INTRODUZIONE
Postilla premessa
C'è un'assenza in questo mio libro. Mentre scrivevo vivevo (e anche adesso, mentre scrivo "Mentre scrivevo", vivo) l'amore: il necessario e il così quasi sempre impossibile. Ora, di amore qui non si parla, forse nemmeno una riga. E invece. L'uomo è fatto in modo da poter spalancare la sua consapevolezza fino immensamente al di là del suo pur immenso (visto da osservatorii molecolari o cellulari, visto nei suoi presupposti storico-naturali e sistemici) perimetro corporeo. Ma perché la cosmicizzazione riesca, bisogna che la mente sia, anche, affettivamente soddisfatta: o perché la solitudine contemplante viene da lei realmente amata, amata d'esaltazione; o perché lì accanto ha chi le scalda su fiamma brillante o su brace buia la piccola pentola della scambiata fiduciosa tenerezza. "Pentolina": non sarà questo il più tenero esatto nome dell'amata, della vera donna da uomo? di colei che solo incompletamente (pur se meritoriamente, caramente) possono sostituire le minori fonti erogatrici di compagnia: un vero bambino, un vero amico, un vero gruppo vocazionale di affini, il tabernacolo il gompa di una vera religione? Amor homini crux. Senza l'immensa anima affettivamente soddisfatta (e perché lo sia, non sembra occorrere l'immenso), lo spettacolo dell'universo può somigliare al cinema da soli: tu pensi meno al film che alla tua propria derelizione. Ma ti tremi accanto, in focolare di pietre e d'erbe, rovente sotto le curiosanti stelle, una pentolina d'amore... e il tacito Tutto si fa presenza nutrice all'anima nella sua sgomentante verità.
l. Le tre "Terre"
I contenuti di un libro-vita vengono anzitutto, in questo paragrafo, riassuntivamente descritti; poi, per quanto possibile, nel paragrafo successivo, "teoreticamente", "sistematicamente" integrati e consolidati. Due operazioni che rischiano entrambe di tradire, di riuscire controproducenti.
Cominciando dalla descrizione: sono, in tre Parti tra loro collegate, i miei scritti non giuridici più significativi, pubblicati in sedi talmente diverse e disperse da non consentire una visione d 'insieme, anzi forse neppure una comprensione adeguata di ciascuno di essi preso singolarmente. Avevo il d'avere, almeno verso me stesso, di raccoglierli, ordinarli, spiegarli. Sono altrettante coloriture, per frammenti, di una sinopia che si è venuta (e tuttora si viene) facendo insieme con le coloriture, non quindi precostituita, ma nella cui finale riconoscibilità (per non dire preesistenza) io ho avuto sempre serena esistenziale fiducia, come l'ho che ogni futuro imprevedibile frammento lavorato bene non mancherà, con i necessari collegamenti e interpretamenti, di rientrare in essa calzantemente. Nel reale tutto sa stare incontraddittoriamente insieme; se il pensiero lavora bene, ossia in modo affine al reale, e con risultati isomorfi al reale, anche nel pensiero tutto saprà stare incontraddittoriamente insieme.
Sì, ho lavorato dai frammenti verso la sinopia e non dalla sinopia verso i frammenti. Avevo alle spalle il grande affresco classicocattolico, apologetica + neoscolastica, appreso col latte familiare ed ecclesiale, con le mie personali ansiose letture, con il cubico triennio di filosofia 1957-60 alla Gregoriana. Ma appunto l'avevo alle spalle, non davanti, volevo che mi servisse come strumento per il guardare le cose, la
veritas rerum[1] non che me le sostituisse. In nessun modo tenevo, almeno allora, a ridipingerlo o ridifenderlo ancora una volta. A questo prendere la filosofia come strumento anziché come l'oggetto, come finestra anziché come il paesaggio, a considerare l'intera cultura come semplice apparato per potenziare lo sguardo sull'essere, come ciò da cui, non a cui, si guarda, mi aiutava, o mi costringeva me volente, un realismo, un intuizionismo ontologico così nativo radicato intrattabile da fare tutt'uno col mio stesso essere vita, essere coscienza; un incoercibile misticismo (religioso e naturale) in buona parte coincidente con quello stesso realismo; e l'esigenza che la filosofia procurasse non solo sapere, ma salvezza.
Per quanto concerne specificamente il rapporto conoscenza del frammento - conoscenza dell'intero, un forse non casuale inizio di carriera universitaria nel pensiero positivo, nella storia del diritto romano antico filologicamente connotata, insieme a una tradizione familiare di scienza esatta e a un appassionato interesse contemplativo e poetico per gli orizzonti, i risultati, gli stessi atti di calcolo delle grandi scienze cosmo-, bio-, antropologiche moderne, mi hanno dato durevole diffidenza e soprattutto indifferenza verso le filosofie e teologie professionali in quanto luoghi del logos sinopico-sistematico e dei primi principi stabiliti per primi. Sentivo vivacemente, e la frequentazione di ambiti e ambienti molteplici mi confermava, che non solo ogni disciplina ma ogni problema ha il suo metodo, ogni oggetto le proprie leggi/linee interne di accesso, e che quindi ogni argomento chiede di essere trattato ingegnosamente e peculiarmente, con scarsa considerazione sia per le scaltritezze e metascaltritezze, complicazioni e metacomplicazioni metodologiche ed ermeneutiche previe, sia per il far quadrare con "potenti" idee generali, e invece molto fidando nel nudo darsi da fare dell'intelligenza sempre ricominciante e molto affidando al celato Signore del puzzle quanto al compito finale di incastrare insieme tutti i pezzi. Non dubitavo, ripeto, della sistematicità dell'essere e del pensiero. Dubitavo dell'iniziare dal e col sistema. Dubitavo forse più che della possibilità, dell'interesse, del guadagno, di farlo. Ho lavorato in filosofia "seconda" molto più che in filosofia "prima".
Anche per questo la distribuzione dei saggi (molti dei quali, libri "rientrati") non è rigorosamente logico-sistematica, anzi ha non poco di allusivo-suggestivo. Sono ripartiti in tre "Terre", parola/immagine a me cara già prima di incontrare Saint-Exupéry e Tolkien
[2], cara poeticamente ma anche appropriata concettualmente perché la sua semantica si presta a recepire prolungamenti dell'idem nell'altro, enclavi, malcerte brughiere di confine.
Nella
prima Terra si estendono, cerchiati e solcati di voragine, maligni o atoni deserti; figura del moderno (la forma di pensiero che domina oggi il pianeta unificato) nella sua facies di nichilismo, di plausibile legittimazione o plausibile, difficilmente resistibile variante del nichilismo. Il nucleo costitutivo del moderno, la scienza-tecnica, diventa ideologia di se stesso, ossia riduzionismo scientistico-tecnologico, postulando come unica vera e utile conoscenza quella che (
mensuro, ergo possum) riduce l'essere alla triade misurabile materia+ energia+informazione
[3] e attraverso questa riduzione conferisce al demiurgo tecnologico un potere tendenzialmente illimitato sulle cose e sull'uomo.
Divenendo antropologia, il riduzionismo (che è un'epistemologiaontologia generale) si biforca in due attitudini apparentemente opposte: da un lato i soggettivismi assoluti (
volo, ergo sum: sono ciò che voglio essere; non ho essenza normativa; la mia volontà, o la mia voglia, non incontra nulla di oggettivamente vincolante, nulla di verificabilmente conoscibile nell'ambito della norma, del valore), dall'altro le filosofie della morte del soggetto (
mensuror, ergo non sum: ridotto senza residui a sistema materico-energetico-informazionale, smarrisco la mia identità spirituale, divengo manipolabile manufatto; nel punto in cui posso tutto non sono più niente, o almeno niente di inaccessibile, indisponibile). Nei due casi (soggetto assoluto; morte del soggetto) la risultante etica è la negazione dei doveri e dei diritti dell'uomo, un'antropologia an- o antiumanistica. Gli esempi scelti sono l'ideologia abortista libertaria come illustrazione concreta del sadismo teoretico e pratico, le biotecnologie in quanto regolate dal principio etico della disponibilità della vita umana, l'intelligenza artificiale in quanto regolata dalla tesi logicotecnica della ri(pro)ducibilità dell'intelligenza e della coscienza umane o di rango pari all'umano. "Tutto è fattibile, tutto il fattibile è lecito" potrebbe proporsi come formula del nichilismo ontologico ed etico a base scientistico-tecnologica costitutivo della prima Terra
[4]. La Terra
seconda, molto più rassicurante di aspetto, non confina direttamente con la tenebra e il freddo esteriori, non termina al ciglio stesso, abrupto, che delimita ecumene e vuoto abisso, si presenta anzi passabilmente coltivata civilizzata ornata, fuori di metafora contiene saggi nei quali si presuppone l'umano in qualche modo riconosciuto, venerato, ordinatamente costituito, e solo si richiede maggiore abitabilità della comune dimora. È qui che vengono dibattuti problemi di emarginazione sociale, libertà politica, sindacalismo, medicina, sessualità, piacere, bisogni carenziali ed evolutivi, beni esclusivi e non esclusivi, comunicazione amicale e amorosa, accettazione e ammirazione della vita. Stando strettamente allo schema, dovrebbe essere la Terra dell'umano comune; in concreto, vi s'incontrano sia prolungamenti e quasi tentacoli del nucleo nichilista del moderno, sia anticipazioni (radure, altezze, transparenze) della Terra ulteriore.
Così, lungo la prima linea di confine, l'ideologia del sindacato come soggetto assoluto superiorem non recognoscens, sottratto alla sovranità della legge e disciplinabile solo per autolimitazione, viene ricondotta alla insuperabilità, nell'orizzonte scientistico-tecnologico, della categoria del "lavoro" come manipolazione collettivamente organizzata dell'essere fisico e biologico, come auto-produzione dell'umano priva di criteri vincolanti perché compiuta in un mondo materico a-normativo integralmente disponibile, di cui l'uomo è insieme demiurgo despotico e deterministica parte. Oppure la medicina virchowiana, quella di fatto ufficialmente egemone nella scienza e nella clinica occidentali, viene mostrata come non altro che l'applicazione al corpo umano, forse a tutto l'uomo, del riduzionismo fisicalista costitutivo del moderno. Il culto illuminista e contemporaneo dell'erotismo libertino appare coerentemente solidale con quella concezione della sessualità che "fisicalisticamente" riduce il corpo animato, indifferentemente maschile o femminile, a materia senziente manipolabile in ogni maniera efficace per estrarne un preziosa energia, la voluttà.
Ma lungo la seconda linea di confine, gli stessi saggi sulla sessualità e sul piacere, e ancora più spiccatamente quelli che concludono questa Parte, La vita umana: una meraviglia e L'uomo: una prospettiva contemplativa sono già immersi nell'atmosfera della Terra che segue. L'ontologia della sessualità, l'ontologia del piacere rinviano per più aspetti a un Oltre misteriosamente altissimo; la semplice vita umana tra nascita lavoro amore familiare morte, la semplice presenza dell'uomo nell'universo coinvolgono dimensioni immaginativamente e intellettualmente appena sondabili.
Anche la Terra
terza, come le altre, vicino alla frontiera è mista: ombre lunghe di Mordor, con le loro punte estreme, vi approdano (e comunque l'invisibile - un grande buio, non dissimile da una grande luce - tutta la circonda); l'umano comune vi occupa, necessariamente, ancora spazio; ma inoltrandosi, i tratti complessivi del paesaggio naturale e umano progressivamente cambiano; è Terra non più degli «orti» e dei «pomarii», ma degli «ultimi orizzonti»
[5]; gli abitanti si fanno sempre più radi, e sono altrimenti raggruppati e insediati: le famiglie di sangue, le associazioni a base economica cedono il posto alle affinità elettive, agli ordini vocazionali e sapienziali; villaggi e città, fabbriche botteghe uffici spariscono, mentre disseminati nelle vaste solitudini si sostituiscono loro i monasteri cenobitici e gli
ashram eremitici, gli osservatori stellari con i radiotelescopi scandaglianti il più remoto passato cosmico e i laboratori fisico-chimici con gli ultramicroscopi protesi sull'orlo del pozzo filiforme dell'infinitesimo. Immobili in contemplazione o raminghi in ricerca, gli abitanti della Terra terza sono i portatori della sperimentazione dell'estremo. Calcolanti, metafisicizzanti, meditanti, adoranti, essi sono coloro nei quali l'Essere viene a risveglio. "Oltre" significa oltre i problemi relativi ai bisogni carenziali di sussistenza e di convivenza, oltre una decente organizzazione del quotidiano, oltre la semplice sistemica della pace; oltre la politica; e anche oltre il più o meno tecnologicamente assistito e accessoriato principio del piacere. Significa sapienza, ossia sapere scientifico e teorico + liberazione etica e psicologica + illuminazione contemplativa + unione mistica
[6]; oppure significa Ciò che dischiude l'anima dell'uomo alla dimensione sapienza, il Trascendente. Ingresso nella terza e ultima Terra significa conversione dello sguardo e dell'esistenza dall'utile verso il vero, dall'ego-centrico verso l'ontacentrico, dallo psicologico verso l'ontologico; dall'antropo-morfo verso l'irrappresentabile, dall'effettuale verso il causale, dai fenomeni oggetto di esperienza (ossia di percezione e misurazione o di autocoscienza) verso le Sussistenze prime (Dio, anima) oggetto d'inferenza; dal categoriale verso il trascendentale (Rahner), dal «sarchico» (nel senso di san Paolo) verso lo spirituale; non necessariamente abbandonando per sempre la Terra degli uomini, ma tornando, più tardi, a viverla come "Oltre" essa stessa. Tra le porte (varco di foresta?) o i veicoli (canoa contro corrente?) o i percorsi (in-ponderabile in-ammissibile traccia d'erba?) d'ingresso nella Terra viene analizzato con accuratezza fenomenologica l'atto di realizzazione, evento saliente o momento privilegiato, tanto profondamente vissuto quanto raramente conosciuto, riconosciuto, del risveglio umano al fatto-mistero dell'essere. Come atto proprio della mistica naturale, la realizzazione può e deve introdurre a tutte le regioni della terza Terra: segnalo le pagine sulla realizzazione in storia
[7], in scienza
[8], in metafisica
[9], in fede cristiana
[10], il nesso stabilito dalle fonti buddiste tra realizzazione e illuminazione
[11]. E d'altra parte sono tipici frutti di esperienze realizzative saggi come il 13 e il 14 della seconda Terra e il 20,§2 della terza.
Il tema della realizzazione, quasi pionieristico in filosofia, si ricollega a quello generale della sapienza sotto almeno due aspetti: anzitutto in quanto la realizzazione è uno dei modi della contemplazione, e la sapienza include necessariamente un livello oltre-logico, oltre-discorsivo, di contemplazione; e poi, inversamente, in quanto il non meno necessario livello logico-critico della sapienza è chiamato a esercitare il suo controllo sull'atto di realizzazione, a evitare che esso investa rappresentazioni distorte o puramente immaginarie. È infatti possibilissimo realizzare l'irreale, proprio come è possibile prendere per vero il falso.
Posto che il risveglio realizzativo sapienziale sia desiderato, come farlo nascere, scaturire? Si tratterà, in ogni caso, di un delicato, eventuale propiziare, non di un deterministico, immancabile produrre. Tra le tecniche propiziatrici una è - sorprendentemente - il diritto; intendo il diritto contemplativo o dei contemplativi, la regola di vita adoperata, dal fondatore che ha "visto", come comunicazione nonlinguistica del tipo "fai questo e vedrai". Alcuni saggi
[12] sono dedicati appunto all'organizzazione normativa delle convivenze sapienziali, del
bios theoretikòs scelto con voto, con dono di sé per sempre. Gli ordinamenti sapienziali costituiscono una realtà complessa e autarchica, una completa esperienza giuridica fondata su basi estesamente diverse da quelle degli ordinamenti statali fondati sull'individualismo possessivo. Hanno quindi una portata critica generale nei confronti dell'antropologia e del diritto della società civile nel suo insieme. Ma l'aspetto più peculiare, e certamente una delle cose inaspettate della terza Terra, è proprio la scoperta della possibile influenza del diritto sulla contemplazione, la scoperta del possibile nesso diritto-esperienza dell'Oltre.
Sono concentrati verso la fine della terza Terra e del libro i saggi sul cristianesimo. Molto grosso modo, le tre Terre sono disposte secondo una logica ascendente, e anche in
Terra dell'Oltre l'itinerario che va dalla contemplazione (o dalla mistica) non religiosa (saggi 15-17) a quella religiosa non cristiana (saggi 18-20) e infine a quella cristiana (saggi 21-24) sembra stabilire un'ascensione (
in montem sanctum Tuum), una gerarchia. L'impressione è giustificata, ma esige un minimo di chiarimenti e precisazioni
[13].
Anzitutto: sì, testimonio qui che sono cristiano. E dunque difficilmente avrei potuto disporre diversamente le cose, sul piano psicologico. Ma ritengo si possa motivare la superiorità del cristianesimo in termini di pienezza, di "pleromaticità", anche indipendentemente dalla fede o dalla convinzione intellettuale nella realtà della cosa cristiana. Voglio dire che come modello di Tutto, quello cristiano mi sembra logicamente insuperabile almeno sotto il profilo dell'amore divino: amare gli uomini non solo fino a crearli e a offrire loro, se provati nella santificazione, la propria eterna intimità, ma fino a vivere la loro condizione di morte e ad assumerne per sempre (dunque in qualche modo da sempre) l'effigie corporea, fino a incarnarsi umanamente sulla terra e umanarsi per sempre in cielo
[14], mi sembra il massimo di amore per l'uomo e per l'umano logicamente possibile; mentre il concetto di Trinità o di Triade fa di Dio in sé, anche astraendo dal rapporto con noi, dall'economia della storia della salvezza, un Amare sussistente, addirittura rende convertibili Essere e Amare, Essere e Essere-Amore; se Dio è l'Essere necessario, diventa necessaria anzi "il" Necessario la pluralità minima di persone-Dio richiesta perché si abbia una completa relazione d'amore e Dio il Sussistente assoluto sia una tale relazione
[15]. Tutto questo è fornito da un Dio Triade “più” che da un Dio Monade, e da un Dio con
kénosis - incarnazione - umanazione eterna "più" che da un Dio eternamente immutato nella propria «forma» di gloria
[16].
Dovendo quindi disporre la materia del libro col criterio di andare dal minimo al massimo, dai modelli di Tutto più riduttivi e negativi ai modelli di Tutto più espansivi e assertivi, non restava, mi sembra, a chiunque, indipendentemente dalla fede, che collocare a un estremo il riduzionismo scientistico e all'altro il cristianesimo. Mi sembra che tutti i pensabili modelli di Tutto cadano necessariamente nello spazio, infinito anzi trascendentale, che si estende tra l'ex nihilo (o l'ex big bang) fisicalista e l'ex Trinitate cristiano.
Detto questo, resta aperto il problema se la cosa cristiana, meritevole di essere collocata, come modello o come ipotesi, al vertice della pienezza ontologica, sia, anche, reale. Io ho proposto, qua e là, argomenti a favore
[17]. Ma sono incompleti; e dunque insufficienti a far considerare l'Oltre cristiano come attingibile e affermabile indipendentemente da un atto di fede in una rivelazione trascendente. Ora, il punto focale della contemplazione qui suggerita non vuol essere un oggetto di fede. In questo libro non dovrebbe trovarsi una sola proposizione interna a un sistema fideistico qualsiasi.
Terre è un libro laico, di pensiero e di mistica laici; anche dove parla di cristianesimo. La Terra terza è un Oltre non principalmente
jenseitig, è un Oltre che non è un Aldilà. Il punto focale non si trova in una trascendenza "dantesca" di persone umane e divine dogmaticamente costruite, anche se a mio giudizio un Oltre di quel tipo (non certo di quei precisi contenuti!) è poi decisivo e si giustifica fortemente di fronte alle esigenze laiche della ragione; il punto focale si trova nelle tacite intimazioni di trascendenza che provengono dallo stesso universo esperibile con facoltà umane, si trova negli aspetti di trascendenza immanente che fanno dello stesso universo non-soprannaturale un
divinum. Chi non realizza con mistica (nel senso di Wittgenstein) l'esserci un mondo, e proprio questo mondo, dubito che viva con vera mistica la fede in un mondo altro.
Si insisterà: se Terre vuol essere un libro di mistica naturale, universale, non-confessionale, deve lasciar fuori il cristianesimo. Ma il cristianesimo, oltre ovviamente a fornire possibilità straordinarie di esperienza mistica interna alla fede, può in più modi suscitare meraviglia contemplativa e realizzativa puramente laica. Così, il dogma preso nel suo concetto può essere realizzato intensivamente in modi del tipo "ma ti rendi conto di cosa non sarebbe di inaudito se davvero Gesù di Nazareth fosse...", modi accessibili a ogni uomo che non escluda in modo assolutamente tranquillo anche la sola possibilità della verità del cristianesimo. Il saggio 23, sulla umanazione eterna di Dio, può legittimamente interpretarsi anche come un esperimento di questo genere.Tuttavia il modo più genuino in cui il cristianesimo può fare da supporto o da oggetto a esperienze realizzativo-mistiche laiche sta forse nel sostituire a un "molto" interno-cristiano un "poco" incontrovertibile per tutti, cristiani e non cristiani, già impressionante. Per chi si collochi in un punto di vista interno-cristiano, affermazioni come "Dio esiste", "Gesù è risorto", "Gesù è Dio" assumono facilmente lo status di postulati, dai quali nei casi peggiori il teologo di carriera muove rapidamente per trarne ingegnose variazioni e conseguenze. Ma la vera mistica non concerne l'immaginario, l'ipotetico; concerne il certo, il reale (ciò che come reale s'impone al mistico). La mistica è un realismo; è realismo. E allora può esserci più mistica che nelle grandi postulazioni dogmatiche, quando queste appaiano interne a un sistema intellettuale separato, in modeste affermazioni laiche incontrovertibili, come: "In questo stesso momento con assoluta certezza è che: o Dio esiste o Dio non esiste. Dunque in questo stesso momento Dio esiste o Dio non esiste". Qui non si realizza un Oltre trascendente, formidabile ma dubitabile; si realizza la vertiginosità della situazione in cui proprio fattualmente, prosaicamente tutti siamo. Oppure può esserci più mistica che nell'affermazione teologica su Gesù risorto, nell'affermazione storica, laica, incontrovertibile: "Gesù è esistito; ha trascorso in un preciso reale modo i suoi giorni e in un preciso reale modo ha lasciato questo mondo". (Provare per convincersi).
Concludendo per ora sulla collocazione del cristianesimo e sui rapporti tra cristianesimo e mistica naturale: i saggi (i paesaggi) di Terre vanno tendenzialmente dal minimo al massimo assoluti di affermazione ontologica dell'umano e dello spirituale, che sono il riduzionismo fisicalista e il cristianesimo; la zona messa a fuoco elettivamente è l'Oltre di cui non si può dubitare, il trascendente immanente, il reale inaudito; fa parte del reale inaudito non proprio il cristianesimo, ma la non-escludibilità, laica, della verità del cristianesimo, la non avvenuta finora dimostrazione dell'inanità della tesi che il Tutto sia realmente sospeso proprio a quella storia di "Padre", "Figlio" e "Spirito Santo". Come è inaudito, ed è, che ci troviamo in uno spazio tridimensionale di cui non vediamo come possa essere, e come possa non essere, infinito in atto; come è inaudito, ed è, che il mentale e il materiale-cerebrale interagiscono; come è inaudito, ed è, che in questo stesso istante Dio esiste o Dio non esiste; così è inaudito, ed è, che ci troviamo a vivere in un universo nel quale Gesù di Nazareth, uomo che sicuramente potrebbe-anche "essere risorto", potrebbe-anche "essere/essere stato Dio", è un uomo sicuramente esistito.
Termino questa parte descrittiva, anche per correggere l'impressione di un non-laico privilegiamento del cristianesimo, con un accenno all'Oriente. Per me, nella sua più pura espressione l'Oriente non è e non dev'essere altro che la stessa realtà esterna e interna percepita (in un senso molto vicino a: realizzata) senza diaframmi nazionali e senza distorsioni ego-centriche. Mi sembra quindi strano parlare dell'Oriente come di una teoria e pratica psicospirituale, di una dottrina epistemologica e ontologica, di una religione, di un insieme di "ismi" (induismo, buddismo, taoismo). Tutte queste cose, che l'Oriente anche è, sono ancillari e propedeutiche al diretto comunicarsi della realtà, sono come scale destinate a essere buttate via dopo saliti nella giusta dimora percettiva. L'Oriente è dunque per me pura purissima laicità, immediato realismo ontologico e onto-centrico, definitiva semplicità. Solo che come forse tutti sappiamo per esperienza, la semplicità non è uno stato iniziale o facilmente accessibile, può richiedere molta complessità di infrastrutture biologiche, organizzative, dottrinali, molto tirocinio, molto metodo. L'Oriente è, necessariamente, anche tutte queste cose; in un certo senso, solo queste cose, perché la semplice realtà non è più né orientale né occidentale è semplicemente reale; semplicemente misteriosamente limpidamente presenzialmente reale.
La trattazione tematica di cose orientali è in Terre non particolarmente estesa. C'è ancora, nella prima e nella seconda Terra, quasi solo uomo occidentale e quasi solo diatriba tra posizioni espresse in parole .
E nella terza, come abbiamo appena visto, c'è molto cristianesimo. Ma l'Oriente guadagna progressivamente in influenza e starei per dire in atmosfera. Tutto quello - e non è poco - che concerne la realizzazione è ovviamente connaturale, omogeneo, all'Oriente interpretato come via culturale al diretto farsi-presenza della realtà. Nella peculiarità del mio modo di appartenere al, e distanziarmi dal, cristianesimo c'è molto di asciutto realismo, come pure di metodico misticismo, orientale. Qui in sede descrittiva-riassuntiva, senza voler discutere l'Oriente nel merito, mi limito ad avvertire il lettore che ne troverà, oltre il tematicamente trattato, molto di silenziosamente permeante.
2. Il "sistema"
Ci sono almeno due modi di essere sistematici: produrre un sistema, scoprire cose che stanno bene insieme. Ho già detto che mi lusingherei di essere stato, finora, abbastanza sistematico nel secondo modo. Farò ora un tentativo (forse controproducente) di esserlo, per semplici accenni, nel primo.
2.1. Superamento e integrazione del fisicalismo
Risaltano chiaramente, da tutto Terre, le linee del problema ontologico, e onto-antropologico, quale per me oggi si pone. La sfida cruciale è quella del riduzionismo fisicalista nel senso già illustrato, l'equazione Essere = materia + energia + informazione, Uomo = m+e+i, Mente = m+e+i. Questa sfidava talmente alle radici, che tutte le filosofie nonriduzioniste per quanto divise tra loro, dalle antiche alle contemporanee, dalle orientali alle occidentali, appaiono, di fronte al riduzionismo, accomunate nell'essenziale: c'è (anzi "è più veramente") dello spirituale, nel senso, ampio ma non fino all'equivoco, di non matericoenergetico-informazionale, di non riducibile al materico-energeticoinformazionale; esso sussiste o "in sé", o comunque su supporto non (o non esclusivamente) materico-energetico-informazionale. E’ al riduzionismo fisicalista, e in particolare alle sue conseguenze etiche, politiche e giuridiche, che ho riferito fin qui, principalmente, il termine nichilismo.
La sfida è talmente potente che dopo essa tutte le filosofie nonriduzioniste/nichiliste appaiono private della verginità: nel senso che non possono, dal pensiero vero, semplicemente venire riproposte e sviluppate quasi nulla fosse; devono ormai essere abitate dalla consapevolezza del proprio non-riduzionismo, dall'inquietudine del proprio potersi rivelare puri castelli di parole, dall'assillo del chiarire i nessi tra spirituale e fisico e i modi di sussistere dello spirituale. Si potrà anche, per motivi di vocazione filosofica, mettere tra parentesi il problema riduzionismo; ma dovrà trattarsi appunto di consapevole epoché, compiuta quasi nell'atteggiamento di un'offerta dei propri risultati parziali (metafisici, fenomenologici) all'ordalia analitica della futura possibile riduzione o di una onerosa dimostrazione di non riducibilità. E non le filosofie soltanto hanno perduto teoreticamente l'innocenza: quando soffro per amore o scrivo poesia sono ormai in obbligo, sul piano del pensiero, di chiedermi se "io" amo e scrivo o invece un algoritmo per computer cerebrale umano ama e scrive in "me"; e posto che "io" rifiuti questa seconda, espropriante ipotesi (ma, ahimè: "chi", esattamente, la rifiuta?), sono più che in ogni precedente epoca costretto a chiedermi cosa mai sia, e come sussista, l’"io" meta-algoritmico apparentemente inoggettivabile. In ogni caso, insieme con la conoscenza tendenzialmente esaustiva della facies fisica dello spirito cresce il thaumàzein teoretico di fronte ai vari tipi d'intersezione tra mente e materia.
Se la sfida cruciale è quella del riduzionismo/nichilismo, il problema cruciale è quello del trans-riduzionismo, del trans-nichilismo. Molto di
Terre può, per semplificazione, essere ricondotto all'enunciazione e al raccoglimento di questa sfida. Lo scenario culturale che si disegna può ricordare la «meditazione delle due bandiere» di sant'Ignazio
[18]: da una parte il grigio esercito di modesti fantaccini modernamente armati del fisicalismo, dall'altra la multiforme e brillantemente multicolore accolta dei cavalieri dello spirituale, riuniti per orifiammi, armati di archi (bugi) e spade e lance, spesso insofferenti gli uni degli altri, superbi, incoordinati e rissosi.
In questo scenario vedrei, almeno per l'Occidente, centrale la "
philosophia perennis" platonica-aristotelica-scolastica. Centrale non solo in ambito non-riduzionista per la sua continuità millenaria, e dunque per il suo dialogo mai interrotto, polemico e ricettivo, con tutte le filosofie spiritualiste rivali successivamente apparse, fino ai nostri giorni; centrale anche e forse soprattutto in quanto il suo atteggiamento ontologico e analitico ne fa probabilmente la più utilizzabile o la meno inattendibile interfaccia tra la cavalleresca schiera dei non-riduzionismi e la prosaica fanteria riduzionista. Chiaramente la fisica (in senso lato) "somiglia" di più, come impianto, come oggetti materiale e formale, a volte addirittura come terminologia tecnica (mi vengono in mente energia "potenziale", lavori "virtuali") all'ontologia aristotelica o scolastica
[19] che non, per esempio, al profetismo ebraico-cristiano o allo storicismo hegeliano o all'esistenzialismo jaspersiano; i diagrammi dell'intelligenza artificiale trovano nelle analisi aristoteliche di psicologia cognitiva più rispondenze e possibili agganci che nel misticismo di San Vittore o nello spinozismo o nel marxismo o nello stesso bergsonismo.
Bisogna certo tenere distinti il punto di vista scientifico-categoriale e il punto di vista ontologico-trascendentale, capaci di ottenere risultati ognuno sul proprio piano senza l'apporto decisivo dell'altro; tuttavia tra i molti spiritualismi la filosofia perennis sembra la più adatta a recepire e trasporre nel proprio linguaggio alcuni almeno dei risultati della scienza. Così, l'eventuale dimostrazione cosmologico-scientifica della finitezza temporale e spaziale dell'Universo potrebbe valere come conferma della tesi classica della sua contingenza ontologica e innestarsi su una delle "vie" metafisiche a Dio; l'eventuale dimostrazione informatico-scientifica dell'impossibilità di scrivere o implementare il programma della vera e propria consapevolezza potrebbe rafforzare l'argomento classico per la sussistenza dell'anima spirituale. Non dico che queste dimostrazioni siano state o possano sicuramente essere date; dico solo, per ora, che se venissero date troverebbero accoglimento e valorizzazione più significativi nella filosofia perennis che negli altri non-riduzionismi; mentre le eventuali dimostrazioni scientifiche del contrario le creerebbero difficoltà non minori che ad essi, anzi, in molti casi, forse maggiori, data la "protestantica" indifferenza di quasi tutti gli spiritualismi all'analisi scientifica-naturale per una sorta di acosmismo antropologico o di doppia verità.
In questo tipo di rapporti tra scienza e ontologia non c'è confusione di piani ma neppure irrilevanza dell'uno per l'altro; certo non c'è irrilevanza della scienza per l'ontologia, c'è trasponibilità da un linguaggio nell'altro, assumibilità dei dati scientifici (non di tutti; di quelli "significativi") nell'autonomo discorso filosofico. Con minor pretesa di rigore, e accettando il rischio di qualche commistione o forzatura, suggerirei anche di guardare se non siano utilmente accostabili e raffrontabili in una specie di continuum concetti propri rispettivamente della scienza e della filosofia perennis. Penso per esempio a quelli scientifico di informazione e aristotelico-scolastico di forma: l'una e l'altra sono co-principii dell'ente materiale, l'una e l'altra distinguono due enti a parità di materia, l'una e l'altra sono immateriali (privi di massa, di composizione chimica) e al tempo stesso complementari alla materia e sussistenti in o insieme con essa... Indubbiamente l'informazione o l'algoritmo, proprio come la forma, "sporgono" oltre la dimensione materia-energia nella dimensione in senso lato spirito. Anche perché sembra chiaro che nell'ente materiale il conoscibile (nel senso non di misurabile, ma di percepibile e concepibile) risiede molto più nel co-principio informazione o forma che in quello materia; e il conoscibile (la species, sensibile o intelligibile, per usare la terminologia scolastica) è certamente di natura immateriale, o non materiale nel senso in cui sono materiali le quantità misurabili fisicamente e i corpi analizzabili chimicamente.
Questo sporgere dell'elemento informazionale o formale oltre la materia suggerisce ancora, sempre un po' allusivamente o analogicamente, di avvicinare il rapporto materia-forma organizzante nell'ente materiale al rapporto materia-forma significante in quel peculiarissimo ente materiale che è il segno. Se assumiamo che il propriamente conoscibile nel segno in quanto segno è il significato, risulta evidente come e quanto l'aspetto significante del segno, starei per dire la species significante da esso "inviata", sporga oltre la materia e se ne svincoli. Nel segno linguistico, per esempio, sia fonico che grafico, non è certo essenziale conoscere la composizione chimica della materia (aria, inchiostro, metallo) di cui esso è fatto; un identico messaggio può essere comunicato utilizzando le materie più diverse. Sono insomma coprincipii del segno in quanto segno la materia e la forma significante; ma questa forma è ancora molto più distinguibile e indipendente e distante dalla materia di quanto non lo sia supponiamo la forma-leone rispetto all'ammasso di molecole di cui si compone materialmente un leone. È probabilmente essenziale all'essere-leone il constare di macromolecole proteiche; non è essenziale all'essere-la-parola-"leone" il constare di molecole di inchiostro tipografico.
In ogni modo, se ci limitiamo alla conoscenza intellettuale: la forma organizzante del corpo materiale naturalistico sta al concetto che viene "astratto" da quel corpo più o meno come la forma significante del corpo materiale segnico sta al concetto significato; entrambi i concetti sono entità perfettamente immateriali, pur non potendo essere comunicati, e forse concepiti, tra/da uomini, senza un supporto materiale; forma naturale e forma significante sporgono dunque entrambe dalla materia verso il perfettamente immateriale, verso il concetto come verbum intellettuale; verbum radicalmente diverso da ogni immagine sia naturalistica che linguistica, in particolare privo di qualsiasi rapporto intrinseco, necessario; non solo alla materia ma anche alla forma significante del segno con cui viene comunicato/concepito (non c'è nulla nel concetto di leone che somigli né alla materia né alla forma del segno scritto - italiano quanto a lingua, più o meno latino quanto ad alfabeto - LEONE, così come non c'è nulla nel concetto di concetto che somigli alla materia o alla forma del segno CONCETTO o BEGRIFF, e non c'è nulla nel significato di questa pagina a stampa che somigli a questa pagina a stampa).
D'altra parte concetto capito, significato capito,
verbum intellettuale implicano mente, implicano intelligenza in atto, e questo apre tutto il discorso sulla spiritualità non più del conoscibile, ma del conoscente/cosciente, discorso che dobbiamo qui omettere
[20] e che sostanzia il
de anima della filosofia
perennis inteso come discorso non solo fenomenologico ma ontologico sul supporto adeguato degli atti/stati di conoscenza/coscienza.
A conclusione di questo rapido excursus mi pare risulti abbastanza chiarito in che senso parlavo di filosofia perennis come interfaccia tra riduzionismo e spiritualismi. Materia, energia, informazione, programma, algoritmo sono concetti scientifici e assolutamente necessari alla scienza, e sono proprio quelli che concernono le realtà cui si tratterebbe, per il riduzionismo, di ridurre lo spirito; ma gli ultimi tre (riassumibili, del resto, nel concetto lato di informazione) hanno aspetti cospicui di immaterialità e a loro volta di irriducibilità (non si vede come ridurre l'informazione a materia e/o energia), mentre peraltro "somigliano" notevolmente al concetto perennis di forma. Inoltre, non sembra possibile considerare esterni o estranei alla scienza i concetti di significante e significato; ma anch'essi, anzi essi ancor più, concernono realtà dotate di aspetti cospicui di immaterialità e irriducibilità, anzi il concetto di significato è difficile a distinguersi dal concetto perennis di verbum intellettuale; e dunque il concetto scientificamente imprescindibile di significato rinvia all'intelligenza/coscienza che afferra il significato come verbum, intelligenza/coscienza la cui immaterialità fornisce il, o un, punto di partenza classico del de anima metafisico.
Tutto questo (salto numerosi passaggi) suggerisce la non-implausibilità di costruire una sorta di scala ontologica più o meno del tipo:
DIO
ANIMA, PERSONA SPIRITUALE
MENTE, INTELLETTO
SIGNIFICATO, VERBUM INTELLETTUALE
FORMA NATURANTE, SIGNIFICANTE
MATERIA ENERGIA INFORMAZIONE
scala che va da primi gradini decisamente materiali (sul piano ontologico) e scientifico-fisici (sul piano cognitivo) a ultimi gradini decisamente spirituali (sul piano ontologico) e filosofico-metafisici (sul piano cognitivo), ma che nei gradini intermedi esibisce una (certo da esaminare col massimo sospetto) suggestiva continuità tra materiale e spirituale (sul piano ontologico) e tra fisico e metafisica (sul piano cognitivo). Ora (e qui si conclude davvero il discorso sull'interfaccia), anche o proprio chi arricci il naso di fronte a questa continuità tra scienza e filosofia dovrà riconoscere che essa non è poi più scandalosa di una totale discontinuità, e che comunque ben difficilmente si sarebbe potuta anche solo ipotizzare in rapporto a una filosofia non-riduzionista diversa dalla perennis. Il discorso fin qui svolto può anche riassumersi con uno schema di questo tipo:

Ho detto poi che la filosofia
perennis sembra centrale anche nell'
agmen spiritualista. Abbandonando ormai la metafora militare, l'immagine che mi si fa incontro è quella del tronco robusto e disadorno sul quale possono venire innestate più esili, più fiorite essenze. Vedo la filosofia
perennis integrabile in tutte le direzioni, mentre non così vedo le altre filosofie. Il motivo è forse che si tratta di una filosofia trascendentale dell'ente, ciò che le permette di considerare tutte le sostanze, dal corpo all'io a Dio, con analoga impostazione. Ora, in questo possono risiedere dei rischi, come quelli di reificare lo spirituale/personale, di oggettivare l'inoggettivabile, di analizzare l'inanalizzabile, di immobilizzare nell'identità logica il dialettico, di astrarre razionalisticamente dallo slancio e dall'emozione del vivere, di disseccare intellettualisticamente la filosofia in comprensione teorica privandola della sua linfa soteriologica, riducendo a sapere la sapienza. Ma questi rischi, o limiti, possono appunto superarsi attraverso l'innesto o l'integrazione non puramente eclettici degli altri punti di vista, purché siano non contraddittori, ma complementari. Faccio un solo esempio, riunendo due prospettive tra loro connesse e a me care, che chiamerei la filosofia "della prima persona" in Jaspers e la filosofia "della seconda persona" in Marcel e soprattutto in Buber. È chiaro che definire l'uomo "animale razionale" o "sinolo di corpo e anima" o anche "sostanza spirituale-materiale" in qualche modo lo reifica, in ogni caso lo considera come "terza persona", come
id; e proprio qui c'è la già vista continuità o affinità con la scienza, ma anche il punto di frizione con le prospettive esistenzialistiche o personalistiche-dialogiche
[21]; lo stesso vale di concezioni di Dio come
Esse subsistens, Atto puro, Causa prima e simili. Uno jaspersiano dirà: l'io di cui si parla come di una struttura oggettiva non è più l'io, l'io è prima persona, possibilità, trascendenza. Un buberiano dirà: non si parla "di" ma "a" Dio, il Dio "di" cui si parla non è Dio, Dio è Tu, con Dio non esiste l'indicativo ma solo il vocativo o l'invocativo. Sono conquiste fenomenologiche irrinunciabili. Ma a mio giudizio non c'è incompatibilità con una - purché adeguata - ontologia "della terza persona"; c'è complementarità, che chi voglia può anche pensare in analogia alla complementarità tra fenomenologie ondulatoria e corpuscolare della luce. Io non direi:
aut ontologia oggettivante dell'uomo come sinolo corpo-anima spirituale
aut ontologia esistenziale dell'uomo come io/possibilità/trascendenza, ma:
quell'ontologia, e forse essa sola, spiega/fonda adeguatamente sul piano dell'oggettività, della terza persona, il fatto che l'uomo sia io/possibilità/trascendenza. Non direi:
aut Dio-Id,
aut Dio-Tu, ma: solo un Dio che in terza persona, come "Dorso", sia l'Essere per essenza, l'Atto puro di ogni passività, spiega/fonda adeguatamente il Dio che come "Volto"sia il mai aggirabile, sempre fronteggiante Tu, tanto Volto da non potersi eludere mai, né guardare "senza morire"
[22]. Analogamente procederei per innestare, o ritrovare più profondo, in una filosofia
perennis eventualmente insidiata da essenzialismo o strutturalismo, il
thaumázein heideggeriano per l'
actus essendi e la differenza ontologica.
2.2. Modello di Tutto e nuova contemplazione
Abbiamo a questo punto davanti agli occhi proprio la cosa che
Terre non contiene e che le mie ricerche personali, come dicevo all'inizio, hanno sempre lasciato dietro le spalle: un pan-orama sistematico dell'essere, un modello di Tutto. Esso è consegnato all'intuizione intellettuale dal continuum scienza moderna-ontologia
perennis - altri spiritualismi. Incredibile, quasi invivibile nella nostra cultura: il Tutto (materiale e mentale, visibile e invisibile) si presenta "radicato in cielo"
[23], sostentato dall'unico atto di essere e di creare dell'Infinito ontologico, del
Sat-cit-ananda personale divino, il quale sta all'essere (verbo, non sostantivo) come il sole starebbe alla luce se la luce fosse di origine esclusivamente solare, fosse intrinsecamente eliogena
[24]. Con ineffabile effato, senza l'opera delle mani, Dio pone l'altro da sé; non tanto altro tuttavia da non palesare nella propria struttura almeno alcuni tratti teomorfi, secondo gradi di partecipazione che si dispongono come in aggiornate gerarchie neoplatoniche o bonaventuriane: spiriti viventi (umani, forse cosmici non umani, forse anche extracosmici), viventi non spirituali senzienti e non senzienti, corpi non viventi macro-e microfisici. Aspetto teomorfo, in tutti i corpi creaturali; anzitutto la forma: quel co-principio nonmateriale di unificazione, di spiritualizzazione del disperso-esteso che fornisce la discernibilità, l'intelligibilità. La forma (la formatezza, la non-infermità), in quanto strettamente connessa all'
unum, al
verum, al
bonum, al
pulchrum (e forse al
dulce: vedi saggio 12!) dell'ente corporeo, è come il variegato trascendentale mantello che dall'alto riveste e orna di somiglianza a Colui che non ha forma la massa materica del mondo. Ma anche le energie, le forze, sono aspetti teomorfi, se Dio è anche intensissima attività e capacità di "compiere lavoro". Sommamente teomorfo (se così può dirsi), certo sommamente capace di evocare l'infinità divina fin nel più gracile frammento, la radiosità divina fin nel più fetido ammasso di rifiuti è poi l'atto d'essere, che penetrando senza residui l'essente concreto lo solleva irrevocabilmente fuori del nulla.
Nel sistema-Tutto (si esita a dirlo!) il visibile e tangibile dunque pende, sia nell'atto d'essere che nell'essenza, dall'invisibile e intangibile. Ma lo stesso accade, a ben guardare, nel subsistema culturale umano. Anche qui il visibile e tangibile scaturisce dalla sola cosa che non si vede e non s'incontra, di cui anzi viene laboriosamente inferita l'esistenza: l'anima, l'io come sostanza spirituale.
Chi sia convinto della necessità intellettuale di porre Dio all'origine e al fondamento dell'essere, ma abbia difficoltà nel pensare una potenza creatrice, un atto senza energia misurabile che suscita e configura l'immensa estensione di materia del cosmo, si procuri sostegno immaginativo nell'incontestabile anche se irrappresentabile dipendenza del mondo umano visibile proprio dal principio che meno visibilmente distingue l'uomo dagli animali antropomorfi superiori e dal sistema fisico della natura: il principio conoscenza/consapevolezza.
Gli scavi idraulici origine dell'urbanizzazione e le dighe idroelettriche, le piramidi il tempio la cattedrale il palazzo il teatro; le pitture le sculture le modellazioni globali d'ambiente, le musiche infinite i poemi i calcoli le sacre scritture le biblioteche i computers, miniere coltivazioni condotti petroliferi fabbriche supermercati, e navi treni jets e le armi, le armi... tutto l'impressionante subsistema visibile umano pende dall'invisibile, dal fisicamente introvabile principio conoscenza/consapevolezza.
Con tutto il rispetto per il cervello e la sua neocorteccia, per la mano dal pollice opponibile, per l'abbassamento della laringe favorevole alla fonazione articolata, per la stazione eretta liberatrice, insomma per i perfezionamenti del corpo umano ai fini ideativi, fabrili, espressivi, nessuna di queste cose visibili, indispensabili o utili all'invisibile, sostituisce l'invisibile. Anche chi lasci aperta, o magari risolva affermativamente, la questione se una qualche superiormente complessa organizzazione della materia, biologica o non, sia in grado di produrre quel principio, certo è che se non si produrrà proprio quello, proprio vera conoscenza/consapevolezza, non si sarà prodotto ciò che decisivamente spiega e genera il mondo umano visibile. S'infonda invece, in una superiore organizzazione della materia, il solo principio invisibile, l'intenzionalità autoconsapevole, e - lentamente forse, a tentoni - la cultura sarà.
Ma il modello non-riduzionistico di Tutto che stiamo sviluppando non si esaurisce nel mostrare la multidimensionalità del visibile, irradiato dalla duplice origine invisibile increata e creata. Esso stabilisce la non peribilità dello spirito creato sussistente, il suo destino di vivere oltre i milioni di millenni futuri della vita del cosmo. Osservando come la richiesta di assoluto, di perfetto, che può dirsi l'engramma stesso costitutivo dell'uomo scadrebbe ad anomalia di programmazione, ad assurdo
lusus naturae, se fosse priva di corrispondenza reale e di soddisfacibilità, il modello stabilisce la convenienza ontologica e morale che quella vita ulteriore all'eone cosmico sia un esigente quanto perfezionante e beatificante faccia-a-faccia senza fine con Dio e con gli altri "in" Dio. Il modello non-riduzionista travalica dunque il già spiritualizzato orizzonte del visibile per fornire anche una sistemazione "interna" dell'invisibile, dell'irrappresentabile, certo abissalmente distante dal regime umano attuale della consapevolezza, ma senza la quale non l'uomo soltanto, il Tutto stesso risulterebbe inintelligibile in termini di significato e di valore
[25]. Questo sprofondamento dell'anima nei sovrumani silenzi e nelle sovrumane illuminazioni dell'eterno sarebbe l'ultima, e ovviamente la suprema, tra le manifestazioni di "incredibile segretamente atteso" che accadono all'uomo, episodicamente, già in questa vita, ogni volta che supera un limite ritenuto costitutivo. Reciprocamente il destino di eternità, se preso sul serio, non può non reagire sull'effimero prologo di esistenza terrena, dando alle sue passioni di dolore e di gioia un orizzonte in-comparabile
[26].
Il modello non-riduzionistico moderno dischiude un nuovo stile di contemplazione. La conoscenza scientifica spinta fino alle estreme frammentazioni quantistiche e alle estreme complessità sistemiche, fino alle estreme piccolezze e alle estreme grandezze, agli estremi passati e agli estremi futuri congetturabili della materia-energia organizzata diventa, senza snaturarsi, lettura di uno degli alfabeti o proprio dei sensi
[27] del testo divino, e al tempo stesso meravigliamento difficilmente esauribile sopra gli inattesi connotati della
facies cosmicomateriale dello spirito (perché mai la mente doveva essere associata alle proteine?). La contemplazione moderna non può più essere, dopo superato lo scientismo ma recepita la scienza, né quella semplicemente spiritualistica, né quella semplicemente fisicalistica: è quella che va nel senso dell'
aleph, ossia della co-visione di tutti simultaneamente i livelli e i presupposti - metafisici e fisici, transcosmici e cosmici - di ogni singolo ente, di ogni singolo accadimento
[28]. Va nel senso del vedere/realizzare lo spirituale nella materia, il materico nello spirito, l'esistenziale nei processi fisico-chimici, il fisico-chimico nelle vicende esistenziali
[29], l'infinito nel finito, il Tutto nel frammento - s'intende con i limiti posti dalla condizione neuronale-culturale della mente, limiti al cui spostamento o superamento nella misura massima consentita si può tuttavia attendere con un'assidua, emozionata pratica meditativa convergentemente scientifica, metafisica e sapienziale
[30].
Se la contemplazione va in direzione dell'
aleph, l'azione va nella direzione del
pléroma, ossia dell'avvento della pienezza dell'essere nell'uomo e attraverso l'uomo
[31]; il
pléroma divenendo così l'ideale normativo unitario, etico-ontologico, della tecnologia e dell'economia, del diritto e della politica.
2.3. Religione teoretica e religioni storiche
Questo modello di Tutto costituisce, è chiaro, una visione scientifico-filosofica (d'ora in poi, sinteticamente: teoretica) religiosa, nel senso di cognitivamente, non-religiosamente necessitata a includere approdi religiosi. Ora, una teoresi religiosa è naturalmente vocata ad aprirsi, a tradursi, in religione-mistica (d'ora in poi, sinteticamente: religione) teoretica, ossia in un'adorazione, un'invocazione, un'ascesi percettiva e contemplativa, forse anche in una qualche forma istituzionale-associativa e "liturgica", fondate sulla teoresi religiosa medesima; in una religione del pléroma teoreticamente delineato. Sarebbe infatti freddo o monco, o futile, comunque poco realistico il pensatore che sviluppasse trionfalisticamente un modello di Tutto spalancato su Dio, l'anima spirituale creata, i livelli di spiritualità e le intimazioni di trascendenza propri dell'universo fisico, la comunione eterna dei giusti in Dio, senza rapportarsi con tutta la vita, religiosamente appunto, alle realtà e ai valori del modello.
Avrebbe, una simile religione teoretica, prospettive psicologiche ed esistenziali concrete? La rassegna dei tentativi fin qui fatti di fondare religioni a base scientifica o filosofica porta a dubitarne. Se non altro per questa ragione "pratica" (ma, come vedremo, non solo per questa), il modello pleromatico deve includere anche un chiarimento del rapporto tra teoresi religiosa - con eventuale connessa religione teoretica - e religioni storiche.
Per quanto riguarda anzitutto le religioni in generale, la teoresi scientifico-filosofica non può abdicare al controllo critico e all'universalizzazione logica e ontologica dei contenuti dogmatici; reciprocamente sarebbe ottusa e riduttiva se trascurasse i suggerimenti teoretici che dalle religioni copiosamente provengono. Una volta controllato e recepito il nucleo dogmatico essenziale di una religione, nulla impedisce allo scienziato-e-filosofo di coltivare con tutto il cuore le emozioni e le pratiche da quella religione sapientemente suscitate e proposte per prendere efficacemente tutto l'uomo. Ragionevole non è infatti vivere senza emozioni, ma vivere fino in fondo le emozioni che anche la ragione approva. E tra queste sono certamente anzi primariamente, in base al modello, emozioni religiose. Non ci può essere niente di più completamente umano e di più dolce dell'emozione di un cuore approvato senza riserve dalla ragione. (Incidentalmente: lo stesso vale del rapporto tra teoresi e arti: controllo critico, recezione, elaborazione dei contenuti teoretici; riconoscente abbandono a quelle emozioni superiori che l'opera sappia sostenere o suscitare).
Per quanto riguarda in particolare il cristianesimo, accerto anzitutto in me, come in ogni nato credente, quella strana appartenenza ombelicale, inargomentabile ineradicabile che, forse un po' come si dice la mamma quando non è più sfuggibile la morte
[32] ti fa dire "Signore!" in modo cristiano. Ma questo non ha significato teoretico. L'immagine con portata intellettuale che persistentemente mi viene incontro pensando alla Bibbia è una carovana che solca un altopiano deserto sotto il cielo, lunga fino all'ultimo orizzonte, esile all'inizio e che si va ingrossando, laggiù Israele popolo di Yahve qui Chiesa popolo di Gesù Cristo, e l'altopiano e il cielo sono la struttura delle cose quale si presenta alla conoscenza la carovana è il luogo di una storia, di una notizia che non si sarebbe potuta desumere da alcuna indagine strutturale sull'essere. Ma avvicinandomi, prendendo posto come dall'interno nei cerchi di bivacco notturni ai piedi delle stelle, mi sembra che nella carovana non si raccontino cose molto diverse da quelle che uno sguardo umano attento e profondo scorge tutt'intorno. La storia ebraicocristiana oscilla tra l'inaudito e l'identico alla religione teoretica naturale. Anche la super-notizia, l'Incarnazione, apparentemente strappo storico il più violento nell'analisi strutturale dell'essere, da un lato porta al culmine tutto un movimento autorivelativo di Dio che abbastanza ubiquitariamente avvolge il pianeta e, come ha mostrato Blondel, corona e prolunga pensieri e aspettative tra i più radicati dell'animo umano, sul proprio destino e sulla stessa essenza divina; d'altro lato si presenta con argomenti e credenziali come la Risurrezione, la dottrina, la personalità complessiva di Gesù che la rendono, almeno in linea di diritto e secondo la persuasione cristiana cattolica, riconoscibile da ogni intelletto e cuore in ricerca sincera della verità: al punto che è di fede, o quasi, la possibilità/doverosità di arrivare anche con la semplice umana ragione ad asserire i principali contenuti di fede
[33].
In questa prospettiva, il cristianesimo concepisce se stesso non come "ismo" tra "ismi" ma come la stessa "laica", universale, "naturalmente" riconoscibile verità di fatto sul mondo, sull'uomo, su Cristo, su Dio, e dunque come candidato a entrare in blocco, per via filosofica generale o apologetica specifica
[34], nella teoresi e nella religione teoretica dell'umanità intera. Il minimo che deve dire anche il non credente è che la concezione interno-teologica del rapporto tra rivelazione biblica e religione naturale non può attestarsi pacificamente su posizioni "protestantiche" di assoluta superiorità, pur non potendo neppure accettare operazioni razionalistiche di integrale assorbimento del cristianesimo nel pensiero umano autonomo. Rimane una tensione; non molto dissimile tuttavia da quella tra Dio Trascendente, totalmente Altro, e Dio in qualche modo immanente per esemplarità, per partecipazione di essenza (quindi dalla tensione tra pura-mondanità e teomorfismo del mondo) presente nella stessa teoresi religiosa naturale. Certo "fa senso" al credente l'idea di una specie di continuità tra il mondo e Dio, l'idea che Egli per qualche aspetto sia "già qui", conoscibile e quasi toccabile al pari di una Sostanza spinoziana. Ma non si deve trascurare il fatto che lo stesso mondo fisico indubitabile include, come abbiamo detto, intimazioni strutturali di trascendenza e aspetti irrappresentabili, e che realtà come lo spirito umano, la persona, l'Io e il Tu inoggettivabili, certamente presenti nel modello teoretico naturale, trascendono e sono per alcuni aspetti "totalmente altri" rispetto al mondo fisico. Io inclinerei dunque, con cautela, piuttosto verso il complessivo teomorfismo (per non dire cristianomorfismo) del mondo e cosmomorfismo del cristianesimo. Mi sembra che l'accentuazione della trascendenza cristiana rispetto alla teoresi religiosa naturale contenga spesso una quota di campanilismo confessionale e un'altra quota, più importante, di perdita della capacità di meravigliamento mistico-metafisico di fronte al mondo e all'esserci-il-mondo, perdita solidale del riduzionismo fisicalista volgare. Certo, Dio è
molto altro rispetto a un mondo macchina fatto di null'altro che materia/energia/algoritmi (ma abbiamo riconosciuto che a ben guardare neppure rispetto a un simile mondo Dio è proprio
totalmente altro...).
Conseguenza o completamento di tutto questo è che la famosa carovana sull'altopiano concorre con altre al progressivo disvelamento e avvento del pléroma. Israele non annuncia Israele, soprattutto la Chiesa non annuncia se stessa, ma la Chiesa è il luogo dove viene annunciato il Regno di Dio, il disegno universale di salvezza "in" Cristo, e dunque l'incolmabile eccedenza del Regno rispetto alla Chiesa storica, del cristico rispetto al cristiano storico. Se nella religione teoretica naturale un Dio creatore per amore non può non intendere la santificazione e la salvezza di tutte le sue creature, il cristianesimo come annuncio del Dio che in sé è relazioni di amore e che ama gli uomini fino alla morte non può proporre come "buona" una novella del tipo che la maggioranza degli uomini si perde perché al di fuori del perimetro della Chiesa storica cessa il Regno di Dio. Se (premessa teologica) Dio ama e intende santificare e rendere partecipe della propria stessa vita l'umanità intera, e se (premessa di fatto) la grande maggioranza degli uomini della storia non è cristiana, allora i santificati e ammessi alla vita divina saranno in grande maggioranza non cristiani. Dunque la Chiesa cristiana è il luogo (per i cristiani, privilegiato) dell’annuncio dell'inadeguatezza al Regno di Dio di ogni Chiesa. Di qui l'importanza rivelativa e salvifica (nell'ordine "paterno" della creazione; e indirettamente nell'ordine eristico della redenzione) delle religioni non cristiane e della religione naturale, anzi della pura e semplice condizione umana presa su se stessi e accettata, in definitiva il vero sacramento universale, il vero titolo irrecusabile all'amore indefettibile di Dio. E di qui il compito di integrare al cristianesimo pleromatico, che è già e non ancora, le religioni nel loro apporti teoretici e di pratica psicospirituale compatibili; in cammino verso quella pianura, o quell'altura, dove la carovana fondendosi con tutte le altre possa diventare una con l'umanità intera, asserirsi ultimamente e sciogliersi.
Per quanto riguarda in particolare il buddismo, scelto qui come rappresentante di tutte quelle vie orientali dove prevale la pratica di autotrasformazione psicospirituale sul dogma, l'esperienza diretta sulla fede, e nel quale dunque privilegio le versioni più "asciutte" (
theravada,
Zen,
vipassana), esso, diversamente dal cristianesimo, appare subito come analisi strutturale e non "storia" della salvezza; ma analisi difficilmente compatibile con la teoresi religiosa naturale se si prendono molto sul serio la negazione di Dio e dell'anima (a-teismo, apsichismo) e forse anche la teoria della reincarnazione. Per integrarsi nel modello pleromatico sopra delineato, il buddismo sarebbe dunque chiamato a rivedere le pur geniali critiche (per esempio, di un Nagarjuna) alla sostanza spirituale e materiale
[35] e in qualche modo a muovere, forse attraverso un ritorno al grembo della
koiné induista "ereticamente" abbandonato, verso posizioni teiste e sostanzialiste. Ma chi guardi al buddismo da quel modello penserà piuttosto che l'essenziale è che non si perda l'accentazione dell'urgenza del lavoro su se stessi, il tesoro delle esperienze e delle tecniche ascetiche e meditative, l'acume delle analisi della mente e dell'esistenza. Anzi, all'agnosticismo buddista sulle questioni ontologiche supreme potrà riconoscersi un suo carisma anche nell'ipotesi che esso in linea di diritto debba essere abbandonato teoreticamente; perché anche in questa ipotesi nessuno nega che in linea di fatto molti ostacoli si frappongono al conseguimento certo e fermo della convinzione teoretica su Dio, creazione, anima, vita eterna (e tanto più Trinità, Incarnazione, cristianesimo); ed è quindi bene avere "di riserva" una spiritualità soteriologica esperienziale, che regge anche senza assunzioni metafisiche e che queste comunque non possono certo sostituire o rendere superflua.
Del resto il carisma buddista della spiritualità agnostica può valere anche per coloro che, privi di una teoresi religiosa naturale, aderiscono al modello religioso solo per fede, come gli scientisti-fideisti che sono forse oggi, nelle cristianità del primo mondo, la maggioranza: essi rischiano, perdendo la fede cristiana e rimanendo solo con la scienza e le ideologie secolari, di smarrirsi nel gorgo del nichilismo o nella palude della banalizzazione, di sminuirsi nell'idolatria di un potere, nella mitizzazione di una militanza politica, nell'infatuazione di un narcisismo o di un amore; tutti guai dai quali il buddismo, culmine sapienziale forse il più alto nell'orizzonte dell'agnosticismo e dell'immanenza, può preservarli.
Quanto ai cristiani davvero pleromatici, credenti con la ragione e col cuore, nemmeno per loro il buddismo o un suo equivalente funzionale sembra superfluo. Il cristianesimo non si contenta di ortodossia teorica, ma esige una conversione della vita e tutta una nuova percezione della realtà; il minimo che il buddismo può dare a chi motivatamente intende perseverare nella propria religione madre è fargli riscoprire la tradizione ascetica e mistica cristiana, oggi ampiamente trascurata. Ma possono esserci anche conferimenti di significato cristiano a pratiche orientali; così, la meditazione "senza contenuto" può trasparsi cristianamente: in monito a non prendere le rappresentazioni immaginative o concettuali dell'Oltre per l'essere reale; in sintonizzazione col silenzio di Dio attraverso il silenzio dell'ego
[36]; in docilità oltre ogni consapevolezza all'azione ininterrotta dello Spirito; in intenzione di "disposamento" della preghiera che lo Spirito prega nel cuore dei "santi" con gemiti inenarrabili
[37]: Ci sono valenze specificamente cristiane del buddismo e specificamente buddiste del cristianesimo. Il cristianesimo può riconoscere al proprio interno il sorridente non-attaccamento tipico della buddità come alta precondizione di amore oblativo; il buddismo può riconoscere al proprio interno l'amore oblativo tipico della criticità come alta figura di non-attaccamento
[38].
3. Avvertenze per l'uso
Il paragrafo precedente può dare l'impressione che al di sotto di Terre ci sia non solo sistematicità implicita nel senso di una sperabile coerenza, ma vero e proprio sistema esplicito, nemmeno particolarmente originale. L'impressione sarebbe fuorviante. Ripeto che i risultati dì Terre sono stati ottenuti ricerca per ricerca e si vogliono validi (o criticabili) indipendentemente dal riferimento al sistema; restano da aggiungere alcune avvertenze per l'uso, anch'esse volte a contrastare un "sistemismo" interpretativo che tradirebbe l'impianto del libro.
Intanto, l'atteggiamento pleromatico di fondo porta a suggerire, per chi nel dialogo interreligioso o anche più in generale non veda la sintesi tra due fedi, principi o valori entrambi irrinunciabili, la direttiva esistenziale: viverli entrambi, preferire la sperimentazione alla coerenza; viverli, certo, con vigilanza e passione di unità, sapendo che la contraddizione non può essere l'ultima parola. In nessun caso una sintesi prematura è preferibile a un protrarsi dell'inquieta incoerenza o della dolorosa rinuncia, una soluzione addomesticata o verbale è preferibile a una mancanza consapevole di soluzione. Talvolta vivere nella propria persona un vero dilemma può essere l'unica via alla scoperta di un'integrazione vera; ed è allora un terzo modo (provvisorio, certo) di essere sistematici.
Questo minimo elogio della provvisoria incoerenza della tenace acribia va completato esigendo dagli specialisti intrepidezza nello sviluppare gli scenari dell'irrappresentabile. Ciò che si attinge non per conoscenza fisica né per autocoscienza: Dio, la creazione, l'anima; la vita eterna, deve pensarsi fino in fondo, non fermandosi alle pur valide inferenze che lo rendono "in qualche modo, in enigma" da affermare. Concludere dall'esistenza di un mondo contingente, non autoesplicativo, a un Dio creatore, o dalla spiritualità autocosciente di certi atti mentali a un'anima non suscettibile di morte, va considerato meno un punto d'arrivo e di sosta che un punto di partenza per ascensioni speculative tanto necessarie quanto esposte a sgomento, meraviglia e critiche vertigini. Ci sono i problemi che Dio e l'anima risolvono e i problemi che le soluzioni Dio e anima fanno nascere. Problemi a volte così ardui, scenari a volte così controintuitìvi, da costringere a tornare, con sempre nuove richieste di verifica, sulle stesse originanti soluzioni. L'ontologia dello spirito è un abisso trans-esperienziale su cui si sporge assicurati a corde di inferenza; il primo e ultimo dovere intellettuale, il realismo, vieta di nascondersi il grande vuoto, i tremendi/fascino i strapiombi.
Ma per una visione spiritualistica che sia realmente moderna nel senso (positivo) di post-riduzionistica, insisterei, ancora una volta, su una conversione stabile dello sguardo, attraverso la scienza, dagli scenari dell'irrappresentabile puro a quelli dell'irrappresentabile misto, all'
aleph: ossia al prodigio concreto che è ogni oggetto di esperienza preso in tutti i suoi livelli e in tutti i suoi presupposti, intersezione dei piani transfisici e fisici, dell'eternità e delle diacronie naturali e culturali, dell'inoggettivabile e dell'oggettuale, del minimo e dell'immenso, dell'effimero e dei milioni di millenni (cfr. saggio 14). L'esercizio (la contemplazione pleromatica moderna) sarà, nel mistero cosmo, co-intuire
[39] i paesaggi dell'ultramicroscopico, il lavoro della m ente umana che li dischiude e l'Atto che sostenta gli uni e l'altra; sarà, nel mistero uomo, vedere il neuronale della mia della tua tristezza, l'algoritmico del mio del tuo pensiero, il polipeptidico della mia della tua vita, l'astrogenesi della mia della tua autocoscienza; sarà, in senso inverso, vedere nell'ontogenesi l'anima immortale attrarre a sé le molecole secondo gli schemi di Watson e Crick, nella filogenesi l'anima immortale farsi strada verso la coscienza attraverso vicende di neocorteccia di pietre di fuochi di fonemi di scritture, e nelle scritture il
verbum intellettuale incarnarsi e comunicarsi in tracciati chimici e in radiazioni elettromagnetiche, l'inesteso/intemporale occupare misurabilmente lo spazio e il tempo... sarà non cessare di lavorare alla cosmicizzazione dell'io e alla esistenzializzazione dell'universo.
In ogni caso (questo è certamente uno dei costanti messaggi interlineari, starei per dire subliminali, di Terre) il possesso di una nozione esige il passaggio alla realizzazione, la vita intellettuale resta monca se non si traspone in vita mistica. Larghe parti di Terre sono state scritte in postura meditativa, e forse nello stesso modo andrebbero lette; molti pensieri sono stati contemplati in senso forte, e si rivolgono al lettore per esserlo nuovamente e più fortemente. In Terre il sapere è per la mistica, il sapere è infrastruttura di un risveglio. Vige un'economia per cui: mistica>intelligenza>filosofia>teologia; senza la pretesa che questa economia valga oggettivamente in sé al di fuori di Terre. Mistica prevale su intelligenza nel senso che ne costituisce il fine. Intelligenza prevale su filosofia e teologia nel senso che viene ambìto un capire non professionale. Filosofia prevale su teologia nel senso che il libro è laico. Ma con mistica s'intende un risveglio realistico a ciò che è, con filosofia laica s'intende una filosofia che si scopre, per esigenze conoscitive interne non per fede, filosofia religiosa.
Religiosa almeno in un triplice senso. Perché afferma cose divine. Perché è meravigliata e commossa, si rivolge da commosso a commosso
[40]. Perché oltre che mistica è soteriologica, oltre che in risveglio all'essere vuole tradursi, svilupparsi, in autotrasformazione che "salvi", e dunque postula una pratica di vita sapienziale
[41].
Ho dedicato il libro a cinque ragazzi. La ragione principale, dopo il bene che gli voglio, sta nel provenire le loro vite da antichissimi processi del piacere e della generazione (e forse da insondabili atti di pensiero-creazione dell'Amore Eterno) che si sono avvalsi di "me" come tramite. Erano quindi i naturali destinatari di un'opera che più di ogni altra da me pubblicata contiene, a proposito del mistero della vita umana, suggerimenti verso una consapevolezza e una speranza "ultime".
Nella citazione di Blake[42] prevalgono forse, sugli sparrows e sul come hither della tenerezza, gli arrows della longanime ontologia che accetta l’intraprendenza, l'indipendenza. Memoria dei liberanti duri versi di Kahlil Gibran[43]: «Your children are not your children... They come through you but not from you ...You are the bows from which your children as living arrows are sent forth». E nessuno ha mai visto una freccia tornare indietro.
P.S. Nel momento di separarmi definitivamente dal libro, sento che esso deve recare con sé, nella sua vicenda imprevedibile, il nome del prof. Ari Derecin, ordinario di filosofia e storia al liceo Tasso di Roma, scomparso dopo estenuante malattia il 13 dicembre 1988, mio amico e compagno di ricerca fondamentale e avversario di fede fin dall'infanzia, il cui pensiero in più modi abita queste pagine. Mi è caro ricordargli accanto, al di là delle separatezze terrene, il prof. Padre Alberto Di Giovanni, della Compagnia di Gesù, morto a Roma l'8 luglio 1988, fervido amico, fraterno benefattore spirituale.
[1] «Studium philosophiae non est ad hoc, quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum» (SAN TOMMASO, Commento al De coelo et mundo, lib. I, lez. 22, n. 228 dell'ed. Marietti). Motto che porto con me per quando ho bisogno di sorridere degli storicismi e delle scaltritezze ermeneutiche.
[2] Non casualmente s'intitolava Dronero, mia terra il più impegnativo dei brevi poemi in prosa con cui, studente universitario, non escludevo di affacciarmi nel mondo della letteratura (fu pubblicato su "ll Massimo", rivista del mio liceo, nella primavera 1956).
Mi è stato infatti destino, e credo anche fortuna, avere, in questa vita, una vera mia-terra; che per essere (in) una valle del Piemonte non mi preclude di sentire come patrie del cuore la catena himalayana o altri essenziali luoghi del pianeta. Per Saint-Exupéry penso, ovviamente, a Terre des hommes; per Tolkien alle tante Terre archetipiche del Signore degli anelli,che pur tardivamente incontrate e del tutto ininfluenti sull'intitolazione delle Parti di questo libro, vi hanno singolari corrispondenze: per esempio, Mordor può essere un'ottima Terra del Nulla, la Contea - pur habitat degli Hobbit – è proprio quello che intendo con Terra degli Uomini, mentre la mia Terra dell'Oltre ha degli aspetti (di spiritualità immanente, e in particolare buddista) per cui somiglia all'elfica Lothlòrien, altri (più trascendenti, e in particolare cristiani) per cui potrebbe, non troppo inesattamente, richiamare Valinor.
[3] Mantengo questa figura triadica perché l'ho usata molte volte nel testo e forse anche perché omne trinum est perfectum. Ma probabilmente sarebbe più corretto dire: alla diade materia/energia + informazione/organizzazione. Per i seguenti motivi: l) materia ed energia appaiono sempre più tutt'uno, aspetti reciprocamente convertibili; 2) l'informazione cui mi riferisco non è tanto quella, rigorosamente misurabile, della teoria dell'informazione, quanto quella denotata da usi soprattutto biologici (come "informazione genetica") o informatici. Rientrano tipicamente nel mio concetto di informazione: il codice genetico; "quel certo non-so-che che distingue un topo da un omogenato di topo, un coacervo (di cellule di cervo) da un cervo"; un programma, un algoritmo, meglio se "implementati" (uso con ripugnanza questo termine). L'informazione così intesa non è rigorosamente misurabile e forse neppure del tutto univoca concettualmente, come non lo è del resto l'affine "complessità". Ma la scienza, o la descrizione a base scientifica delle cose, ne fa uso necessario e continuo, e proprio l'aggiunta di essa distingue per me il riduzionismo (anni 1950-1990) dai predecessori fisicalismo (diciamo 1900-1950) e materialismo ('700 e '800). Chi alla triade preferisca la diade avrà ancora maggiore facilità nel riconoscerne l'aria di famiglia con la diade filosofica materia-forma.
[4] Le conseguenze politiche e giuridiche del nichilismo sono studiate con qualche ampiezza nel mio Corso di filosofia del diritto, Cedam, Padova 1981, cui rimando il lettore particolarmente benevolo anche per proposte di superamento del nichilismo più organiche di quelle che potrà trovare, per spunti, in questa e nelle successive Parti. I due volumi, Terre e Corso, formano un insieme idealmente unitario, che il lettore eccezionalmente benevolo sarebbe invitato a completare con il De Deo e il De anima contenuti nelle dispense Pensare giusto. Orientamenti filosofici fondamentali, I.S.U., Università Cattolica, Milano 1986.
Avverto anche qui, una volta per tutte, che molti saggi raccolti in Terre, pensati inizialmente come libri e in ogni caso come in qualche misura autosufficienti, compiono al loro interno lo stesso percorso Nulla-uomini-Oltre che caratterizza l’intero libro; spesso la collocazione avviene in base al baricentro, alla prevalenza di una delle dimensioni, senza che questa sia esclusiva.
[5] Avviene, forse non inspiegabilmente, come se questi termini riunissero alcune delle più belle poesie italiane. Orti: «E questa sovra i tetti e in mezzo agli orti/ Posa la luna ...» (LEOPARDI, La sera del dì di festa). Pomarii: «Godi se il vento ch'entra nel pomario / vi rimena l'ondata della vita» (MONTALE, In limine a Ossi di seppia; tre righe dopo: «orto non era, ma reliquiario»). Orizzonti: «...che da tanta parte / Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude» (LEOPARDI, L'infinito); «e ti dirò per qual segreto / le colline su i limpidi orizzonti / s'incurvino come labbra che un divieto / chiuda...» (D'ANNUNZIO, La sera fiesolana).
[6] Sul concetto di sapienza rinvio ai lavori citati nell'Avvertenza alla Parte III.
[7] Saggio 16, spec. § 5.
[8] Saggio 17, spec. § 6.3.
[9] Saggio 18, spec. § «Il tempo decisivo». Cfr. Moralità dell’ontologia, in Ontologia e assiologia. Atti..., a cura di C. GIACON, Morcelliana, Brescia 1974, 188-194.
[10] Saggio 22, spec; §7 i.f.; saggio 23, spec. parte finale.
[11] Saggio 20, § l.
[12] Il 18 e il 19. Per un'esposizione complessiva di questo modo di operare del diritto: Le droit camme moyen de communication de l'ineffable, in AA.VV., Demitizzazione e ideologia, a cura di E. CASTELLI, Istituto di Studi Filosofici, Roma 1973, 367-370. Vedi anche il gruppo di lavori citati nell'Avvertenza alla Parte III.
[13] Su quanto segue vedi, più ampiamente, il saggio 21. Cfr. anche oltre, in questa Introduzione, § 2.3.
[14] Vedi saggio 23.
[15] Questo punto è trattato più estesamente nel saggio 21, § 3.
[16] Mi riferisco alla mirabile dossologia di Filippesi 2,6-11, nella quale per così dire Dio si merita eticamente la divinità. Il passo è talmente in sintonia con la filosofia religiosa di Emmanuel Levinas da far pensare che Levinas è oggettivamente cristiano o che comunque il cristianesimo è la più levinasiana delle religioni abramitiche.
[17] Uno, fattuale, è il saggio 22: un altro, esigenziale, e afferente più al monoteismo in genere che al cristianesimo, è il saggio 6; argomenti metafisici (sempre a favore del monoteismo personalista generico) si trovano in Pensare giusto, cit. alla n. 4; argomenti etici (anche specifici a favore del cristianesimo) sono disseminati nei lavori citati nell'Avvertenza alla Parte III.
[18] Esercizi spirituali, §§ 136-148.
[19] Per averne prova basta chiedersi se sarebbe possibile elaborare in qualsiasi altra filosofia i materiali della fisica moderna ottenendo risultati comparabili alla monumentale Cosmologia del padre P. HOENEN, 5a ed., Univ. Gregoriana, Roma 1956.
[20] Rinvio alle dispense citate sopra, n. 4, e al classico P. SIWEK, Psychologia metaphysica, 7a ed., Univ. Gregoriana, Roma 1965.
[21] Per queste ultime vedi Amicizia, carità, diritto, Giuffrè, Milano 1969, cap. II e Appendice II, § 4.
[22] Esodo 33,21-23: «Yahve disse ancora: Ecco qui un posto vicino a me. Tu starai sulla roccia e quando passerà la mia gloria ti metterò nella fessura della roccia e ti riparerò con la mia mano durante il mio passaggio. Poi toglierò la mia mano e tu mi vedrai di schiena; la mia faccia, non si può vederla!».
[23] L'anima in noi principale dimora in cima al corpo ed è verso il cielo che divinamente solleva la nostra testa, che è come la nostra radice, «perché noi siamo una pianta non già terrestre, ma celeste»: PLATONE, Timeo 90.
[24] Uso il suffisso, con qualche esitazione, in analogia a "iatrogeno", "allogeno", e ovviamente non a "patogeno" "ossigeno" e simili.
[25] Vedi specialmente i saggi 6 e 24.
[26] Vedi specialmente la fine del saggio 14 e l'inizio del saggio 24.
[27] Uso il termine, ricordando il grande quadro offerto da de Lubac sull'esegesi medievale, come san Tommaso quando distingue nella sacra Scrittura «sub una littera ... plures sensus, qui sunt historicus vel litteralis, allegoricus, tropologicus sive moralis, et anagogicus» (Summa Theologiae I, q. l, a. 10). Qui la scienza fornirebbe una sorta di senso "letterale".
[28] Sull'aleph cfr. spec. saggio 5 i. f. e, come applicazioni, i saggi 13 e 14. Qui di seguito illustro maggiormente - perché è incontrovertibile, e in questo senso "più mistica" - la facies immanente dell'aleph. Ma l'aleph completo e concreto, per chi accetta il modello perennis, include anche la contemplazione delle facies divina. Il credente filosofo teorizza Colui che in un unico atto eterno identico alla Sua stessa essenza contiene e sorregge l'intera storia dell'essere creato (tutta la storia di tutto quello che sarà mai stato!) quasi fossile di divenire in ambra incorruttibile.
Realizza, il credente filosofo, che tutto quanto per noi deve ancora accadere (la vita nostra, dei nostri figli, la stessa "vita eterna" degli uomini risuscitati), in Dio è già, fin dall'inizio, come accaduto? che tutto il per noi passato è in Lui, fino alla fine, immutabilmente presente? Realizza, il credente filosofo, che la prima via di san Tommaso, dal moto, significa che giù dentro il fossile storia totale occorre l'immutabilità dell'Assoluto per spiegare ogni singolo spostamento di un convoglio delle Ferrovie dello Stato in una giornata di agosto? che la seconda via, dalla causalità, significa che senza una donazione divina di essere non può prodursi nemmeno uno stridio di frenata su tronco di rotaia caldo estivo del tratto Mondovì-Ceva della Torino-Savona? che la terza via, dalla contingenza, significa che tutti gli eventi dell'universo, fisici e mentali,proprio quest'estate, proprio ora pendono da un Necessario inincontrabile per ogni umana misurazione, per ogni umana autocoscienza?
[29] Uno dei ritiri dei Gruppi di meditazione menzionati alla n. 41 è stato appunto dedicato, ne11987, al tema "cosmicizzazione dell'io ed esistenzializzazione dell'universo".
[30] Vedi specialmente saggio 17 e Avvertenza alla Parte III.
[31] Sul concetto, per me centrale, di pléroma, e di cristianesimo pleromatico, rinvio a: Laicità o universalità?, in AA.VV., Laicità. Problemi e prospettive, Vita e Pensiero, Milano 1979; Il luogo della fede (= saggio 21); Corso, cit., Parte II; L'orizzonte problematico... (cit. infra, in Avvertenza alla Parte III), spec. pp. 17-20, 60-69, 91-111; e passim più o meno a tutti i miei scritti filosoficopolitici.
[32] «When a patient was entering on a difficult or protracted death he was lifted on to a wheeled table and rolled into a room reserved for the dying... Over half the patients called for their mothers - even men who appeared to be nearing a hundred. (A man's first and last words are easy to say; that m recurs in all languages.)»: Thornton WILDER, nell'appassionante The Eighth Day, cap. 3 («Chicago, 1902-1905»); rist. Penguin 1987, p. 198 s.
[33] Questa difesa della ragione umana come articolo di fede, questa condanna di fede del fideismo è tra le figure singolari della storia del pensiero. Mi limito a citare frammentariamente dalla Constitutio dogmatica de fide catholica del Concilio Vaticano I (1870), facendo seguire tra parentesi i numeri del DENZINGER, Enchiridion symbolorum, ed. 3l, Herder 1957: «Cum recta ratio fidei fundamenta demonstret» (1799); «(Contra negantes theologiam naturalem.) Si quis dixerit, Deum unum et verum, creatorem et Dominum nostrum, per ea, quae facta sunt, naturali rationis humanae lumine certo cognosci non posse: anathema sit» (1806); «(Servanda in ipsa fide iura rationis.) Si quis dixerit, revelationem divinam externis signis credibilem fieri non posse, ideoque sola interna cuiusque experientia aut inspiratione privata homines ad fidem moveri debere: anathema sit» (1812); «(De revelationis demonstrabilitate.) Si quis dixerit... miracula certo cognosci nunquam posse neciis divinam religionis christiane originem rite probari: anathema sit» (1813). La Costituzione contiene peraltro condanne non meno recise del razionalismo integrale.
[34] La più estesa indagine apologetica in Terre è il saggio 22 sull'anastaseologia. Quanto alla struttura multidimensionale elogicamente peculiare dell'apologetica cristiana il classico rimane A grammar of assent del cardinale Newman; si veda, a conferma, il metodo di quello che è forse il maggiore apologista vivente, Jean GUITTON (Oeuvres complètes, spec. vol. II, Critique religieuse, Desclée de Brouwer l968). Ancora sulla struttura dell'apologetica (e più generalmente del pensiero cristiano collettivo), spunti in Corso cit., p. 371-374 (con riferimento alla logica del ragionevole come contrapposta alla logica del razionale) e in Un commento, un argomento, in AA.VV., L'eutanasia come problema (a cura di M. MORI), «Quaderni della società di letture e conversazioni scientifiche», n. 7, ECIG, Genova l986. Sulla "laicità" del cristianesimo ai propri occhi cfr. i testi richiamati alla n. 31 e in Avvertenza alla Parte III.
[35] Cfr. T.R.V. MURTI, The central philosophy of Buddhism. A study of the Madhyamika system2, Mandala Books, Allen-Unwin 1960, rist; 1980.
[36] «Ancora una volta non è possibile denominare con un nome l'orizzonte infinito (sul quale sfocia la trascendenza), l'apertura, che ci sorregge, delle possibilità illimitate d'incontrare questa o quella cosa determinata... Abbiamo realmente compreso questa denominazione solo se la vediamo come un puro richiamo a quel silenzio dell'esperienza trascendentale... Tale orizzonte è la realtà infinita e muta che dispone di noi. Esso si dà a noi nel modo di uno che si rifiuta, nel modo del silenzio... (della) non espressività, cosicché qualsiasi discorso da parte sua, per essere percepibile, ha sempre bisogno che tendiamo l'orecchio a un silenzio...
Esso esiste sempre e solo nel mentre dispone. Esso si sottrae non solo fisicamente, bensì anche logicamente a ogni disposizione da parte del soggetto finito... Adoriamo in silenzio... con un ultimo riferimento all'orizzonte e all'origine ineffabilmente silente, che con tremore e prima di un ultimo ammutolimento potremmo chiamare "Dio"...». Dunque anche la stessa autorivelazione storica di Dio creduta dal monoteista, solo in parte toglie il regime del silenzio trascendentale di Dio; e anche per il cristiano, sia pure in modo relativo, vale il primato mistico del silenzio, che è assoluto per il non credente: «Se Dio nella sua libertà invece di rivelarsi avesse voluto chiudersi nel suo silenzio, l'uomo raggiungerebbe l'ultimo e più alto grado della sua perfezione ascoltando il silenzio di Dio». Passi da K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede, Ed. Paoline, 4a ed., Milano 1984. sez. II.
[37] Epistola ai Romani 8, 26-27: «Analogamente lo Spirito soccorre la nostra debolezza; perché noi non sappiamo cosa chiedere per pregare come si deve; ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti ineffabili, e Colui che sonda i cuori sa quale è il desiderio dello Spirito c che la sua intercessione per i santi corrisponde alle vedute di Dio».
[38] Aloysius PIERIS, S.J., Christianity in a core-to-core dialogue with Buddhism, in «Vidyajyoti», 1987.
[39] In un senso analogo a quello di contuitio, contuitus, in san Bonaventura: cfr. R. SCIAMANNINI, La contuizione bonaventuriana, Città di vita, Firenze 1957.
[40] Devo dire che, se non fosse forse presunzione, vedrei Terre come cosa non troppo discosta da quello che un maestro del nostro secolo ha chiamato (l'utopia del) "saggismo", in cui ha una parte essenziale appunto la commozione: «Un saggio... non è l'espressione provvisoria o accessoria di una convinzione che, in un'occasione migliore, potrebbe essere elevata a verità...; un saggio è il definitivo e immutabile aspetto che la vita interiore di una persona assume in un pensiero decisivo... Vi sono stati non pochi saggisti e maestri della vita interiormente fluttuante, ma non avrebbe scopo elencarli; il loro regno sta fra la religione e la scienza, fra l 'esempio e la dottrina, fra l'amor intellectualis e la poesia; sono santi con e senza religione, e qualche volta sono semplicemente uomini coinvolti in un'avventura. Nulla d'altronde è caratteristico quanto l'involontaria esperienza che si fa coi tentativi scientifici e ragionevoli di interpretare questi grandi "saggisti", di trasformare la dottrina di vita, così com'è, in scienza di vita, e di ricavare un contenuto dalla commozione dei commossi; tanto ne rimane quanto del corpo delicato di una medusa tolta dall'acqua e abbandonata sulla sabbia. La dottrina dei commossi davanti alla ragione dei non commossi si disfa in polvere, contraddizione e stoltezza, eppure non la si può definire fragile e inadatta alla vita, perché altrimenti si dovrebbe dire anche di un elefante che è troppo delicato per sopravvivere in uno spazio senz'aria, non corrispondente ai suoi bisogni. Sarebbe assai deplorevole se queste descrizioni suggerissero l'idea di un mistero o anche soltanto di una musica in cui prevalgono i suoni dell'arpa e i sospirosi glissandi. È vero il contrario ...»: R. MUSI, L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1965, 244 s. (ma si veda tutto il § 62 di «Le stesse cose ritornano»).
[41] In questa pratica ha un ruolo difficilmente sostituibile la meditazione (cfr. Corso cit., cap. V, §3.2. 5.7.). Da anni sono divenuti per me quasi una famiglia elettiva i "Gruppi di meditazione" di Firenze e Milano, nei quali molto autodidatticamente e come si costruisce un castello di sabbia sott'acqua, in riunioni settimanali, ritiri, trekkings e viaggi formati vi sono state coltivate la meditazione realizzante e contemplativa fondata sulle grandi scienze occidentali e la meditazione classica di pura consapevolezza nello stile vipassana e zen. Entrambi gli obbiettivi ultimi (l'aleph contemplativo; la sapienza in senso psicospirituale) rimangono, per tutti i partecipanti, ancora lontanissimi; ma almeno sono sull'orizzonte, e comunque è meglio compiere piccoli passi su una strada giusta che grandi su una sbagliata. Come fare a sapere su quale ci si trova, visto che la meditazione non ha approdi precostituiti e che il cammino si scopre solo percorrendolo? Forse proprio col criterio della vigile non-precostituzione, dell'effettivo sperimentante percorrimento: un motto dei Gruppi è tuttora, dopo anni, il kierkegaardiano «Abramo non sapeva dove stava andando; per questo era certo di essere sulla buona strada».
[42] Da The fairy, in G. UNGARETTI, Visioni di William Blake, Mondadori, Milano 1965, p. 126.
[43] Il Profeta, Guanda, Milano 1985, p. 36.