e la vittoria, che si ripaghi il male solo con il bene, l'ingiustizia con la giustizia amorevole; pertanto, alla punizione (che per definizione dipende dal giudizio di un altro) viene sostituita la penitenza (che affida allo stesso colpevole l'esecuzione della sentenza) e l'assunzione libera e volontaria, da parte dell'innocente, della colpa e dell'espiazione di colui che si rifiuta difarlo[19].

Resta da chiedersi se la vera pace perfetta non sia ipotizzabile solo tra esseri angelici, tra soggetti che colgono l'essenza delle cose, assolutamente sinceri e autotrasparenti gli uni agli altri. Pare che la pace abbia bisogno della permanenza nella verità (intesa anche qui in senso non riduttivo: non come mera assenza di falsità, piuttosto come manifestazione del dover essere delle cose); si può allora immaginare che, nell'ipotetico mondo angelico, ogni cosa viene colta nell'economia del fine ultimo che essa è chiamata a svolgere nella storia dell'Essere: la limpida visione dell'assoluto rende impossibile il turbamento della pace.

Nella Terra degli Uomini, per riprendere un'immagine di Lombardi Vallauri, anche il più riuscito rapporto d'amore amicale, coniugale o sapienziale nasconde lungo il cammino qualche insidia sul fronte della pace piena e perfetta: non è questo il problema, purché il disinteressato riconoscimento della meraviglia di ciascuno aiuti a ristabilire l'ordine del sorriso.

 

 

2. lI logos della pacificazione.

 

2.l. La natura del conflitto. Conflitto e contesa.

Nelle pagine che precedono è emerso che vi è pace (non riduttiva) solo dove si instaura (o si mantiene) una relazione tra i soggetti, per quanto fredda e non necessariamente amichvole. A ben vedere, quindi, non tutte le situazioni di contrapposizione escludono la pace: fintanto che fra le parti sussiste un 'dialogo', una comunicazione, un linguaggio condiviso che consenta loro di esprimersi (e, ultimamente, di capirsi), la contrapposizione non si connota negativamente. Si può anche essere avversari senza inimicizia.

Il conflitto viene, invece, generalmente associato a sentimenti e esperienze negative, sgradevoli e drammatiche: sofferenza, aggressività, rabbia, fastidio, frustrazione, isolamento. Queste dimensioni, però, non sono legate al conflitto in quanto tale, bensì al modo in cui esso viene percepito, vissuto e gestito. Il conflitto finisce, così, per trasformarsi in (o essere identificato con) guerra, scontro, contesa, dissidio (Ceretti: 1998; Bush-Folger: 1994, 81; Crum: 1988, 29-53; Fisher-Ury: 1991; Felstiner: 1974; Gulliver: 1969).

Di per sé, il conflitto è un confronto, al più una prova: confronto con l'Altro, la diversità, la difficoltà, l'ignoto. Il confronto è una condizione naturale dell'esistere dell'uomo: per poter essere l'uomo deve confrontarsi (con gli altri, lo spazio, con il tempo, la finitezza, le circostanze), quindi relazionarsi (Morineau : 1997).

Il conflitto è alla base di ogni progresso, di ogni apprendimento, di ogni superamento dei propri limiti; in natura, esso è sostanzialmente un'opportunità creativa, non necessariamente lieta o piacevole, ma sempre comunque utile[20]; ogni scoperta, ogni avventura si fonda, in ultima analisi, su una situazione conflittuale superata creativamente[21].

La contesa, il dissidio sono, invece, l'evoluzione 'patologica' del conflitto, in cui la contrapposizione dà vita all'incomunicabilità, distrugge la relazione, crea separazione. La contesa è la negazione del confronto - o forse sarebbe meglio dire dell'incontro -; a ben vedere, essa finisce con l'essere l'annientamento dell'Altro, la negazione stessa della sua esistenza e del suo spazio vitale, la sua uccisione simbolica. Sofferenza e violenza ne sono i frutti[22].

Tale visione delle cose va ben oltre la dimensione dei conflitti interpersonali. È difficile non associare questa idea di separazione al dualismo proprio della cultura occidentale, che si fonda sulla contrapposizione degli opposti: bene - male, luce - buio, giusto - ingiusto[23]. L'uomo occidentale, non sapendo "pensare per antinomie polarizzate"[24] - cioè collocare gli opposti in un tutto unitario - è diviso (Naegeli: 1989, 61 ed autori ivi citati). Non è in grado, per esempio, di accettare e integrare il male; le forze negative che si agitano in lui vengono così negate, rimosse, ammassandosi nell'inconscio, diventando distruttive: "il proprio male che si teme e si detesta viene proiettato, in virtù di un processo inconscio, sul prossimo... e in costui odiato, combattuto e domato" (Naegeli: 1989, 60). Si tratta della 'proiezione dell'ombra' che dà vita alla figura del 'capro espiatorio', dell'essere umano che diventa 'calamita' del male e dell'odio della società.

La filosofia cartesiana rafforza l'idea di separazione, porta "un conflitto tra volontà cosciente e istinti involontari. Ogni individuo è... (così) ulteriormente suddiviso in base alle sue attività, capacità, sentimenti, opinioni, ecc., in un gran numero di compartimenti separati, impegnati in conflitti inestinguibili... Questa visione non unitaria è ulteriormente estesa alla società che viene suddivisa in differenti nazioni, razze, gruppi religiosi e politici. La convinzione che tutti questi frammenti - in noi stessi, nel nostro ambiente, e nella nostra società - siano realmente separati può essere vista come la causa fondamentale di tutte le crisi attuali, sociali, ecologiche e culturali... un'ondata di violenza, sia spontanea che istituzionalizzata, che cresce sempre di più e un ambiente inospite, inquinato, nel quale la vita è diventata fisicamente e spiritualmente insalubre"[25].

La condizione di separato e negato è dolorosa per l'uomo, il quale ricerca modalità di superamento, di ricostituzione dell'unità. Nell'impossibilità strutturale, culturale di ritrovare la relazione, la violenza- fisica o verbale - finisce con l'essere, talvolta, il solo canale espressivo a disposizione. Il conflitto diventa contesa: la violenza diventa manifestazione della sofferenza (Morineau: 1997); il rigido dualismo vincente/perdente, colpevole/innocente fa sì che l'avversario diventi nemico. Nell'isolamento e nel dolore della separazione e della negazione, è vitale per l'uomo vivere lo scontro a partire dal bisogno di affermarsi e di avere ragione che prevale, paradossalmente, proprio sull'importanza di ripristinare la relazione e ricercare una soluzione. Vincere finisce con il coincidere con l'affermazione del proprio diritto di esistere, negato dall'assenza di riconoscimento da parte dell'Altro, negato da una visione settoriale, antinomica, separata della realtà.

L'uomo moderno vive privo di silenzio e, forse, non si è pienamente consapevoli di quanto ciò possa influire sulla conflittualità, intra- e inter-personale, rendendola oltremodo negativa. Il rumore, il frastornamento che circondano l'uomo di oggi alimentano (se non fanno sorgere) gli scontri (si pensi alla violenza presente in certe periferie urbane). In un mondo disordinato, disarmonico, rumoroso lo sforzo per riconquistare l'unità, la pienezza, l'aspirazione a diventare un tutto diventano immani e ancora più dolorosi. Si è già visto nel § 1.3. quanto il raccoglimento interiore sposti l'attenzione dall'io al tutto: senza silenzio è impossibile che gli esseri umani si 'accorgano' gli uni degli altri. (cfr. anche § 3.3.).

Nello scontro, l'uomo si sente indebolito, vulnerabile; cerca quindi di rafforzarsi, rendendosi chiuso a qualsiasi 'esposizione’, prima di tutto al riconoscimento e alla compassione verso l'Altro (Bush-Folger: 1994). Accade anche, però, che l'essere umano arrive ad auto-annientarsi e a negarsi nel disperato tentativo di conquistare (o ripristinare) la vicinanza dell'Altro.

Luomo moderno è poi estremamente 'addomesticato', quindi ulteriormente incapace di 'esporsi', di mettersi in gioco in situazioni delle quali perda il 'dominio ' e il controllo. Si irrigidisce, così, in atteggiamenti di indisponibilità a imparare commettendo errori, di intolleranza, di intransigenza verso tutto ciò - e tutti coloro - che pongono 'avventurosamente’ in discussione certezze, abilità, conseguimenti. Viene perso man mano lo stato mentale aperto e dinamico che i buddhisti zen chiamano 'mente del principiante’[26] e che è, fra l'altro, proprio dei bambini (Crum: 1988, 117, 121, 131ss; cfr. anche § 2.2.).

Tornando al meccanismo della contesa, le parti si identificano ben presto con a posizione presa, diventando personaggi che agiscono secondo un copione che deve condurre alla vittoria. L'oggetto della controversia viene come accantonato o diventa un pretesto. Così facendo il conflitto perde la sua oggettività e 'si personalizza', non è più uno scontro 'su' qualcosa, ma 'fra' qualcuno che, fra l'altro, si maschera, si nasconde, si imprigiona in un ruolo (Morineau: 1997).

Gli effetti di questa situazione sono evidenti: la creazione di una crisi di comunicazione, l'inasprimento o la rottura delle relazioni interpersonali, l'incapacità di ricercare una soluzione, la rabbia, la frustrazione e, di nuovo, la sofferenza, la violenza.

Nel paragrafo precedente si sottolineava l'importanza della verità per la fondazione della pace; è interessante verificare come nel contesto di una lite ci sia appunto una quasi totale 'dimenticanza' della verità: a parte infatti l'accanimento nella ricostruzione dei fatti del passato, finalizzato esclusivamente a determinare colpe e responsabilità[27], la realtà viene completamente falsata e distorta dalle dinamiche conflittuali. Il litigio vive sul fraintendimento e sul pregiudizio che non sono altro, a diversi livelli, che la sostituzione della realtà oggettiva con una convinzione soggettiva, spesso arbitraria. Si vengono così a creare quelle situazioni senza uscita, in cui anche le buone intenzioni vengono travisate, perché interpretate alla luce delle proprie percezioni dettate da ostilità e paure. Allo stesso modo vengono letti i gesti, le parole, i comportamenti dell'altro. La necessità di proteggersi ed evitare la sconfitta porta ciascun contendente ad aggredire, a non svelare i reali sentimenti, gli effettivi bisogni e interessi e a nascondersi dietro pretese volutamente esorbitanti e posizioni intransigenti: tutto ciò contribuisce ad allontanare la verità e la ricerca di un accordo risolutivo.

Le risorse e le energie dei soggetti coinvolti nella lite vengo disperse; la dicotomia, l'aut aut insiti nel rigido arroccarsi su petizioni di principio produce l'effetto di lasciare troppe opportunità prive di realizzazione[28].

 

 

2.2. La struttura a priori della pacificazione:

la  comprensione,  il  riconoscimento,  la  riparazione / la  soluzione collaborativa, la corresponsabilità.

Si è visto come solo nell'apertura di una comunicazione, nel riconoscimento e nell'accettazione dell'Altro, nel completamento delle prospettive parziali volto allo svelamento della realtà si verificano le condizioni per instaurare una pace non riduttiva. Si è poi evidenziato come la contesa sia la degenerazione patologica di un fatto di per sé naturale (il conflitto), dovuta principalmente alla rottura di una relazione che produce una sterile, dolorosa competitività per l'affermazione del proprio ‘diritto di esistere’.

Vedere e percepire se stessi e l'altro come portatori di un appello primordiale, tanto semplice quanto essenziale - quello di 'esistere’, di non venire dimenticati, di non essere lasciati soli nella propria sofferenza - fa cadere la paura che conduce l'uomo all'aggressione. Anche nei conflitti più quotidiani e semplici, la trasformazione in contesa è radicata su questo meccanismo: l'oggetto materiale della lite, infatti, proprio in questi casi, è così banale, così manifestamente insignificante rispetto alle dimensioni emozionali e al dolore che essa sprigiona. Se non ci fosse 'dietro' qualcosa - la negazione (o il percepire la negazione) di questo bisogno essenziale -, la soluzione, il più delle volte, verrebbe trovata banalmente, senza tragicità.

Un procedimento di pacificazione deve quindi necessariamente scardinare i meccanismi sopra indicati. La (reciproca) massima comprensione di sé e dell'altro (comprensione), la risposta all'appello che scaturisce dal volto dell'Altro (riconoscimento), la ricerca di soluzioni congiunte attraverso lo sfruttamento delle potenzialità nascoste nelle differenze (riparazione/soluzione collaborativa) e la condivisione dei meriti e delle responsabilità di ogni decisione (corresponsabilità) sono le chiavi per svelare i rapporti di necessità insiti in ogni pacificazione[29]. La pacificazione, come ama dire Jacqueline Morineau, è, prima di tutto, un percorso di educazione, di conoscenza e di trasformazione, che awiene attraverso una relazione.

 

La comprensione

Non ci può essere pacificazione possibile fintanto che le persone restano chiuse, oscure a se stesse e alla controparte, prigioniere di un punto di vista, dentro il dolore della separazione. La riconciliazione si gioca in gran parte sulla capacità di e, prima ancora, sulla disponibilità a, guardare e ascoltare.

Questo concetto è ben espresso nelle parole di Tich Nhat Hanh, il monaco buddhista impegnato, durante la guerra del Viet Nam, in una straordinaria opera di pacificazione: "Quando sorgono la rabbia e l'odio dobbiamo preparare il terreno perché sorga anche la comprensione. Se smettiamo di pensare e di parlare si aprirà davanti a noi spazio per vedere e capire. Perciò, nel momento in cui sentiamo nascere l'irritazione, dobbiamo inspirare ed espirare in consapevolezza mettendo tutta la mente nel respiro. Poi con tutta l'energia della presenza mentale, possiamo guardare profondamente..." (Thich Nhat Hanh: 1994, 158).

Capire la controparte significa cogliere gli elementi con(tro) cui ciascun contendente deve misurarsi: il vissuto, le convinzioni, le percezioni, la visione che essa ha dei fatti, delle circostanze, della stessa persona dell'avversario (Fisher- Ury: 1991, 22 ss). Allo stesso modo è utile 'ascoltarsi', osservando anche la propria esperienza, la propria attesa, la propria posizione. La comprensione è quindi un atto con cui si prende coscienza della realtà[30]; essa implica un'astensione almeno momentanea dal giudizio, sostituita da un 'dare la parola', consentire l'espressione di ciò che si agita nell'animo, di ciò che, nella contesa, turba e ferisce (Morineau: 1997). Grazie all'oggettività (forse verità) che porta con sé, essa aiuta a 'separare’ le persone dal conflitto, uscendo dai ruoli, per incontrare l'essere umano nella sua 'nudità', nella sua innocenza, nella sua inoffensività.

Comprendersi misurandosi  con la realtà crea, inoltre, una  comunanza di prospettiva: i litiganti non si percepiscono più l'uno contro l'altro, ma l'uno accanto all'altro contro ciò che, nella difficoltà, li accomuna (Crum : 1988, 138 ss; Fisher- Ury: 1991, 37).

Per poter capire occorre, infatti, aprire il proprio angolo visuale[31]: imparare ad ascoltare, fare domande piuttosto che pretendere di avere risposte[32], essere disponibili alla correzione del proprio unilaterale punto di vista e alla possibilità di essere persuasi (Crum: 1988, 132 ss). Tutto ciò implica sia il non anteporre il (pre)giudizio alla verifica, sia la sollecitazione del confronto con l'altro, sia la considerazione non intransigente ma obiettiva delle pretese altrui, con la conseguenza che, nella comune ricerca delle motivazioni del conflitto, non occorre difendere e attaccare la posizione di nessuno.

L'atteggiamento di apertura e 'curiosità' non ostili verso la comprensione della realtà rende possibile la comunicazione: non parlando per imporre e nemmeno per convincere, ma con l'intento di farsi capire, dimostrandosi attenti a tutto quanto proviene dalla controparte, si induce una certa disponibilità all'ascolto reciproco, a non rifiutare in modo precostituito ogni suggerimento o proposta di provenienza unilaterale. Questo porta a una visione globale e veritiera della situazione che consente di valutare modalità e praticabilità di eventuali proposte di soluzione. L'apertura alla vera comprensione porta anche all'autolimitazione spontanea di fronte all'eventuale riconoscimento della pretestuosità o arbitrarietà della propria pretesa e della veridicità o equità di quella altrui.

Il soggetto mosso dal desiderio di comprensione non si lascia intrappolare nei meccanismi conflittuali: non sollecita le reazioni dell'avversario, non dà supporto agli sfoghi polemici opponendo rabbia alla rabbia, ma ascolta la controparte, la invita a concludere il discorso, dà - appunto - la parola. Consente che l'intransigenza, l'impraticabilità delle pretese altrui si mostrino da sole in virtù della loro oggettiva incoerenza. Egli per e empio veicola le informazioni spiacevoli in modo da non scatenare reazioni difensive: è infatti più convincente e persuasivo esporre l'impatto che qualcosa ha avuto su di sé, piuttosto che additare eventuali responsabilità dell'altra persona nella creazione delle circostanze sfavorevoli.

La pacificazione passa anche attraverso la comprensione dei motivi di rifiuto alla collaborazione e degli eventuali interessi ad esso collegati, nonché attraverso atteggiamenti non violenti, volti a necessitare la risposta costruttiva dell’altro, costringendolo, ancora una volta, al confronto con l’incoerenza manifestata. La non violenza è l'atto di disarmare l’avversario, con la forza costrittiva, poi persuasiva, poi convincente della verità (Lanza del Vasto: 1980, 152). L’intransigenza e la chiusura senza appello sollecitano, postulano e abbisognano della reazione dell’altra parte, la cui mancanza può già avere un effetto sorprendente. Di fronte all'intransigenza, infatti, normalmente si reagisce: si critica la posizione altrui apponendovi la propria, si accusa l'avversario difendendosi dalla sue accuse; ogni reazione determina una contro-reazione. Per interrompere questo circolo vizioso occorre cessare (rifiutarsi) di reagire e cominciare a (cor-)rispondere.

(Cor-)Rispondere significa prestare incondizionatamente attenzione, dare ascolto all'avversario, richiedere inesorabilmente di mostrare i fondamenti di ogni petizione di principio, anticipare l'irrigidimento difensivo con la sollecitazione del giudizio critico e del consiglio altrui, conducendo la controparte fino alle estreme conseguenze delle sue affermazioni.

Si è visto come il desiderio di capire porti all'apertura mentale e alla disponibilità al cambiamento della propria posizione, mentre la dinamica della contesa conduce verso rigide posizioni difensive che alimentano lo scontro. Una metafora interessante di tutto ciò è fornita dall'arte marziale dell'aikido, nella quale l'aggressione deve venire trasformata in energia con la quale fondersi e integrarsi. L'energia dell'attacco deve venire 'osservata', rispettata e infine dissipata attraverso l'accettazione, senza alcuna contrapposizione. L'aggressore non viene combattuto: l'abile 'docilità' con la quale l'attacco viene ricevuto sbilancia e annienta l'avversario, senza violenza, senza offesa, senza scontro. Nell' aikido, infatti, non si desidera la sconfitta del nemico, bensì il ristabilirlo in un equilibrio che ha perduto (Crum: 1988, 40 ss, 131 ss).

Capire non significa dare ragione, subire le decisioni dell'altro, acconsentire supinamente alle sue condizioni. Lo sguardo aperto sulla realtà non è soggezione, ma libertà, liberazione dalla prigionia del proprio punto di vista, del bisogno di affermazione, prevaricazione, gratificazione. Si tratta di una vera prigionia perché rende l'uomo vittima, e non artefice, delle circostanze, costretto a reagire contro di esse o a evitarle per non incontrare la sconfitta, l'annientamento, il fallimento. In questo, la pacificazione è fonte di mutua conversione dei litiganti: chi si apre alla sincera scoperta della realtà si trasforma, diventando più 'forte’, equilibrato, armoniosamente integrato con il circostante. Solo da questa condizione vigile e libera è possibile agire, come nell’aikido, non contrastando ma assecondando l'avversario fino al totale ristabilimento dell'equilibrio interrotto dalla lite[33].

Un livello più elevato di consapevolezza (raggiunta attraverso pratiche meditative e sapienziali) potrebbe condurre le parti verso la prospettiva 'onto-centrica' (v.§ 1.3), in cui esse prendono coscienza non solo dell'universo del conflitto che stanno vivendo, ma dell'Universo in cui, secondo realtà, esse sono inserite, e nel quale i litiganti sono come minuscoli esserini che giocano una sorta di partita a dadi su una cengia circondata dall'abisso del mistero. I problemi degli uomini, le loro controversie, per quanto importanti e dolorosi, non sono che invisibili frammenti nella storia dell'essere, di fronte alla quale ciascuno è chiamato a dare un contributo di bellezza. La piena realizzazione umana di ogni persona è l'unico modo per farlo.

 

Il riconoscimento.

Attraverso la comprensione, l'apertura alla correzione, la comunanza di prospettiva le parti possono liberarsi definitivamente dalle posizioni rigide, cioè a dire difensive, che caratterizzavano lo stadio iniziale per lasciar emergere alloro posto tutta la sofferenza, tutto il desiderio, tutta l'attesa di ciascuno, le ragioni profonde, i bisogni reali sottostanti al conflitto.

La manifestazione di queste componenti è indispensabile non solo per riuscire a giungere a una soluzione concordata, ma anche per riuscire a rispondere all'appello di ciascuno, in mancanza del quale non si instaura alcuna relazione, non vi è pace.

In ciò si sostanzia il riconoscimento dell'altro che supera la comprensione. Quest'ultima si colloca, infatti, ancora a un livello 'mentale’. Riconoscere significa qualcosa di più: sperimentare la vicinanza, aderire al 'vissuto' e al 'sentito' dell'altro, incontrare la sua storia, accogliere l'appello. Riconoscere la sofferenza di chi è in contesa è compatire, anzi empatire, nel significato etimologico dei termini. L'empatia (en pathos, sentire dentro) è, infatti, l'identificazione (con), la 'realizzazione’ (nel senso di to realize) a livello emotivo dell'esperienza e della sofferenza dell'altro.

È bene sottolineare come il riconoscimento venga dato prima ancora che ricevuto: alla base della pacificazione non vi è (solo) l'appagamento del bisogno di considerazione dell'essere umano, bensì l'acquisita capacità di 'accorgersi' di e avvicinarsi all'altro, muovendosi oltre la propria pretesa: in questo sta la potenzialità di conversione e di trasformazione della pacificazione (Bush - Folger: 1994, 92).

Il riconoscimento scardina la contesa, perché sostituisce alla negazione e alla separazione, l'accoglienza, l'affermazione dell'esistenza dell'altro. Riconoscendo si dà, in un certo senso, la vita.

 

La riparazione/ la soluzione collaborativa.

Solo quando i soggetti in conflitto sono arrivati a ri-conoscersi è possibile intraprendere la via della riparazione o della ricerca di una soluzione, cioè la via della trasformazione della sofferenza (Morineau: 1997; Umbreit: 1996; Bush - Folger: 1994). È interessante notare come una vera pacificazione sia 'severa', rigorosa, ben lontana dal sentimentalismo, dall'indulgenza e dalla sopportazione: essa non ammette il dimenticare o il trascurare il male e la sofferenza che ciascuno ha causato.

Ciò è particolarmente evidente nei casi in cui alla base del conflitto vi è un torto, un'ingiustizia, una violenza subita. Fintanto che tutto ciò non viene identificato e riconosciuto è impossibile qualsiasi forma di riparazione (in mancanza di riconoscimento della sofferenza della controparte, che cosa viene riparato?). Più in profondità, si capisce come, in questo modo, venga superata anche la logica vendicativa della retribuzione del male con il male. È chiaro che il male commesso non può in alcun modo essere cancellato (come invece avrebbe preteseo Hegel)[34]: esso può, però, essere oltrepassato, trasformato, nella "apertura al futuro di una ricostruita comunione" (Wiesnet: 1987, 120; si veda anche Eusebi: 1998a, 1998b). Il desiderio corrisposto di riparazione, di 'ricostruzione’ che scaturisce dalla pacificazione assomiglia molto al perdono di cui parla Levinas: il perdono consente la reversibilità del tempo, permettendo al "soggetto che si era compromesso in un istante trascorso di essere come se l'istante non fosse trascorso, il soggetto non si fosse compromesso"[35]; il perdono agisce sul passato, non cancellandolo, bensì purificandolo ('come se’ l'istante non fosse trascorso), lasciando nei soggetti una sporgenza di felicità che non è altro che l'atteggiamento psicologico proprio della riconciliazione. In questo modo - come afferma Madinier - "io dimostro a colui che mi ha offeso che metto l'unione al di sopra di tutto, che spezzo qualsiasi esclusione tra lui e me; così ricreo il noi, rivolgendomi a ciò che in lui è più profondo dell'essere che mi ha offeso: al tu"[36]. Nella "ri-unione di chi si era reso estraneo" viene soddisfatta la "richiesta intrinseca di ogni essere" di venire "di nuovo accettato nell'unità di cui fa parte”[37].

Il reciproco riconoscimento dei litiganti e l'emersione della sofferenza e dei bisogni di ciascuno creano le condizioni per tentare l'elaborazione collaborativa di opzioni risolutive mutuamente soddisfacenti. Si tratta dell'altro straordinario beneficio dell'apertura mentale, della comprensione e del riconoscimento: la scoperta, la fantasia attenta, la ricerca creativa delle potenzialità nascoste. Una volta liberati dalla costrizione imposta dal doversi difendere, dal dover prevalere, si aprono gli spazi per imparare, 'co-creare’, riacquisire, cioè, quello stato di equilibrio e apertura di cui si parlava in conclusione del § 2.1. (Crum: 1988, 111 ss, 131 ss, 173 ss, 231 ss) [38].

Nell'ambito conflittuale, questo atteggiamento si accompagna alla collaborazione ed è volto a superare l'insufficienza e l'insoddisfazione di epiloghi scontati come vittoria/sconfitta, compromesso.

L'arroccarsi su posizioni precostituite, infatti,- oltre a rendere inevitabile lo scontro- conduce a epiloghi 'rigidi' sempre riduttivi rispetto alle effettive opportunità; inoltre, l'attenzione posta sulle ragioni profonde del conflitto in vista di un suo superamento portailitiganti a volgersi costruttivamente verso il futuro, piuttosto che consumare risorse nel raccogliere prove per confermare le proprie accuse e la giustezza delle proprie tesi; infine, la manifestazione di motivazioni e bisogni rende esplicito l'intento perseguito che non è accusatorio della singola persona, ma difensivo di un'oggettiva necessità che richiede attenzione e soluzione.

 

La corresponsabilità.

Occorre analizzare l'idea di corresponsabilità rispetto a due piani diversi: l'uno, più superficiale e immediato, riguarda l'accordo risolutivo della controversia, l'altro, più profondo, è invece la conseguenza di quanto si è detto in merito al superamento del dualismo, alla necessità di integrazione degli opposti (§ 2.1.).

Quanto al primo aspetto, la semplice considerazione che ogni persona desidera poter determinare liberamente le proprie azioni chiarisce l'importanza dell'assunzione di una soluzione sorretta dal consenso degli interessati. La mancanza di consenso implica sempre una certa misura di imposizione, vale a dire la permanenza di 'resti' di insoddisfazione e risentimento, eliminati solo dall'appagamento, al più alto grado, delle esigenze di tutti. La vera pacificazione comporta, allora, l'assenza di vinti; la vera soluzione di un conflitto risiede necessariamente in una Vittoria condivisa, in una vittoria di tutti: ogni altra situazione è insoddisfacente e non risolutiva. Vittoria di tutti significa contributo di tutti al risultato finale. Non basta pervenire alla migliore soluzione possibile; per eliminare il conflitto occorre che i soggetti coinvolti si assumano la paternità della decisione conclusiva. La condivisione dei meriti dell'accordo è anche condivisione dei pesi da esso derivanti, cioè corresponsabilità. La vittoria di tutti diviene così garanzia della realizzazione del risultato prescelto. Ciascuno è responsabile nella misura in cui ha contribuito, collaborato e spontaneamente aderito all'accordo: per non smentirsi, deve dunque farsi garante.

Quanto invece al secondo aspetto, l'idea della corresponsabilità si sposa alla concezione unitaria dell'uomo e della realtà nella quale gli opposti vengono integrati. In particolare, l'accettazione del (proprio) male, dell'ombra, del buio genera nell'uomo un atteggiamento di concolpevolezza (Naegeli: 1989, 69), cioè di auto-responsabilizzazione e di tolleranza verso gli altri. Sapere di non essere immuni dal male porta a 'condividere’ le responsabilità, il che consente all'uomo di muoversi verso l'Altro, di fare un primo passo nella direzione dell'accettazione e dell'accoglienza, cioè della riconciliazione. Viene in mente il riferimento al concetto biblico di tsedaqah, la giustizia del primo passo, volta non alla distruzione e all'annientamento, bensì a uno "scopo salvifico, espresso proprio nel termine shalom" (Wiesnet: 1987).

La condivisione delle responsabilità, in questa ottica allargata, comporta quindi l'impossibilità di attribuire colpe, esonerandosi dall'autocritica: è per questo motivo che le regole della non violenza richiedono l'assunzione volontaria del castigo di chi si rifiuta di subire la punizione, ciò sta a dimostrare che anche l'innocente porta in qualche misura il peso della mancata conversione del colpevole.

A un livello collettivo, la corresponsabilità rispecchia l'idea di interdipendenza fra gli esseri umani e, ultimamente, fra tutto ciò che esiste. Tale concetto esprime non solo la possibilità di raggiungere risultati migliori attraverso la collaborazione e il soddisfacimento vicendevole delle rispettive esigenze, ma, più in profondità, l'impossibilità per gli esseri umani di prescindere gli uni dagli altri nonché dall'ambiente in cui vivono. L'universo non è costituito da entità isolate, ma da 'sistemi viventi' dove il singolo è, appunto, in rapporto di interdipendenza rispetto al tutto[39]. Ciò è particolarmente vero nel mondo moderno, nel quale la complicatezza e l'estensione dei problemi richiede l'individuazione di soluzioni congiunte e l'adozione di rimedi su scala planetaria[40].

 

 

3. Alcuni a posteriori empirici interessanti. Tipologia dei metodi di composizione delle controversie.

Una tipologia dei metodi di risoluzione delle controversie deve essere condotta a due livelli: da un lato, individuando i soggetti a vario titolo protagonisti del componimento del conflitto, dall'altro, evidenziando modalità e contenuti propri di ciascun metodo.

 

3.1 Tipologia dei metodi a livello dei soggetti.

I conflitti possono essere risolti:

I)  - tra i contendenti

II) - con l'intervento di un terzo pacificatore:

a. l'amico, il parente, il conoscente

b. il mediatore 'tradizionale’:

-   l'anziano, il saggio

-   il religioso, la guida spirituale

c. il mediatore/ conciliatore 'istituzionale-convenzionalÈ:

-   i lay-men, i membri della comunità locale di appartenenza dei contendenti

-   il mediatore professionista

-   lo psicologo

-   gli enti esponenziali (sindacati, associazioni di categoria)

-   l'autorità di pubblica sicurezza

d. il mediatore / conciliatore giurista:

-   l'avvocato

-   il giudice in sede conciliativa

III) - con l'intervento di un terzo giudicante:

a. l'arbitro

b. il giudice onorario o non togato (giudice di pace, giudice popolare)

c. il giudice magistrato

L'elenco copre gli spazi intersoggettivi di composiziope dei dissidi secondo un ordine di crescente istituzionalizzazione (e professionalità giuridica) e sempre minore 'intimità' con le parti del conflitto. Si è voluta introdurre fin d'ora la distinzione tra mediazione e conciliazione, essendo più appropriato definire con quest'ultimo termine il generico componimento volontario di un conflitto, a prescindere dalla effettiva pacificazione interpersonale, riservando il termine mediazione al lavoro di ricostruzione di una relazione tra i confliggenti. Nell'impossibilità di descrivere ogni singola figura indicata nello schema, si passeranno velocemente in rassegna le più significative.

La vicinanza geografica, socio-culturale alle parti accomuna i primi livelli della scala sopra indicata. Ad essa sono associati meccanismi risolutivi di tipo riconciliativo che meglio si adattano a eliminare in radice le cause del conflitto e a rendere possibile la prosecuzione delle relazioni interpersonali: è già stato visto come "la soluzione sanzionatoria (la decisione sulla ragione e sul torto) divide il gruppo sociale tra i partigiani del vincitore e quelli dello sconfitto, la soluzione accettata da entrambe le parti mantiene compatta la comunità" (Denti: 1980, 428).

La giustizia resa dai collegi degli anziani, dai saggi nei villaggi e nelle società tribali è una giustizia non burocratica, consuetudinaria, sostenuta da un ampio consenso sociale, il cui unico obiettivo è quello di restaurare la pace per garantire la sopravvivenza dell'unità del gruppo (Denti: 1980: 427), facendo leva sulla forza persuasiva derivante dall'autorevolezza e dalla tradizione universalmente riconosciute e accettate dai consociati (Cappelletti - Barth: 1978 vol. I). Accanto all'anziano e al saggio, si trova il religioso chiamato di fatto a svolgere compiti di pacificatore: un esempio di tale figura si rinviene nel rabbino del Beth Din, il tribunale rabbinico[41].

In tempi più recenti, la necessità di recuperare un'amministrazione locale della giustizia con funzioni riconciliative, più idonea, in certi casi, a garantire una migliore tutela alle pretese e alle liti 'minori', ha condotto all'introduzione di istituzioni di lay-justice, i community o neighborhood justice centres, in cui le controversie vengono portate davanti a membri delle stesse comunità di appartenenza dei litiganti, i quali tentano il bonario componimento del dissidio[42]. Un modello di lay-justice 'spontanea' è il sistema di composizione delle controversie vigente nelle favelas brasiliane[43]. I 'mediatori' sono prevalentemente i presidenti delle associazioni di moradores e occasionalmente i missionari o gli adepti spiritisti[44].

Esistono anche spazi 'professionali' di pacificazione: nei centri di mediazione specializzati, il componimento delle liti avviene al cospetto di esperti appositamente addestrati. I mediatori possono, ma non devono, avere qualifiche particolari (dall'esperienza internazionale emerge che negli uffici di mediazione lavorano prevalentemente giuristi, psicologi, assistenti sociali, educatori, ma soprattutto semplici volontari): in ogni caso, sarà necessario che essi lascino, in qualche misura, in disparte le proprie competenze 'altre’, per affrontare - fuori da ruoli e dalla dimension e 'intellettuale’ - l'incontro con gli esseri umani coinvolti nel conflitto (Morineau: 1997). Tra il mediatore e le parti si instaura un rapporto professionale, che prevede il sorgere di obblighi in capo al primo (neutralità, segretezza, riservatezza) e l'impegno in capo ai disputanti di attenersi alle regole comportamentali impartite dal terzo (Wahrhaftig: 1984, 53: Odom: 1984, 5 ss). In alcuni casi è prevista anche un'attività didattica dei mediatori che non sono più chiamati solo a risolvere la controversia, ma possibilmente a insegnare alle parti (o a terzi) le tecniche di composizione pacifica da utilizzare in altri frangenti.

La lite può essere superata avvalendosi dell'aiuto di uno psicologo o di un esperto in psicoterapia. La riconciliazione viene promossa attraverso il ristabilimento dell'equilibrio interiore, del benessere psicologico turbato dalla situazione conflittuale. La prospettiva terapeutica, peraltro, parte da un presupposto di azione 'curativa' che, di per sé, non rientra nella pacificazione. Se è vero che i conflitti sono episodi del tutto naturali, anzi utili, essi non abbisognano di 'cure’. L'emersione della sofferenza e di altre componenti emotive, insita anche nel cammino riconciliativo, viene, solo nell'ambito della psicoterapia, messa in relazione con il passato e alla luce di quest'ultimo spiegata e curata (Umbreit: 1996).

Un ruolo di composizione dei conflitti è altresì affidato agli enti esponenziali o alle associazioni di categoria istituzionalmente deputate ad assolvere compiti di rappresentanza e tutela di determinate posizioni o istanze soggettive. Come nei casi fin qui esaminati, il pacificatore è un soggetto rappresentante delle parti, profondo conoscitore degli interessi coinvolti nelle varie controversie. Nella prassi, però, i procedimenti concretamente attuati sono di tipo transattivo o arbitrale e non propriamente riconciliativo[45].

Tra i compiti attribuiti dal nostro ordinamento all'autorità di pubblica sicurezza vi è anche la 'bonaria composizione dei dissidi privati' (art. l T.U.L.P.S.), realizzata attraverso la presentazione volontaria delle parti davanti agli ufficiali di pubblica sicurezza i quali, "senza imporre il loro giudizio", adottano una soluzione "che valga a prevenire eventuali incidenti" (artt. 5 e 6 del Reg. esec. T.U. L.P.S.). La polizia svolge anche un'attività di pacificazione 'sul campo' e nell'immediatezza del fatto, contribuendo così a prevenire l'escalation di taluni conflitti che creano allarme sociale. Non sempre il risultato di tale attività si sostanzia in una vera pacificazione interpersonale a causa, fra l'altro, della percezione del carattere coattivo-repressivo di questo organo.

Anche l'avvocato, come lo psicologo, interviene, per certi aspetti, sulle difficoltà del rapporto interpersonale: la causa, il processo sono "avvenimenti patologici della comunicazione interpersonale, la crisi più grave prima del passaggio alla violenza" (Lombardi Vallauri: 1981, 620ss; 1990, 10-12). Il rapporto di confidenza e fiducia che si instaura tra cliente e avvocato, il suo distacco emotivo dalla controversia, il suo essere aduso al trattamento di situazioni conflittuali portano, di fatto, questo soggetto a svolgere, talvolta, anche un compito di pacificatore o di preparatore alla pacificazione. Egli cumula alle conoscenze giuridiche la conoscenza delle dinamiche conflittuali e l'abilità nelle tecniche di persuasione: si presta a diventare un 'confessore laico' delle parti, un "esperto di strutture di rapporto", un suggeritore di punti di equilibrio collaudati da una tradizione (Lombardi Vallauri: 1981, 620ss; 1990: 10-12; Cosi: 1987, p. 136ss, 144ss, 15lss).

La conciliazione dei litiganti può avvenire anche in sedi tradizionalmente giurisdizionali, come nei casi di tentativo di conciliazione effettuato dal giudice togato o onorario. Nonostante le perplessità circa la possibilità di abbinare efficacemente le funzioni giudicanti con quelle conciliative, il giudice-pacificatore può far leva sulla forza persuasiva derivante dal potere di decidere la controversia che non sia stata consensualmente composta. L'autorevolezza del giudice potrebbe influire anche sull'equità dell'eventuale accordo e sulla sua stabilità. A parte la scarsa applicazione delle norme in questione, il tentativo di conciliazione si traduce spesso, di fatto, in una sterile transazione.

Restano da analizzare le possibilità di intervento del terzo in qualità di giudicante. Non si tratta necessariamente di un magistrato: anche l'arbitro, che pure è scelto dalle parti (le quali stabiliscono di deferirgli la decisione), agisce in qualità di giudice. È un giudice 'privato' che formula un giudizio - secondo diritto o equità - vincolante per entrambe le parti.

Accanto ai giudici privati si situano i giudici 'laici' e onorari, soggetti esercitanti la giurisdizione per conto dello Stato, ma non appartenenti all'ordine giudiziario (per esempio, i giudici di pace). È però il magistrato togato l'autorità per antonomasia legittimata a esercitare la giurisdizione, a dichiarare e dare attuazione alle norme giuridiche in caso di mancata osservanza, eventualmente anche con mezzi coercitivi. Il giudice viene scelto per la sua competenza tecnica e non per le sue doti attitudinali o le sue aspirazioni vocazionali, conformemente alla natura dell'attività che è chiamato a svolgere: lo ius dicere (v. § 3.2.2.).

In questa analisi relativa ai soggetti che svolgono un'attività di pacificazione, vale la pena interrogarsi, sul fronte dell'universale, su quei (s)oggetti che, di fatto, pacificano e leniscono l'animo umano, con riflessi anche interpersonali. In un certo senso, l'arte, la poesia, la musica, la natura (forse anche la scienza, in chiave 'realizzativa dell'Essere’) sono dei 'mediatori naturali'. Come afferma Lombardi Vallauri, restare con il proprio antagonista in contemplazione di un Vermeer difficilmente lascia perdurare una contesa. I limiti di questo scritto non consentono che un cenno superficiale. Certamente le arti, la natura - così come la sapienza e il silenzio - conducono alla prospettiva 'onto-centrica' già ricordata (§ 1.3.- 2.2.), ma pare anche che essi svolgano una vera e propria opera di 'mediazione', creando un legame 'tra' l'individuo e il tutto, il particolare e l'universale, il diviso e la pienezza. Un verso poetico, un paesaggio, una melodia fanno sentire l'uomo riconosciuto nella sua emozione, nel suo desiderio, nella sua ricerca esistenziale.

 

3.2. Tipologia dei metodi a livello dei contenuti.

è possibile raggruppare i vari metodi di risoluzione dei conflitti in tre categorie[46]:
  • metodi transattivi (negoziazione),
  • metodi giudiziali - contenziosi (arbitrato - processo giurisdizionale)
  • metodi riconciliativi (mediazione)

Le variabili rilevanti ai fini della classificazione sono così riassumibili: partecipazione delle parti e fonte della decisione del conflitto, natura della decisione (compromesso, accordo, sentenza, ecc.), presenza e attività del terzo neutrale, rilevanza del diritto positivo ai fini della soluzione finale.

 

3.2.1. Metodi transattivi.

Nella prassi, è molto comune che i conflitti vengano risolti attraverso la negoziazione o transazione, cioè un procedimento bilaterale (senza intervento di un terzo) in cui le parti, "facendosi reciproche concessioni pongono fine ad una lite già cominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro" (è questa, per esempio, la definizione del codice civile - art. 1965 c..c.).

Nella negoziazione, le parti hanno un assoluto controllo sull'iter e sul risultato del procedimento, il quale è improntato alla volontarietà e al consenso (Gulliver: 1969). Inoltre, la negoziazione non si sostanzia in un giudizio; non ha, cioè, lo scopo di accertare il rapporto controverso, ben potendo le reciproche concessioni essere risolutivamente efficaci, anche prescindendo da una loro coerenza con la situazione reale e con la stretta applicazione del diritto positivo[47].

L'aspetto che più interessa è la 'reciprocità delle concessioni': lanegoziazione è ricerca di compromesso su posizioni rigide, contrattazione sulle rispettive pretese e non percorso di comprensione della controparte e dei relativi bisogni e interessi. Al termine del procedimento transattvo, ogni parte otterrà solo ciò che l'altra è disposta, o è stata convinta, a concedere, ma entrambe 'lavorano' per rendere l'accordo conclusivo il più possibile conforme alle proprie precostituite posizioni. Il compromesso non intacca l'idea di 'vittoria' (o almeno di contesa), non impedisce atteggiamenti di reciproca chiusura, può lasciare 'resti' emotivi di rancore, aggressività, insoddisfazione, frustrazione, non dà vita ad alcun fenomeno  di empatia.

Raramente, quindi, attraverso la negoziazione, i soggetti approderanno a una reale riconciliazione interpersonale: manca, infatti, generalmente, la trasformazione del 'punto di vista' di ciascuna parte derivante dal riconoscimento dell'altro e quella 'creatività collaborativa' di cui si è parlato nelle pagine precedenti. L'accordo frutto di compromesso difficilmente coinciderà con la soluzione che incontra i legittimi interessi di ognuno nella massima misura possibile e in modo equo e che promuove, o almeno non danneggia, le relazioni personali tra le parti.

Vale la pena precisare, infine, che, nella pratica, i procedimenti e gli istituti di conciliazione si risolvono in realtà in transazioni facilitate da un terzo (si veda§ 3.1.).

 

3.2.2. Metodi giudiziali - contenziosi.

L'arbitrato è la composizione della lite effettuata da un terzo scelto dalle parti, cui esse hanno deferito il giudizio sulla vicenda controversa, impegnandosi a rispettarne la decisione. Caratteristica dell'arbitrato è il fatto che le parti si vincolano anticipatamente alla decisione arbitrale, cessando così di avere un controllo finalistico sul risultato del procedimento: il controllo delle parti si esaurisce nella scelta della persona dell'arbitro e nel deferimento a costui della soluzione finale. L'arbitrato è un vero e proprio giudizio, di diritto o di equità, emesso in seguito a un procedimento in contraddittorio tra le parti; è un processo privato, dotato di struttura giudiziaria, condotto da giudici privati, scelti e nominati dalle parti mediante contratto (compromesso o clausola compromissoria)[48]. Lo stesso risultato del procedimento, il lodo arbitrale viene recepito nella giurisdizione ordinaria attraverso atti formali volti a parificarlo a ogni effetto alla sentenza giudiziale.

Mentre l'arbitrato confina il controllo delle parti a una libera scelta del metodo, il processo giurisdizionale[49] riduce ancora di più questo controllo, fino a quasi annullarlo. Il terzo giudicante non è scelto dalle parti e talvolta il suo ingresso nella contesa non dipende nemmeno dalla loro volontà (almeno nei casi di cosiddetta procedibilità di ufficio, dove l'iniziativa del singolo è irrilevante ai fini dell'attivazione del procedimento). Né l'iterprocessuale, né il risultato conclusivo richiedono l'assenso delle parti, in alcuni casi nemmeno la loro presenza fisica, essendo i contendenti sostituiti dai rispettivi avvocati (e potendosi svolgere il processo anche in contumacia).

Il giudice è l'autorità istituzionalmente legittimata e preposta a imporre la decisione ed eventualmente a servirsi, per questo, di mezzi coercitivi. Ciò dipende dal fatto che non è richiesto il consenso delle parti alla soluzione del conflitto, né la loro collaborazione nella sua definizione. Corollario di questo è che l'adeguamento alla sentenza non si verifica spontaneamente per la maturazione di una vera convinzione circa i meriti della stessa, bensì per il timore delle conseguenze connesse alla sua inottemperanza, con la conseguenza che le decisioni di questo tipo vacillerebbero e sarebbero facilmente ignorate se non fossero coattive.

Il processo è il luogo della trasformazione istituzionale del conflitto in contesa. Essendo sostanzialmente la ritualizzazione della vendetta e della violenza privata (mediante la sottrazione al singolo del potere di reagire autonomamente alle offese e l'attribuzione dello stesso alla 'forza pubblica')[50], il processo è l'arena dove le parti si scontrano, dove al combattimento fisico viene sostituito quello verbale o a colpi di atti giudiziari. Il conflitto si sposta investendo il meccanismo che dovrebbe risolverlo. Il problema originario delle parti resta quasi in secondo piano, mentre tutta l'attenzione, tutte le energie vengono spese nel meta-conflitto. È qui che bisogna vincere, anche perché l'epilogo del meta-conflitto è usato come strumento di decisione di quello originario (American Bar Association, 1979: 905ss; Golding: 1969, 86ss; Galtung: 1965, 349ss)[51].

Quanto alla natura dell'attività, essa si sostanzia in un giudizio: l'affermazione del diritto sul torto, la ricerca e la valutazione di fatti del passato come leciti o illeciti, l'attribuzione di responsabilità di/per una determinata condotta o un certo evento (Ceretti: 1996a, 204).

Il diritto positivo costituisce il criterio in base al quale emettere in modo imparziale tale giudizio: il giudice enuncia - non senza averla interpretata - la regola giuridica applicabile al caso concreto, definendo a questa stregua la soluzione del conflitto e sancendone la fine (Fiss: 1984, 15 ss, 23 ss; Gulliver: 1969, 186 ss, 200 ss). Quale parametro di giudizio, la norma giuridica svolge un'importante funzione garantistica, perché predetermina e vincola l'attività del giudice-autorità. Che il diritto sia indispensabile nel processo lo si vede anche dal lato dei soggetti che vi prendono parte attiva: il possesso della necessaria competenza giuridica è alla base delle modalità di reclutamento dei magistrati; inoltre, le parti non possono difendersi da sole, abbisognano del patrocinio tecnico degli avvocati.

Quanto poi alla ricerca della verità, essa si rivela una pretesa impossibile (tanto è vero che la locuzione è stata espunta dal nuovo codice di procedura penale italiano): nel processo l'"incertezza è lucidamente accettata... Il processo è una macchina per trasformare il probabile in certo; esso mima la pura ricerca della verità, in realtà vi si intreccia inscindibilmente un momento deliberativo-politico in funzione pratica" (Lombardi Vallauri: 1981, 106)[52].

Nel riprendere le riflessioni svolte al § l.l., è interessante notare come, all'esito del giudizio (specialmente quello penale), "un soggetto giudicato responsabile e condannato diventa (s)oggetto di un rapporto di forza" (la carcerazione, l'esecuzione forzata) (Ceretti: 1996a, 23).

Ma il processo va ben oltre e giunge, attraverso il giudice e la sentenza, a "significare a qualcuno la propria identità. Il giudice impone sempre un nome ('condannato', 'responsabile’, 'prosciolto'...), che è anche un'essenza sociale, dichiarandolo davanti a tutti, e attribuisce così con autorità una qualità a un determinato soggetto" (Ceretti: 1996a, 31). Il processo diventa una 'cerimonia di degradazione dello status sociale’ che si traduce spesso, drammaticamente, in una self fulfilling prophecy (Campagnini: 1983, 153 ss ed autori ivi citati).

L'istituzionalizzazione del conflitto nel procedimento giudiziale favorisce la permanenza delle persone in ruoli prestabiliti, cosa che agevola il compito di separazione che il diritto e il suo strumento attuativo devono realizzare per gestire la violenza e il disordine. Nel rito processuale i Tu non si incontrano mai: non c'è riconoscimento possibile, perché gli antagonisti, l'uno verso l'altro, sono privi di volto.

Inoltre, le parti - cioè a dire i ruoli, i personaggi - non si relazionano mai fra loro- se non per scontrarsi: i canali di comunicazione sono aperti esclusivamente verso il soggetto detentore del potere decisionale (anch'esso attore in un ruolo).

Il fatto che la decisione finale nei sistemi contenziosi sia frutto di giudizio è un ulteriore elemento che, paradossalmente, ostacola l'eliminazione del conflitto. Innanzitutto, spesso, non è sufficiente l'accertamento dei fatti per comporre la controversia. Inoltre, la definizione della ragione sul torto fa sì che al termine di un processo ci siano sempre dei vincitori e dei vinti, cosa che necessariamente produce il perdurare (nei vinti) di sensazioni di rancore, insoddisfazione o vergogna che possono dare origine a nuove controversie, all'interruzione dei rapporti personali o comunque a un loro peggioramento.

La competitività dei sistemi giudiziali è collegata anche al carattere rigido e categorico della sentenza, al quale si contrappone invece l'adattabilità e la flessibilità dell'accordo collaborativo (Galanter: 1988, 295 ss; 1980, 11 ss; Gulliver: 1969, 7). La sentenza giurisdizionale è necessariamente di accoglimento o di rigetto, di condanna o di assoluzione. I possibili epiloghi sono predefiniti e tra loro autoescludentisi e inconciliabili. Da qui l'incapacità di tali sistemi a sfruttare al meglio tutte le possibilità risolutive offerte dalle circostanze.

Un'ultima considerazione attiene alla natura delle sanzioni. Le sanzioni (civili, amministrative o penali) derivanti dall'attività giudicante di riconoscimento del torto, dell'illiceità, della responsabilità sono di tipo repressivo (nonostante le eventuali finalità risocializzative e preventive, mirano di fatto alla punizione del colpevole).

È ormai chiaro che il processo giurisdizionale (e, in generale, i procedimenti contenziosi, adversary), pur essendo indispensabile, un segno di civiltà rispetto alla vendetta privata e alla giustizia sommaria, non è idoneo a pacificare le parti di un conflitto: pare proprio che esso sia uno strumento di separazione istituzionalizzata. Restando necessario in certi casi e in certi contesti, potrebbe essere l'extrema ratio rispetto a mezzi non giudiziari, riconciliativi, più adatti a comporre le controversie ricostituendo una relazione[53].

 

3.2.3. Metodi riconciliativi.

Nel richiamare integralmente quanto descritto nei paragrafi 2.2. e ss. a proposito della conflict resolution (che costituisce il contenuto più profondo di tutti i metodi riconciliativi, non giudiziali, di risoluzione delle controversie), basterà soffermarsi in questa sede sull'istituto della mediazione in cui si sostanzia l'applicazione 'istituzionale’ delle tecniche di pacificazione[54].

È difficile fornire una definizione di mediazione: si corre un duplice rischio, quello del sentimentalismo e quello della banalità. La mediazione sembra voler sfuggire a incasellamenti dogmatici, non si presta ad analisi giuridiche; è uno strumento 'umile’, dalle potenzialità notevoli, che 'tocca' la sfera profonda dell'uomo, l'emotività, l'aggressività, la sofferenza (seppure gestite in una prospettiva non terapeutica: cfr. Umbreit: 1996; § 3.1.).

È ben vero che vi sono, in questo ambito, approcci e applicazioni molto diversi: dalla formale 'tecnologia' di risoluzione del conflitto nelle mani di un terzo che applica certe 'regole’ che dovrebbero condurre le parti al compromesso; al cosiddetto 'problem solving, incentrato sulla soddisfazione materiale degli interessi delle parti, favorita e incentivata dall'intervento del terzo (Fisher - Ury: 1991); alle impostazioni più feconde (e più recenti) che vedono la mediazione come un procedimento che può portare alla reale trasformazione della persona attraverso l'incontro con l'Altro, tenendo conto delle dimensioni e delle potenzialità relazionali, spirituali, emotive, umane del conflitto (Morineau: 1997; Bush-Folger: 1994; Umbreit: 1996).

La mediazione, intesa in quest'ultimo senso, è la risoluzione dei conflitti fondata sull'incontro degli individui, alla presenza di un terzo neutrale. Tale incontro è volto alla ricostruzione di una relazione, di una comunicazione, di un linguaggio condiviso, attraverso l'empatia, il riconoscimento reciproco, per consentire la ricerca e l'elaborazione consensuale, collaborativa di una soluzione soddisfacente. Nel suo significato più profondo, essa è come uno spazio, un tempo nel quale il kaos, la separazione, la sofferenza possono trovare espressione - senza dover diventare violenza - perché non negati, non repressi; non-aggrediti (Morineau: 1997). Con una definizione efficace di Jacqueline Morineau, ormai spesso ripetuta, la mediazione è 'dare la parola al disordine’, per trasformarlo in ordine (Ceretti: 1996a, 202)[55].

A seconda degli ambiti di applicazione, l'istituto della mediazione è più o meno collegato al sistema della giustizia tradizionale, sulla quale incide con effetti giuridici ben precisi (il 'contatto' è maggiore laddove i diritti e gli interessi coinvolti nel conflitto non sono ‘disponibili', cioè sfuggono all'autonomia privata, si pensi alla mediazione penale).

La mediazione si svolge in un contesto informale, più emotivo che razionale. Il mediatore non è protagonista, non è dotato di alcuna autorità, è sprovvisto di qualsiasi potere sulle parti e sull'esito del procedimento; è, però, una presenza essenziale, perché deve rendere possibile il percorso di riconoscimento reciproco e di empatia tra le persone in conflitto, creare un clima di fiducia nel quale esse si sentano di impegnarsi in un vero dialogo (Umbreit: 1996), sorreggere lo scambio tra di esse per la trasformazione del punto di vista e dell'immagine dell'altro. Il mediatore non entra nel conflitto, non cerca di 'capirlo', tanto meno di risolverlo o di aiutare i confliggenti. Il mediatore deve 'accompagnare’ le persone lungo il (difficile, doloroso, ma liberante) cammino di conoscenza e di ascolto che porta alla visione trasformata della realtà. È per primo il mediatore che si pone in empatia con i confliggenti, accogliendo e riconoscendo la sofferenza e il bisogno di affermarsi di ciascuno, rispondendo così all'appello del volto. Il mediatore sostituisce la cecità o la distorsione dello sguardo con un'immagine: è uno specchio che rinvia il vissuto della persona (Morineau: 1997) affinché ciascuno possa, per prima cosa, capirsi e poi capire e riconoscere l'altro. La mediazione scardina la prigionia in un ruolo e promuove, rende possibile l'incontro tra i Tu.

Il lavoro di attenzione, riconoscimento e accoglienza - da una posizione neutrale - non è di tipo 'intellettuale’, ma 'spirituale’: per poterlo svolgere il mediatore deve essere 'centrato' (Umbreit: 1996, 9; Crum: 1988, 53 ss), in equilibrio interiore; il suo specchio deve essere pulito (Morineau: 1997; Crum: 1988, 66) attraverso, per esempio, il silenzio, la meditazione, la preghiera, il contatto con la natura (Umbreit: 1996, 9; Crum: 1988).

Il silenzio ha grande importanza nel procedimento di mediazione: le parole del mediatore e delle parti devono cadere in un vuoto per poter risuonare. Il silenzio è lo spazio, è il tempo per respirare spiritualmente, riflettere, consentire alle emozioni di lavorare nell'animo. È solo dentro il silenzio che il kaos può diventare kosmos (Morineau: 1997).

Nella prospettiva della mediazione come problem solving, il mediatore ha un compito più superficiale e più 'direttivo': quello di ingenerare e sostenere atteggiamenti di cooperazione tra i litiganti mediante il loro diretto confronto, assicurando la comprensione reciproca delle rispettive posizioni, garantendo una comunicazione non distorta e sterile, facendo emergere gli interessi sottostanti alle pretese di ciacuno, sottolineando i punti di convergenza, proponendo criteri di valutazione oggettivi. L'abilità del mediatore sta in ultima analisi nel creare le condizioni per spersonalizzare la contesa, riportandola nell'ambito del merito oggettivo, al fine di condurre le parti alla scoperta della migliore soluzione possibile.

È stato visto come nella mediazione i soggetti coinvolti nella lite mantengono il controllo sia sull'iter di pacificazione che sull'accordo conclusivo, in quanto tutto il procedimento è fondato sull'adesione degli interessati e l'organo preposto alla riconciliazione è privo di potere o forza di coazione: non potendo essere imposto, il risultato finale deve necessariamente essere sorretto dal consenso dei litiganti (cosa che rende la soluzione conciliativa più idonea a durare nel tempo e a sradicare le cause del conflitto).

Mancando la figura del giudice, le parti si devono 'convincere’ vicendevolmente, così che i canali di comunicazione diretta si aprono fra di loro (Chupp: 1989, 67; Gulotta - Santi: 1988, 88 ss; ·Abel: 1980, 165 ss, 173; Felstiner - Williams: 1980, 195ss; Gulliver: 1969, 5 ss). I protagonisti della vicenda conflittuale hanno così un'occasione unica di contatto e di incontro, una possibilità di ricevere e prendere la parola.

La soluzione del conflitto nasce dalla collaborazione delle parti; supera la logica giudiziaria, dualistica, del vincente/perdente - colpevole/innocente, ma supera, anche il compromesso: essa non è solo integrativa delle posizioni di ciascuno, ma creativa della soluzione massimamente, mutuamente soddisfacente. Nel procedimento conciliativo, infatti, la soddisfazione delle parti è un elemento importante: queste ultime devono ricercare una soluzione che 'vada bene per loro'[56]. Non è necessario che l'accordo derivi dalla stretta applicazione del diritto (purché certamente non sia contrario all'ordinamento). Le norme giuridiche diventano allora uno fra i criteri oggettivi in base ai quali decidere il merito delle varie questioni att inenti al conflitto. Il riferimento al diritto consente di individuare soluzioni, punti di equilibrio collaudati dall'esperienza (Cosi: 1987).

La mediazione instaura un clima positivo/costruttivo, nel quale l'attenzione è tutta rivolta alla individuazione di una soluzione che definisca i comportamenti che le parti devono tenere nel futuro (salvaguardando il più possibile i rapporti interpersonali). Il passato, però, non viene affatto ignorato, è, anzi, un punto di partenza per un superamento. Il procedimento, infatti, non si conclude con l'accertamento della responsabilità per qualcosa, va oltre, nell'affermazione reciproca, volontaria di una responsabilità che trova fondamento proprio nella relazione, cioè di una responsabilità verso qualcuno (Ceretti: 1996a, 204; 1998). È per questo che le 'sanzioni' che trovano posto nella mediazione, lungi dall'essere repressive, sono di natura restitutiva e riparativa (cfr. § 2.2.): più che di vere sanzioni, si tratta di misure fondate sulla 'sensibilizzazione’ e responsabilizzazione dell'autore del comportamento dannoso o pericoloso, il quale deve attivarsi concretamente e costruttivamente a beneficio del soggetto o del bene leso. Questo tipo di risposta acquista un significato particolarmente fecondo nell'ottica della corresponsabilità di cui si è parlato nelle pagine precedenti (§ 2.2.), soprattutto nell'ambito penale, dove può portare ad un superamento della centralità del carcere in chiave risocializzativa e ad una maggiore attenzione alla persona offesa dal reato (Eusebi: 1990, 39, 76, 98, 100, 110 ss).

In conclusione, sembra proprio che la mediazione sia il modo di risoluzione 'istituzionalizzata' dei conflitti che più si avvicina al logos della pacificazione e che si rivela più adeguato a instaurare tra gli uomini l'ordine etico della giustizia dialogica.

La trama del logos della pacificazione permea ancora troppo poco la giustizia giuridica. L'esistenza di spazi 'istituzionalizzabili' di pacificazione interpersonale comporta necessariamente un ripensamento dell'intero sistema. Muta infatti, in questa prospettiva, la funzione che esso deve assolvere, muta il significato del diritto positivo, mutano, così, anche i compiti, i modi di reclutamento e di formazione degli operatori. La giustizia che emerge dall'indagine svolta in queste pagine è una giustizia non ostile, che mira a realizzare, ove possibile, la comprensione reciproca dei litiganti e, in un certo senso, una loro 'conversione’ etica; una giustizia 'su misura', perché attenta alla storia passata e a tutte le implicazioni e le conseguenze che la decisione/soluzione può avere sulla vita e sull'avvenire delle persone coinvolte; una giustizia che non mira alla separazione senza appello, ma alla disponibilità vicendevole. In questo quadro, si è visto, il diritto perde la sua centralità: le istanze riconciliative promuovono la collaborazione dei protagonisti della controversia e, così, le norme giuridiche finiscono con il diventare 'sussidiarie’, ipotesi equilibrate, 'collaudate’ dalla pratica, dalla generale applicazione, ‘miniere di risorse’ per uomini di buona volontà alla ricerca della soluzione più oggettivamente giusta e intersoggettivamente pacificante.

Più in generale, il messaggio che traspare dal logos della pacificazione insegna a leggere nel volto dell'Altro il bisogno di infinito, di incontro e di 'sorriso' proprio di ogni uomo.

 

 

 

"La pace non può identificarsi con la fine dei combattimenti, per la sconfitta degli uni e la vittoria degli altri, cioè con i cimiteri e gli imperi universali futuri. La pace deve essere la mia pace, in una relazione che parte da un io e va verso l'Altro, nel desiderio e nella bontà in cui l'Io contemporaneamente si mantiene ed esiste senza egoismo"

(Emmanuel Levinas)

 

 

"E non ci siano più né gelosie né rivalità

né vittorie né motivi di discordia tra gli uomini,

ma ci siano solo amore e pace fra tutti.

E ognuno conosca l'amore del suo prossimo

in quanto il suo prossimo

cerca il suo bene

desidera il suo amore

e agogna il suo costante successo,

al fine di potersi incontrare con lui e a lui unirsi,

per parlr e insieme e dirsi l'un l'altro

la verità ... in questo mondo"

(Rabbi Nachman di Brezlav)

 

 

"L'Amore (agape) è paziente, l'Amore è benigno;

l'Amore non è invidioso, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto,

non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto,

non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità.

Tutto copre, tutto crede, tutto sopporta"

(I Cor., 13, 4-8)

 

 

"Che non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato,

quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi,

non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede;

e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato.

E se in seguito mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi,

amalo più di me per questo"

(San Francesco)

 

 

"Sovente vi ho udito dire di chi sbaglia:

non è uno di noi, è un intruso, estraneo al nostro mondo. (...)

Ma io vi dico. ...

come la foglia non ingiallisce senza che tutta la pianta ne sia la complice muta,

così il malvagio non potrà nuocere se non con il volere nascosto di tutti (...)

E quando cade uno di voi, egli cade per chi segue, e lo ammonisce col suo

inciampo.

Ahimè, pure egli cade per chi gli sta dinnanzi, benché

sicuro del suo piede non rimosse l'ostacolo"

(Kahlil Gibran)

 

 

La vittoria crea odio. La sconfitta crea sofferenza.

Il saggio non desidera né la vittoria

né la sconfitta"

 (Buddha)

 

 

''Due anziani abitarono per lunghi anni la stessa cella e mai vennero tra loro in contesa.

Uno disse all'altro un giorno: 'Proviamo a far lite tra noi due come fanno gli altri'.

E il frate interpellato disse: 'Non so cosa sia mai una lite'.

E il primo: 'Ecco tra me e te metto un mattone e io comincio col dire: questo è mio, e tu rispondi: no, non è tuo, è mio; le liti cominciano sempre in questo modo'. Misero in mezzo un mattone e uno disse: 'Questo è mio’; e l'altro rispose: 'No, è mio'.

E il primo: 'Se è tuo prendilo e va in pace’.

E non riuscirono a far lite tra loro"

(racconto dei padri del deserto)

 

 

"... giudicare significa postulare l'ingiustizia di un'azione

e invocare quindi il giusto contro di essa.

... (gli uomini) Vogliono giudicare perché senza giudizio non c'è pena,

perché vogliono essere giusti,

in una parola perché riconoscono nel giudizio un momento eterno,

di fronte al quale si arresta il loro moto convulso..."

(Salvatore Satta)

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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Sono stati altresì citati i seguenti testi:

M. Buber, Il principio dialogico, trad. it., Edizioni di Comunità: Milano, 1959.

E. Levinas, Totalità e infinito. Saggi o sull'esteriorità, trad. it., Jaka Book: Milano, 1982/1990.

G. Madinier, Coscienza e giustizia, trad. it., Giuffrè: Milano, 1973.

P. Tillich, Amore, potere e giustizia, trad. it., Vita e Pensiero: Milano, 1994.

 

 

 

[1] Si veda in questa raccolta G. Cosi, Logos giuridico e archetipi normative. Una proposta intorno agli universali del diritto.

[2] Si veda ancora Cosi, in questo volume, il quale sottolinea l'insufficienza della legge, affermando che una radicale alternativa alla violenza è possibile soltanto nel "riconoscimento meta-giuridico della presenza dell'altro".

[3] G. Auletta, "La pace quale dimensione permanente dello spirito", in Comitato Cattolico Docenti Universitari, La pace come dimensione dello spirito, 1967, 285ss.

[4] M. Buber, Il principio dialogico, trad. it., Edizioni di Comunità: Milano, 1959; E. Levinas, Totalità e infìnito. Saggio sull'esteriorità, trad. it., Jaca Book: Milano, 1982/1990; G. Madinier, Coscienza e giustizia, trad. it., Giuffrè: Milano, 1973; P. Tillich, Amore, potere e giustizia, trad. it., Vita e Pensiero: Milano, 1994.

[5] Cfr. Buber: "Io creo il Tu come persona, il Tu crea me come persona, simultaneamente nella pienezza dell'essere". Per Buber i modi di porsi dell'uomo di fronte all'altro sono tre e si sostanziano nell'atteggiamento dell'osservatore, dello spettatore e della persona che prende coscienza dell'altro. Per lo spettatore e l'osservatore, l'altro è un Id; non si costituisce alcun rapporto. Se divento cosciente della presenza dell'altro uomo costituisco invece una relazione dialogica con un Tu. Anche in Tillich si ritrovano concetti simili: "Soltanto incontrando un Tu, (l'uomo) si rende contro di essere un Io.... Il Tu richiede, con la sua mera esistenza, di essere riconosciuto come Tu da un Io e come un Io da sé medesimo". Analogamente, in Levinas le possibili relazioni con l'Altro sono riconducibili alla logica della contraddizione - cioè la negazione dell'Altro -, della partecipazione dialettica che riconduce l'Altro all'unità e alla totalità del Medesimo e, infine, alla relazione etica dell'accoglienza del volto. Il volto dell'altro uomo che mi guarda dal profondo degli occhi, che voglio far scomparire nell'annientamento e nella negazione dell'alterità, dovuta all'egoistica volontà di affermazione dell'Io, fonda l'impossibilità morale dell'omicidio. Al contempo l'eterno appello del volto infinito dell'Altro rende impossibile qualsiasi tentativo di sottrazione alla responsabilità che quell'appello invoca, quindi, in ultima analisi, impossibilità morale anche del suicidio: sul punto, Lombardi Vallauri: 1989, 210.

[6] In Levinas, l'Altro è definito come l'assolutamente altro, il trascendente, l'infinito proprio perché è irriducibile alla totalità (negazione dell'alterità), cioè all'egemonia dell'io che vorrebbe dominarlo, possederlo, assimilarlo.

[7] Levinas identifica la moralità proprio con l'attenzione all'Altro, ai suoi bisogni e all'appello di infinito che si esprime sul suo volto.

[8] La resistenza dell'Altro è di natura etica: per Levinas, il volto paralizza il mio potere perché l'appello di infinito che vi compare si erge senza difesa nella sua nudità e, insieme, nella sua maestà; non posso sottrarmi col silenzio e l'indifferenza al discorso aperto dal manifestarsi del volto dell'Altro; la resistenza dell'Altro "non è come la durezza della roccia che rende inutile lo sforzo della mano, ma come resistenza al potere di potere" (Levinas, Totalità e infinito). Per Tillich "un uomo può rifiutarsi di ascoltare la richiesta intrinseca dell'Altro. Può disattendere la sua richiesta di giustizia. Può far finta che l'Altro non esista, o tentare di servirsene. Può cercare di trasformarlo in un oggetto inanimato e manipolabile... Ma in tutto ciò urterà contro la resistenza dell'altro che chiede di essere riconosciuto come un Io. E questa resistenza lo obbliga a riconoscere l'Altro come un Io o a rinunciare a questa qualità anche riguardo a sé medesimo. L'ingiustizia nei confronti dell'Altro è sempre nello stesso tempo ingiustizia nei confronti di se stessi" (Tillich,  more, potere e giustizia).

[9] Lanza del Vasto definisce il disprezzo come l'ingiustizia mentale che consiste nel non accordare alcun valore al prossimo, nel non accordare l'attenzione dovuta a ogni uomo in quanto uomo (Lanza del Vasto: 1980, 140).

[10] Sull'idea del conflitto come frattura che deve essere ricucita, cfr. in contesti estremamente diversi: Levinas, Totalità e infinito, 293; Lanza del Vasto: 1980, 133; Denti: 1980, 410, 427. Quest'ultimo autore sottolinea come la lite è una pericolosa lacerazione del tessuto sociale (soprattutto laddove esistono forti vincoli di sangue o casta e intricati rapporti interpersonali), la cui eliminazione passa necessariamente attraverso l'eliminazione delle cause sottostanti al conflitto e la riconciliazione delle parti. La giustizia resa dagli anziani o dai saggi nelle società tribali, infatti, avendo come unico obiettivo la restaurazione della pace, è una giustizia attenta, più che allo ius dicere, alle esigenze conciliative che, uniche, garantiscono la sopravvivenza dell'unità sociale.

[11] Ancora per Lanza del Vasto, il rancore è la cicatrice dell'ingiuria e del torto sopportato che si apre al minimo urto e s'infetta creando vendetta. Se la vendetta scoppia colpisce qualcuno, altrimenti il conflitto resta latente nell'animo umano e ‘rode’ chi lo cova (Lanza del Vasto: 1980, 140).

[12] Cfr. A. Giarda, in Comitato Cattolico Docenti Universitari, La pace come dimensione dello spirito, cit., p. 311.

[13] La pace discendente dall'amore, nei suoi due inscindibili aspetti di contemplazione meravigliata dell'Essere e di desiderio universale di verità e di bene" è patrimonio comune a culture e religioni fra loro molto diverse. Soltanto a titolo di esempio, si ricorda, nell'ambito del cristianesimo, oltre all'inno della Prima Lettera ai Corinzi (I Cor 13, 1-13), l'amore incondizionato per il prossimo in quanto creatura di Dio (Mt 19, 19; 22, 37-39; Mc 12, 31; 10,27 ss; Gv 13, 34; 15, 12-17; 1Gv 2, 10; 3, 11-18-23; 4, 7; 1Tes 3, 12); da ciò discendono anche l'amore per i nemici (Mt 5, 43-44; Mc 6, 27-35), la carità e la necessità di rispondere al male con il bene, di con-patire i sofferenti, i carcerati, i poveri (Mt 5, 39-43; Eb 13, 2-3; Gal 5, 13; 1Pt 4, 8; 2, 18),  di perdonare senza giudicare (Mt 5, 23-24; 18, 21-22; Gv 6, 37-38). Per un'interessante prospettiva di attualizzazione e concretizzazione del significato di riconciliazione e perdono nel cristianesimo, si veda Wiesnet: 1987. La tradizione classidica, così come tramandata dallo stesso Buber, annovera come una Ur-Wort l'umiltà (sciflut) che consiste, da un lato, nella consapevolezza di non essere superiori agli altri, dall'altro, nel "riconoscere ed amare la singolarità degli altri, tutti ugualmente necessari come collaboratori all'opera della creazione", nel riconoscere che in ogni uomo "c'è qualcosa di prezioso che non si trova in nessun altro e saper apprezzare e far vivere in se stessi questo qualche cosa, pur non perdendo, in questo atto di comprensione amorosa, la propria personalità" (cfr. C. Levi Coen, Martin Buber, Edizioni Cultura della Pace: San Domenico di Fiesole, 1991, 35ss); dall'umiltà sgorgano così l'amore - che si sostanzia nella "piena comunicazione, in sincerità assoluta, del mio essere particolare all'essere dell'altro, e nella piena accettazione nella mia vita della vita dell'altro" -, la carità - cioè "l'aiutare per compassione... per amore... cioè per comunicazione di vita" - e la giustizia - "che deriva dalla conoscenza intima dell'essere che si deve giudicare, dei suoi bisogni, delle sue miserie e delle sue possibilità di bene" (M. Buber, La leggenda di Baal-Scem). Nell'ambito del buddhismo, infine, viene esaltata la virtù della compassione (karuna) che spinge a voler desiderare per tutti gli esseri il raggiungimento dell’illuminazione, insieme con la maitri, la benevolenza, universale, il calmo sentimento di amichevole concordia verso tutti i viventi, la mudita, la gioia per le gioie altrui, la upeksa, l'equanimità (esse costituiscono le quattro virtù cardinali), la gentilezza che aiuta a sopportare per amore grandi pesi.

[14] "Nel con-Te dell'amicizia io non so se do o ricevo, so che in entrambi i casi rendo nostro; quel che non metto in comune non lo possiedo appieno" (Lombardi Vallauri: 1981, 432). Nella società sapienziale anche l'adesione alla regola è spontanea, chi detiene l'autorità non ha bisogno di poteri di imposizione, "al contrario usa del suo potere per servire e per sollevare dalla regola, accordare riposi e le dispense necessarie" (Lanza del Vasto: 1980, 173).  

[15] Si veda sul punto, l'elaborazione dell'antropologia del puro essere di Lombardi Vallauri: 1981, 388.

[16] La sapienza porta infatti a guardare le cose dagli "abissi dell'intimità spirituale", dalla prospettiva del soggetto contemplante che ha raggiunto la ‘statura dell'uomo cosmico’ (Lombardi Vallauri: 1981, 413 ss). Sul legame sapienza-pace è interessante notare che, nella tradizione induista, tale ultimo concetto è inscindibilmente collegato alla figura dell'asceta. Questi è precisamente l'uomo che realizza la fuga dan'io e dagli attaccamenti, si sottrae cioè alla soggezione al duhkha inteso come dipendenza, attrazione del mondo fenomenico illusorio, per attingere finalmente al Reale.

[17] È forse questo atteggiamento che porta il monaco e maestro zen Ryokah, autore fra l'altro di poesie deliziose, a rammaricarsi del fatto che il ladro, che Durante il sonno lo ha derubato, non ha potuto portare con sé la luna che splende alla finestra della capanna: "Oh, meraviglia! O luna così bella, che splendi alla mia finestra, sai dirmi perché il ladro non t'ha rubata?", in "La tazza e il bastone. Storie zen", Milano, 1992, 41.

[18] Nella Regola delle Clarisse si rinviene una pratica penitenziale volta all'immediata eliminazione di ogni disputa attraverso il riconoscimento del torto e il perdono: "Se accadesse, il che non sia, che fra una sorella e l'altra sorgesse talvolta... occasione di turbamento e di scandalo, quella che fu causa di turbamento subito prima di offrire davanti a Dio l'offerta della sua orazione, non soltanto si getti umilmente ai piedi dell'altra domandando perdono, ma anche con semplicità la preghi di intercedere per lei presso il Signore... L'altra poi... perdoni generosamente alla sua sorella ogni offesa fattale", da Regola di Santa Chiara, in Fonti francescane, Editrici Francescane: Assisi, 1986, 1167.

[19] Cfr. Lanza del Vasto, il quale parla fra l'altro del "tribunale della penitenza", quello "davanti al quale ci si dichiara sempre colpevoli e che emette sempre sentenze di perdono" (Lanza del Vasto: 1980, 18, 133 ss).

[20] Gli esempi mutuabili dalla natura, dalla scienza, dall'avventura sono molti: la conchiglia trasforma in perla i granelli di sabbia 'di disturbo'; il dolore è il campanello d'allarme della malattia che rende possibile la cura e la guarigione; il progr esso scientifico è tutto fondato su tentativi e 'fallimenti', senza i quali non si amplierebbero le conoscenze (la scienza, insegna Popper, è un 'cimitero di errori'); l'ignoto è la molla di ogni esplorazione e avventura.

[21] L’idea del conflitto come opportunità creativa è propria anche del cosiddetto engaged buddhism, il movimento buddista impegnato sul fronte della non violenza e della conflict resolution: "the first step in the art of conflict resolution is to regard conflict as an opportunity to look for skillful means to apply appropriately'', in Reconciliation International: 1992, 4; si veda anche Thich Nhat Hanh : 1994, particolarmente 135 ss.

[22] Jacqueline Morineau sottolinea il nesso fra separazione, violenza e sofferenza: la separazione e la violenza - che l'uomo sperimenta supremamente nella nascita e nella morte - sono fonte di sofferenza; la violenza nasce dalla sofferenza, è un grido, un messaggio di sofferenza che non trova altri canali di espressione.

[23] Sul punto, cfr. l'interessante relazione (inedita) tenuta dal prof. Masao Abe, dal titolo "The problem of evil in Christianity and Buddhism", agli incontri su Il problema del bene e del male nelle filosofie e nelle religioni dell'Asia. Prospettive a confronto, Venezia, novembre 1994 - gennaio 1995. Nella tradizione giudaico-cristiana si riscontra la visione dualistica che porta alla prevalenza del bene sul male, nel buddhismo, invece, bene e male sono inseparabilmente legati fra di loro e proprio risveglio alla consapevolezza della ''natura unitaria e dell'interdipendenza fra tutte le cose conduce alla compassione per tutti gli esseri. L'autore stesso, peraltro, mitiga la netta distinzione tra le due religioni ricordando, per esempio, l'affermazione di Gesù che viene per i peccatori e non per i giusti.

[24] "Un'integrazione del male è concepibile esclusivamente sul terreno del pensare per antinomie polarizzate, laddove la forma mentale dell'opposizione polarizzata ­ caratteristica soprattutto del pensiero orientale (ma che ottiene anche in Occidente un rilievo sempre maggiore - non considera gli opposti come escludentisi a vicenda, bensì come poli di un tutto unitario, che si condizionano reciprocamente". Naegeli: 1989, 61.

[25] Capra, trad. it., Il tao della fisica, Milano: Adelphi, 1992; si veda anche Naegeli: 1989.

[26] Cfr. S. Suzuki, trad. it., Mente zen, mente di principiante, Roma: Ubaldini, 1976.

[27] Ogni attività giudicante si concretizza esattamente nell'attribuzione di colpe e nella determinazione delle relative responsabilità (si veda § 3.2.2.). È utile notare che l'accertamento di fatti passati non è ultimamente risolutivo della controversia: il vero problema non sta nel determinare i singoli accadimenti ma nell'attingere il significato che gli stessi rivestono per ciascuna parte e nel capire il modo in cui vengono percepiti.

[28] Ogni situazione conflittuale diventa una sorta di "gioco a somma zero" nel quale occorre vincere per avere accesso al godimento esclusivo di risorse scarse.

[29] Quanto si dirà è frutto delle esperienze di applicazione della conflict resolution, cioè delle tecniche elaborate proprio per addivenire al componimento pacifico e volontario delle controversie, frutto di riconciliazione e collaborazione interpersonale. Il movimento di alternative conflict resolution (o alternative dispute settlement) si è diffuso a partire dagli anni sessanta, soprattutto nei paesi anglosassoni, ma trova eco nella cultura e nella tradizione orientale. Lo scopo principale inizialmente perseguito era l'istituzione di sistemi di risoluzione delle controversie alternativi al processo giurisdizionale e ai sistemi cosiddetti adversary. In seguito all'introduzione, all'efficacia e al successo di istituti riconciliativi come la mediazione (per la quale si rimanda al successivo § 3), sono state elaborate tecniche di risoluzione pacifica dei conflitti idonee a essere utilizzate anche in altre circostanze. Alla finalità pratica di componimento di effettive controversie sottoposte all'attenzione dei mediatori, si è man mano sviluppata un'attività didattica volta a insegnare tali tecniche nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle famiglie, nei quartieri e in ogni caso a chiunque ne faccia richiesta. Questo ha comportato un certo effetto di prevenzione dei conflitti e il timido affacciarsi di una cultura pacifica e conciliativa che comincia ormai a influenzare il modo stesso di concepire la convivenza sociale e i rapporti umani a ogni livello. In Australia, negli Stati Uniti e in molti altri Paesi, la conflict resolution viene utilizzata per gestire al meglio le risorse umane: basti pensare che l'ottica collaborativa e conciliativa presiede ormai alla stipulazione dei contratti (il cosiddetto partnering); alla valutazione degli interessi pubblici nei procedimenti amministrativi (quali per esempio l'utilizzazione del territorio) attraverso la partecipazione dei cittadini alla definizione di tali interessi e al miglior contemperamento di quelli contrapposti (attenuando così fra l'altro l'aspetto impositivo del potere pubblico e accentuando quello di protezione e potenziamento del bene comune); alla stessa gestione aziendale delle imprese, sia nel senso di rivalutare e arricchire l'apporto dei lavoratori e dei dipendenti (attraverso una loro diretta chiamata in causa nella determinazione dell'indirizzo produttivo, della qualità del lavoro e degli ambienti, ecc.), sia instaurando con i clienti e gli utenti degli eventuali servizi una collaborazione volta alla realizzazione del maggior soddisfacimento di questi ultimi (i risultati sono evidenti: riduzione delle tensioni tra lavoratori e datore di lavoro e del relativo contenzioso, maggiore soddisfazione personale e psicologica dei dipendenti, miglioramento della produttività e maggiore impegno nell'attività lavorativa; riduzione delle cause per responsabilità del produttore mediante la 'remunerazione’ del cliente il quale evidenziasse difetti o disservizi e fornisse suggerimenti). Particolare attenzione e interesse riveste poi l'applicazione della conflict resolution nelle scuole per i vantaggi offerti sia sul piano della maturazione psico-spirituale degli alunni che su quello proprio dell'educazione. Essa infatti si pone come modello etico alternativo a quello carrieristico-arrivistico elogiato dai mass media e dalla cultura consumistica. La positività e l'apprezzamento delle diversità (sociali, culturali, etniche, ecc.), insite nella cultura conciliativa, si risolvono anche in un indispensabile strumento educativo, non paternalistico, per favorire la convivenza pacifica in società sempre più (conflittualmente) multirazziali. Essa svolge inoltre un ruolo non indifferente a livello della partecipazione costruttiva e responsabile degli studenti alla determinazione dell’indirizzo scolastico, nonché a livello della risoluzione dei conflitti tra alunni, genitori, insegnanti e personale non docente. Per quanto riguarda i metodi di insegnamento, la (cultura della) conflict resolution è volta alla promozione della creatività e della collaborazione tra gli alunni e al superamento dell'apprendimento nozionistico e dei criteri di valutazione incentrati sul giudizio e sui risultati (cfr., per quest'ultimo aspetto, Crum: 1988, 93, 181ss). Si ritrovano, poi, analogie tra tutte queste tecniche e le teorie della non violenza (Gandhi, Lanza del Vasto, movimento di engaged buddhism). Apparirà strano, infine, ma anche per la risoluzione dei conflitti a livello internazionale, pur con gli opportuni adattamenti, è indispensabile far ricorso in una certa misura alle stesse pratiche che di seguito verranno illustrate. Il postulato della sovranità dello Stato rende sostanzialmente inutile una definizione giuridica delle controversie che comporterebbe l'adeguamento a un giudizio e a una sanzione provenienti dall'esterno. Pertanto gli unici modi di risolvere i conflitti internazionali sono la guerra, l'interruzione dei rapporti (diplomatici o economici) o l'accordo (per quest'ultimo aspetto, cfr. Fisher-Ury: 1991, 27, 41 ss e gli esempi di poli tica internazionale ivi citati).

[30] Con realtà non si intende qui la determinazione retrospettiva dei fatti finalizzata all'attribuzione di colpe e responsabilità (questa è l’attività in cui si sostanzia il giudizio): Con realtà si vuole intendere l'insieme di componenti fattuali, emotive, psicologiche, affettive che costituiscono il 'bagaglio' di ciascun contendente.

[31] Il bisogno di avere ragione, invece, lo restringe. Occorre muoversi da un punto di vista (tutto incentrato sulla propria univoca posizione) a un punto di osservazione, dal quale guardare - apertamente e 'insieme’ - la realtà dei fatti, dei bisogni, dei sentimenti, ecc.

[32] L'utilità delle domande è duplice: non solo la domanda implica la tensione verso la conoscenza e l'implicito riconoscimento di non essere 'depositari della verità', ma la domanda può essere un modo utile di inviare un messaggio in forma non assertiva: asserire un fatto può apparire (o essere) minaccioso e creare immediatamente l'irrigidimento in una reazione difensiva (Crum: 1988, 132 ss; Fisher-Ury: 1991, 122).

[33] È ciò che accade in questa storia dei padri del deserto, in cui la conversion dell'avversario viene suscitata da un comportamento pacifico : "(...) L'abate Gelasio aveva un codice di pergamena del valore di diciotto soldi, che conteneva il Vecchio e il Nuovo Testamento (...). Venne un frate girovago (...), visto quel codice ne ebbe concupiscenza e lo rubò allontanandosi subito. L'anziano si era accorto di quello che aveva fatto, ma non volle seguirlo. Il frate girovago andò in città per vendere a qualcuno il codice (...). Il compratore disse: "permettimi di farlo prima valutare (...)"; il compratore lo portò all'abate Gelasio domandandogli il parere. L'anziano gli disse: "Compralo, è un codice di valore e vale il prezzo richiesto". Tornato dal frate girovago, riferì di aver mostrato il codice all'abate Gelasio (...). Il frate sentendo questo domandò: "L'anziano non ti ha detto altro?". E rispose: "Null'altro". "Allora - soggiunse il frate - non voglio più vendere questo codice". E se ne tornò compunto dall'anziano per fare penitenza, e lo pregò di riprendere il codice, ma l'anziano non volle. Il frate gli disse allora: "Se non lo riprendi non avrò più pace". E l'anziano: "Se non puoi avere pace che a condizione ch'io riprenda il codice, ecco, lo riprendo subito". E quel frate rimase presso l'anziano fino alla morte, imparando molto dalla sua pazienza" (in "Le parole dei padri del deserto " (a cura di G. Vannucci), Firenze, 1979, 109-110).

[34] Secondo Hegel, infatti, la retribuzione annulla il male commesso perché è "lesione della lesione": la lesione insita nella commissione di un'azione malvagia (o di un reato) viene eliminata attraverso la lesione costituita dall'inflizione della punizione; "la violenza viene annullata dalla violenza " (G.W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it., Laterza: Bari, 1987); sull'argomento, si vedano le obiezioni di ordine logico e etico di Klug: 1989.

[35] Cfr. Levinaas, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità.

[36] Cfr. Madinier, Coscienza e giustizia.

[37] Cfr. Tillich, Amore, potere e giustizia.

[38] I maestri della scoperta sono i bambini: ogni loro apprendimento è frutto di una lotta, è basato sugli errori e sui tentativi, ma non c'è fallimento, la loro ostinazione è serena, la riuscita non è un conseguimento egoico (''Se non tornerete come bambini..."): cfr. Crum: 1988, 231.

[39] Si veda sul punto, F. Capra, trad. it., La rete della vita. Una nuova visione della natura e della scienza, Rizzoli: Milano, 1997.

[40] La trascuratezza di questo aspetto e la scarsità di effettiva collaborazione rendono quasi impossibile all'uomo moderno il compimento di gesti puri e pienamente etici.

[41] "Una specie di mescolanza tra un tribunale, una scuola e, se volete, uno studio di psicanali stadove le persone con l'animo turbato vanno a sfogarsi... Questo è il concetto che racchiude: non ci pùò essere giustizia senza sentimento di religione, e il giudizio migliore è quello accettato da tutti i contendenti, con buona volontà e fiducia nella potenza divina... L'arma del giudice era il fazzoletto che i contendenti toccavano per indicare il loro 'si' al giudizio": Singer: 1987.

[42] La giustizia amministrata localmente dalla comunità vanta illustri precedenti: le county o shire courts inglesi, sviluppatesi tra il X e l'XI secolo; i bureaux de paix et de conciliation francesi dell'epoca rivoluzionaria ; lo Schiedsman germanico, istituito con un'ordinanza prussiana nel 1827 e tuttora operante (cfr. Cappelletti-Barth (eds): 1978). I primi esperimenti dei tempi moderni, risalgono invece agli anni '70 (Wahrhaftig: 1984).

[43] F. Lombardi, Il morro e l'asfalto. Diritto spontaneo e diritto statale nelle favelas di Rio dej Janeiro, Milano: Franco Angeli, 1992.

[44] In questo modo vengono tutelate posizioni e pretese che non hanno alcun riconoscimento nell'ambito dell'ordinamento giuridico statuale: in primo luogo, infatti, i fav lados sono abusivi, inoltre la stragrande maggioranza delle controversie riguarda la violazione di norme comportamentali endofavelari, non riconducibili al diritto positivo.

[45] Si pensi allo ‘Sportello di Conciliazione’ della Camera di Commercio di Milano, rivolto alla risoluzione dei conflitti fra artigiani e consumatori; al cosiddetto 'arbitrato Telecom' e ad altre analoghe iniziative: per una disamina recente delle iniziative in atto nel nostro Paese, si veda il dossier Laboratorio Conciliazione, in Impresa e Stato, Rivista della Camera di Commercio di Milano, 1997; sul punto, cfr. anche Commissione dell'Unione Europea, "Libro Verde. L'accesso dei consumatori alla giustizia e la risoluzione delle controversie in materia di consumo nell'ambito del Mercato Unico" e relative note di commento, in Documenti Giustizia, 1994; si veda anche lo schema di disegno di legge in materia di "Disciplina della conciliazione in sede non contenziosa", in Foro Italiano, 1994, V, 286.

[46] Sono volutamente esclusi dalla presente classificazione i modi di risoluzione unilaterale del conflitto (interruzione dei rapporti con la controparte, fuga, sopportazione dello status quo, vendetta, violenza privata, soppressione dell'avversario, ecc.) in quanto non strettamente riconducibili ad alcun procedimento di (almeno minimale) pacificazione fra i litiganti. Sono parimenti escluse, anche se rientranti nell'alveo del giudizio, le procedure di decisione automatica e informatica delle controversie: in questi casi i vari intermediari della disputa vengono sostituiti da un computer, riducendo ad algoritmo le complesse operazioni di definizione.

[47] "L'intento di accertare è radicalmente diverso dall'intento di transigere, perché i transigenti non intendono attuare una puntuale e fedele determinazione della realtà giuridica, dalla quale invece prescindono per comporre comunque la lite...", E. Del Prato, voce: transazione, Enciclopedia del Diritto, 1992, vol. XLIV, 819.

[48] La sostanziale identità strutturale tra arbitrato e processo è probabilmente alla base della diffusione di questo istituto nell'ambito commèrciale/societario. Di fronte alla paralisi del sistema giudiziario pubblico, le imprese hanno dato vita, infatti, a una vera e propria fuga dal processo, troppo inefficiente e inadeguato a tutelare le esigenze di celere definizione delle vertenze. L'arbitrato diviene così la 'clinica privata' dove curare i mali della giustizia. Senza dubbio però, in un'ipotetica scala in ordine conciliativo crescente, l'arbitrato si pone a un livello superiore rispetto al processo giurisdizionale: esso implica, infatti, fra le parti almeno un accordo (magari preventivo) sul metodo di risoluzione del conflitto e sulla scelta degli arbitri.

[49] Si veda, sul tema del processo, il contributo di P. Gaeta, in questo volume.

[50] In una prospettiva insolita, si vedano le interessanti considerazioni di Lanza del Vasto: 1980, 183.

[51] In particolare, Golding sottolinea come la contesa processuale, tutta incentrata sul convincimento del giudice, prevarica la necessità di risolvere il conflitto originario, così che "the resolution tipically depends more on technical procedures than on the particularities of the parties, and the result is generally a remedy or award rather than a reconciliation".

[52] "Ma il processo? Ha il processo uno scopo? Non si dica, per carità che lo scopo è l'attuazione della legge, o la difesa del diritto soggettivo, o la punizione del reo e nemmeno la giustizia o la ricerca della verità. Se ciò fosse vero sarebbe assolutamente incomprensibile la sentenza ingiusta, e la stessa forza del giudicato, che copre, assai più della terra, gli errori dei giudici. (...) Se uno scopo al processo si vuole assegnare questo non può essere che il giudizio (...). Ma il giudizio non è uno scopo esterno al processo, perché il processo non è altro che giudizio e formazione di giudizio: esso dunque se ha uno scopo, lo ha in se stesso, il che è come dire che non ne ha alcuno (...).", cfr. S. Satta, Il mistero del processo, Milano: Adelphi, 1994.

[53] Precise indicazioni in tal senso sono contenute in numerosi documenti internazionali. Oltre alle iniziative della Commissione CEE in tema di controversie in materia di consumo (cfr. nota 45), si ricorda il documento conclusivo del ''VII Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti" (VII Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti, Milano 26.8.- 6.9.1985, ONU: New York, 1986), nel quale si sottolinea l'importanza del libero accesso alla giustizia anche attraverso la previsione di procedure conciliative; il diritto della vittima alla riparazione, restituzione e compensazione anche attraverso mezzi non giudiziari come la mediazione; la partecipazione della collettività al sistema penale attraverso sistemi non giudiziari improntati alla mediazione. Per quanto riguarda poi la giustizia minorile, è particolarmente significativa la Raccomandazione del Consiglio d'Europa n. 20/1987, la quale richiama la necessità della 'ricomposizione del conflitto' nascente dal reato; infine, nelle cosiddette "Regole Minime concernenti l'amministrazione della giustizia per i minori" (ONU, 1985) viene affermato il principio del ricorso allo strumento processuale nei confronti dei minorenni con extrema ratio per prevenire la stigmatizzazione e la criminalizzazione derivanti dal contatto con il sistema penale, nonché la possibilità di indirizzarsi verso metodi alternativi, extra-giudiziari.

[54] L'applicazione della mediazione attraverso l'introduzione di appositi centri è ormai diffusa in tutto il mondo;. essa copre qualsiasi tipo di controversie civili, penali, amministrative, sociali, interetniche, scolastiche. In Italia - Paese che solo ora pare 'accorgersi' di queste pratiche riconciliative -, è applicata principalmente la mediazione familiare, mentre cresce l'interesse verso la mediazione sociale, scolastica e penale. Per quanto riguarda, per esempio, il diritto penale (uno degli aspetti applicativi più interessanti), le numerose e collaudate esperienze straniere ruotano attorno all'idea di diversion; cioè di allontanamento dal processo penale considerato stigmatizzante per il reo ed esperienza traumatizzante per la vittima. La diversion è la sottoposizione dell'imputato a un 'programma' sostitutivo del procedimento giudiziario e della sanzione penale. Si tratta, generalmente, proprio di una mediazione, dell'incontro diretto e personale tra reo e vittima alla presenza di un esperto. Lo scopo dell'incontro si concretizza materialmente nella stipulaziohe di un accordo conciliativo sulla riparazione dei danni derivanti dal reato, ma non si riduce a questo, anzi, le sue finalità vanno ben oltre il semplice risarcimento: la mediazione riuscita comporta la creazione di un fenomeno di empatia le cui potenzialità di risocializzazione per il reo e di soddisfazione per la vittima sono incalcolabili (cfr. AIDP: 1983).

[55] Per una definizione diversa, cfr. Bonafé-Schmitt: 1992, per il quale 'la mediazione è un processo, il più delle volte formale, con il quale un terzo neutro tenta, mediante scambi tra le parti di permettere loro di confrontare i punti di vista di ciascuno e di cercare, con il suo aiuto, una soluzione al conflitto che le oppone". Cfr. anche Ceretti: 1996a, 203.

 

[56] Si dice infatti che nel processo, il diritto (positivo statale) viene applicato, nella mediazione si ha invece creazione di un diritto 'privato'. Inoltre, le istanze conciliative presenti nella società (determinate in gran parte da una grave insoddisfazione per il sistema giudiziario) hanno portato alla nascita spontanea di procedimenti e istituzioni di conciliazione nell'ambito di certe categorie di rapporti (consumatori, locatori/inquilini; banche/utenti, ecc.) per le quali si è provveduto ad adottare codici di comportamento e autoregolamentazione privati, concorrenti rispetto all'ordinamento giuridico dello Stato.