da "Ecdotica", 7, 2010, Alma Mater Studiorum. Università di Bologna, Dipartimento di Italianistica, Centro para la Edición de los Clásicos Españoles, Carocci editore.
1. Variabilità e vincoli nell’essere vivente
I sistemi viventi sono regolati dalle stesse «leggi» della materia non vivente ma hanno anche «legalità» diverse (Ungerer 1972). Inanzitutto tutti gli esseri viventi hanno un inizio e una fine per cui anche le leggi che li regolano hanno un andamento temporale. Durante la vita, corta o lunga che sia, gli esseri viventi hanno un unico scopo immanente fondamentale, quello di restare tali e cioè di sopravvivere ai guasti di origine interna ed esterna a cui vanno incontro. Per questo, dall’origine della vita in poi, nel lungo percorso evolutivo, gli esseri viventi hanno sviluppato «strumenti» che mantengono alta la resilienza (capacità di tornare allo stato iniziale dopo un danno) e la robustezza (capacità di restare allo stato iniziale nonostante il danno). Quindi, gli esseri viventi sono in qualche modo «attivi», nel senso che rispondono agli «insulti» esterni cambiando sé stessi e il contesto in cui si trovano in modo a loro favorevole. Per questo hanno bisogno di plasticità (capacità di cambiare durante la vita) e di evolvabilità (capacità di modificarsi di generazione in generazione in modo ereditabile). Ambedue i processi sarebbero inutili se i viventi non percepissero i segnali che gli vengono dal contesto riconoscendo i pericoli e di conseguenza non attivassero le armi di difesa che posseggono. Il percorso individuale e collettivo della vita quindi è, come diceva Conrad Hall Waddington (1981), «omeorretico » e non «omeostatico» Il primo termine indica la presenza di un alto livello di variabilità di percorsi, compatibile e anzi necessario per l’adattamento ai contesti mobili esterni, ma mantenuto entro i vincoli della struttura complessiva e cioè entro un «attrattore» specie-specifico. Omeostasi invece implica la capacità di mantenere o tornare allo stato iniziale e quindi non si addice ai sistemi viventi che comunque cambiano sempre nel tempo. Per fare un esempio, chi scrive è un Marcello Buiatti diverso ogni millisecondo, ma non può diventare un elefante né cambiare in modo troppo drastico una parte di sé rompendo l’armonia fra le parti (il canone?) caratteristica della specie umana. Il concetto di attrattore come «canone» liquido sembra essere un concetto valido per tutte le forme ed espressioni di vita, le nostre umane incluse e quindi anche il linguaggio che è una delle nostre sorgenti di variabilità che ci permette di cambiarci continuamente attraverso le nostre interazioni continue. Non credo sia un caso che nel suo saggio sugli scritti biblici in questo volume, Gianluigi Prato afferma nelle conclusioni: «Finché sopravvive un canone liquido c’è garanzia di storia e di umanesimo: in quanto «liquido» esso rimane infatti aperto alla contingenza e alle innovazioni ma in quanto «canone» deve conservare in se stesso un richiamo normativo che può impedire all’acqua di disperdersi per terra e rendere perciò inefficace la sua stessa fecondità interpretativa». Tutto questo avviene a ogni livello di organizzazione della vita ed implica necessariamente la «cooperazione» fra gli elementi che costituiscono il vivente in tutta la organizzazione gerarchica dei sistemi dalla cellula alla biosfera. Il concetto di cooperazione implica necessariamente la comunicazione fra gli elementi che compongono un sistema e quindi, come nel rapporto con l’esterno, scambi di segnali fra di essi. I sistemi viventi sono reti dinamiche diventate dall’inizio della vita a oggi sempre più complesse, organizzate in una scala gerarchica dalla cellula alla biosfera fino a ricoprire e trasformare profondamente il pianeta. Le prime macromolecole erano probabilmente di acido ribonucleico (RNA), molto simile al DNA ma, a differenza di questo, capace di funzionare anche da enzima e cioè di modificare sé stesso e altre sostanze. Lo RNA è una molecola poco stabile e in un qualche momento è stato copiato in DNA, che si degrada con molto minore frequenza. RNA e DNA avrebbero poi, secondo questa teoria, accelerato i processi della vita interagendo positivamente, lo RNA producendo DNA e viceversa, innestando così quello che Eigen e Schuster (1979) hanno definito un «iperciclo», costituito da molecole che si «riconoscono» e si moltiplicano attraverso il riconoscimento attivo. Questo processo sarebbe poi stato facilitato dalla compartimentazione e cioè l’inclusione delle molecole in una membrana. Le cellule si sarebbero poi organizzate in colonie come i batteri attuali passando dalla cooperazione fra molecole a quella fra cellule, molto simile a quella che si ha nei tessuti di piante ed animali. Sia nei batteri che nelle cellule, dopo la riproduzione e contemporaneamente a essa, è nata la divisione del lavoro attuata attraverso lo scambio di segnali fra cellule, fra colonie e tessuti diversi e così via per tutta la scala gerarchica della vita. La biosfera nel suo complesso è ovviamente il livello gerarchico più complesso, riceve i segnali dall’ambiente globale ed è quindi influenzata dai suoi cambiamenti.
La cellula, come contenitore di molecole e i virus sono all’opposto i sistemi viventi più semplici in cui il dialogo è essenzialmente molecolare. Lungo tutta la scala gerarchica il sistema di livello inferiore riceve e scambia segnali con quello superiore in cui è immerso, di modo che tutto il sistema complesso della vita sul pianeta è costituito da elementi che si cambiano vicendevolmente. Il concetto di «interno» ed «esterno» diventa così inevitabilmente ambiguo nel senso che ogni interno è l’esterno del livello immediatamente inferiore. La vita quindi è connessa da segnali sia in orizzontale entro un livello che in verticale fra livelli. I segnali hanno sempre un ricevente e un donatore generalmente diversi l’uno dall’altro e il prodotto della interazione non è mai dato dalla somma dei due, ma dal risultato dell’interazione, ancora diverso come lo è ad esempio un figlio prodotto da due genitori. Perché tutto questo avvenga è quindi necessario che ci sia diversità (variabilità) e che in ognuna delle interazioni ambedue i partner si riconoscano e abbiano un linguaggio comune.
Da questo discende che devono essere complementari e che la selezione inevitabilmente lavorerà in modo concertato, scartando le combinazioni «sbagliate» che non comportano un buon livello di riconoscimento. In altre parole ciò significa che nella vita ogni interazione determina una riduzione dei gradi di libertà di cambiamento in tutti e due i partner che si limitano vicendevolmente. Come abbiamo discusso in altra sede (Buiatti e Buiatti 2008), in natura nessun sistema è completamente disordinato né del tutto determinato, ma si trova sempre in una situazione intermedia, fornito di variabilità, ma anche di vincoli, come ha opportunamente sottolineato Henri Atlan (1979) per gli esseri viventi. Vediamo adesso quali sono le diverse fonti di variabilità che gli esseri viventi hanno sviluppato e poi quali sono i linguaggi che permettono le connessioni fra componenti ai diversi livelli di organizzazione della vita e nelle diverse classi di esseri viventi.
2. Le fonti di variabilità nelle comunità di esseri viventi
Le strategie che i diversi gruppi di esseri viventi utilizzano per cambiare e quindi adattarsi alle modificazioni dei contesti sono molto diverse e così sono le fonti di variabilità utilizzate. Secondo Jablonka e Lamb (2004) sono quattro i tipi di variabilità: genetica, epigenetica, comportamentale e simbolica. La genetica è costituita da modificazioni nel DNA, la epigenetica da cambiamenti quantitativi e qualitativi nell’espressione dei geni, la comportamentale da modalità diverse di comportamento.
Sulla variabilità genetica si basa l’adattamento dei batteri e dei virus (organismi senza nucleo detti procarioti) che, avendo cicli di vita brevi, non devono adattarsi a molti cambiamenti del contesto nei singoli cicli vitali ma si modificano stabilmente di generazione in generazione.
La variabilità epigenetica invece si deve a processi sviluppatisi principalmente negli organismi multicellulari tutti provvisti di nucleo, detti eucarioti (animali e piante). I processi epigenetici permettono la regolazione quantitativa ma anche qualitativa della espressione dei geni, regolazione che può diventare permanente ed essere trasmessa alle generazioni successive. Negli eucarioti il blocco semipermanente della attività di un gene è dato dal legame con la zona a monte del gene da silenziare di una piccola molecola (il metile), mentre la attivazione di un gene bloccato è determinata dal distacco di questa. Non solo, ma sono meccanismi epigenetici anche quelli che tutti gli organismi sia procarioti che eucarioti usano, in condizioni di stress, per aumentare la variabilità genetica nella «speranza» che una delle molte mutazioni ottenute sia utile per resistere al danno. Nei batteri, ad esempio, è stato individuato un gene specifico il cui prodotto proteico viene attivato dallo stress e induce la espressione di geni «mutatori» che con meccanismi diversi aumentano la frequenza di mutazione. Qualcosa di simile avviene anche negli organismi provvisti di nucleo (eucarioti) nel cui genoma sono generalmente presenti sequenze (i trasposoni o retroposoni) capaci, se attivate come avviene in caso di stress, di spostarsi nel genoma inserendosi nel DNA e provocando mutazioni. La variabilità comportamentale invece è soprattutto presente negli animali dotati di sistema nervoso centrale ed è spesso associata a quella epigenetica. Ciò risulta da una serie di esperimenti nei topi che dimostrano che i rapporti relazionali fra topolini e le cure parentali possono modificare in modo permanente o semi-permanente l’attività di alcuni geni chiave, con effetti rilevanti sulla struttura del cervello. Ad esempio, figli di topoline «affettuose» mantengono attivo il gene del recettore dei glucocorticoidi che influenza una serie di caratteristiche fisiche e comportamentali. Aumenta così il numero dei neuroni, i topi sono più attivi e intelligenti, ecc. (Francis et al., 2003). È interessante notare che queste caratteristiche si ottengono anche se le cure materne sono sostituite dalla presenza di altri individui della stessa specie con cui i topi «colloquiano». Il «colloquio» è del resto altrettanto fondamentale nella organizzazione del cervello umano le cui sinapsi sono quasi-causali alla nascita e si organizzano con il fitto scambio di segnali dalla madre al feto e poi di madre, padre e famiglia al bambino nei primi anni. Si sa, ad esempio, che l’ipotalamo della madre si attiva all’insediamento dell’ovulo fecondato e determina la formazione dello stesso organo nell’embrione. In seguito poi è ancora l’ipotalamo del feto che attiva la produzione di latte nella madre. Gli esseri umani, infine, utilizzano tutte le fonti di variabilità fin qui descritte ma si adattano essenzialmente attraverso la variabilità che Jablonka e Lamb (2004) definiscono «simbolica» e che è in realtà la variabilità di pensiero. Noi umani infatti approfittiamo della grande plasticità del nostro cervello che contiene cento miliardi di neuroni capaci di formare un milione di miliardi di diverse connessioni: un archivio di informazione ben più grande del nostro genoma (solo 23.000 geni con l’informazione per qualche milione di proteine). Nella nostra specie inoltre è aumentata la velocità di trasmissione degli impulsi fra neurone e neurone e si è sviluppata un’area del cervello che ci permette di comunicare con i nostri simili in modo enormemente più efficiente rispetto ad altre specie animali. Tutto questo ci ha permesso di adattarci con una strategia diversa da quelle degli altri esseri viventi. Batteri, animali e piante infatti vengono essenzialmente selezionati in modo «passivo» dall’ambiente che «sceglie» gli individui che, per ragioni genetiche si riproducono di più o sono direttamente modificati dai segnali esterni per via epigenetica.
Questi stessi organismi hanno infatti una variabilità genetica molto maggiore della nostra come hanno dimostrato confronti fra popolazioni umane e di primati a noi più vicini dal punto di vista evolutivo (scimpanzè, oranghi, gorilla; cfr. Buiatti 2004). Noi infatti usufruiamo ben poco dell’effetto della selezione naturale perché abbiamo imparato a modificare l’ambiente in modo «attivo» mediante le «invenzioni» che scaturiscono dal nostro cervello e dalla facile comunicazione con i nostri simili. Come si sarà compreso la variabilità genetica ha un ruolo sempre minore nell’adattamento mano a mano che si passa dai batteri alle piante, agli animali e in particolare a quelli con sistema nervoso centrale e agli esseri umani, che usano anche fonti di variabilità epigenetica, comportamentale e simbolica.
3. I linguaggi come fonte di vincoli alla variabilità
Come accennavo sopra i vincoli alla variabilità derivano essenzialmente dalla necessità dei due partner coinvolti in uno scambio di messaggi, di essere complementari e cioè capaci di «riconoscersi» per complementarietà e di connettersi determinando la formazione di un prodotto che non è né l’uno né l’altro dei soggetti e nemmeno la somma dei due. Questo avviene anche negli umani quando una parola o una frase o un discorso vegono emessi da una persona e riconosciuti da un’altra capace di recepire lo stesso linguaggio con il risultato che i «pensieri» di ambedue cambiano. In natura i vincoli sono di vario tipo a seconda dei diversi livelli di organizzazione a cui appartengono l’emittente e il ricevente dei segnali, e la loro entità è misurabile, anche se non perfettamente, con metodi di analisi matematica specifici. Naturalmente la misurazione è possibile soprattutto quando gli oggetti di cui si deve misurare il livello di variazione sono entità distinte e conteggiabili in modo da poter poi elaborare i dati ottenuti. Il livello più semplice a cui si possono analizzare dati da questo punto di vista è il DNA che è una stringa lineare di molecole di soli quattro tipi, indicati con le lettere A, T, G e C e quindi si presta a calcolare il livello di casualità/vincoli lungo tutta la sua estensione.
Per comprendere meglio i risultati ottenuti è utile ricordare che solo una parte del DNA segue il cosiddetto «dogma centrale» della genetica molecolare e cioè viene trascritto in RNA e poi tradotto in proteine (è infatti chiamato DNA «codificante»), mentre il resto può essere o non essere trascritto ma non è tradotto e viene detto infatti «non codifi-cante». I due termini usati ci dicono con chiarezza che il codice è quello che esiste nel DNA e nello RNA e viene poi «interpretato» in termini di proteine con un rapporto di 3:1 nel senso che tre «lettere» (nucleotidi) servono per l’attracco di piccoli RNA detti non a caso «transfer», a cui
sono attaccati gli aminoacidi, futuri componenti delle proteine. Ogni tripletta («codone») nello RNA trascritto si appaia con l’anticodone presente nel transfer e lo posiziona su un supporto (il ribosoma) fatto di proteine. Poi altri transfer arrivano e gli aminoacidi così allineati si collegano fra di loro a formare un polipeptide (una molecola proteica). Il linguaggio qui è semplice e consiste in 64 triplette che riconoscono i transfer di 20 aminoacidi. Il codice quindi, come si dice, è «degenerato», nel senso che una determinata tripletta serve come attracco per diversi transfer che portano tutti lo stesso aminoacido e sono, come si dice, «sinonimi». Il linguaggio del DNA appare quindi lineare e non ambiguo nel senso che uno RNA codificherebbe per una e una sola proteina. Questo concetto tuttavia, che è alla base del dogma centrale, se è generalmente valido per batteri e virus non lo è per gli eucarioti. In questi infatti praticamente tutti i geni sono «discontinui» e cioè costituiti da sequenze che non verranno tradotte (introni) e altre che invece serviranno per la sintesi di un polipeptide (esoni). Dopo che una molecola di RNA è stata sintetizzata sullo stampo di DNA gli introni vengono eliminati e poi gli esoni vengono riallineati in sequenza a costituire un «RNA maturo». L’allineamento tuttavia può essere «ambiguo» perché in molti casi (quasi sempre nel nostro genoma) non situa gli esoni nello stesso ordine in cui erano nel DNA corrispondente, ma può portare a più RNA maturi con un ordine diverso che daranno quindi più di una proteina.
Alta ambiguità può poi derivare dalla «lettura» di un gene a iniziare o finire in punti diversi della sequenza che deve essere trascritta. Il linguaggio utilizzato in questi processi non è più lineare come nella trascrizione di una sequenza di DNA ma quadri-dimensionale, nel senso che il riconoscimento necessario per l’ambiguità avviene per complementarietà fra la configurazione dinamica di proteine da una parte e della specifica zona dell’acido nucleico che deve essere complessato dall’altra. Va notato qui che il DNA, come del resto lo RNA, sono ben lungi dall’essere costituiti da lettere unidimensionali. In particolare il DNA non ha mai, nelle cellule reali, la forma della doppia elica delle illustrazioni dei libri di scuola che è propria del DNA cristallizzato studiato nel 1953 da J. Watson e F. Crick, ma può assumere configurazioni molto diverse a seconda: a) della distribuzione delle due fondamentali coppie di nucleotidi (A-T che si legano con due legami a idrogeno o G-C che ne hanno invece tre) che hanno una diversa struttura energetica; b) dall’ambiente che lo circonda. Il riconoscimento del DNA da parte di proteine opera con linguaggi quadridimensionali perché è a tre dimensioni, ma la formazione del complesso fra i due tipi di molecole si svolge nel tempo. La formazione di complessi fra DNA e proteine può avere funzioni strutturali e/o di modulazione qualitativa e quantitativa della espressione dei geni. Nel primo caso, negli eucarioti, serve alla compattazione del DNA, necessaria per la corretta organizzazione della struttura dei cromosomi degli eucarioti che altrimenti sarebbero troppo lunghi per essere contenuti nei nuclei. È poi sempre necessario il riconoscimento da parte di «proteine-segnale» per la regolazione della attività dei geni che da soli sono del tutto inerti. La attivazione avviene solo se un certo numero di proteine, maggiore negli eucarioti che nei procarioti, riconosce e cioè si unisce al DNA per complementarietà delle conformazioni dei due tipi di molecole, in particolare in una zona specifica a monte del punto di inizio di trascrizione del DNA in RNA. Il complesso finale detto «complesso di trascrizione» è costituito quindi dall’enzima specifico per questo processo e da una serie di proteine, le più importanti delle quali sono i «fattori di trascrizione». Questi sono gli ultimi di una lunga catena di trasmissione di segnali che parte da «proteine sensori» che attraversano la membrana di ogni cellula. La conformazione tridimensionale dei «sensori» è diversa a seconda del segnale fisico (calore, luce ecc.) o molecolare (ad esempio una molecola ad azione ormonale) che viene dall’esterno e che deve riconoscere in modo specifico. Quando questo arriva, la proteina recettore (il «sensore») lo riconosce e cambia conformazione diventando capace di trasmettere piccole molecole a un’altra proteina che non attraversa la membrana ma è dentro alla cellula e costituisce il primo elemento di una serie cui viene passato il segnale. L’ultima di queste, il fattore di trascrizione, deve riconoscere solo il promotore del gene da attivare in funzione del segnale esterno. Per fare un esempio, se fuori fa caldo io devo attivare il processo di sudorazione e quindi i geni che la determinano e solo loro. La catena di segnali di cui sopra quindi, iniziata con la percezione del calore, finirà con fattori di trascrizione che dovranno avere una «forma» complementare a quella caratteristca solo del promotore del gene prescelto. Infatti la porzione a monte dei diversi geni ha anche diverse distribuzioni dei quattro componenti del DNA (A, T, G, C) che hanno ognuno caratteristiche fisicochimiche diverse. Come si è detto precedentemente, distribuzioni diverse significano forme diverse del promotore a cui si attaccheranno fattori di trascrizione diversi e a loro stericamente complementari. Così è impossibile sbagliare e attivare geni che dovrebbero essere in quel momento silenti. Complessi analoghi si formano per rendere precisi i processi, fra proteine ed RNA per il taglio degli esoni, per il loro collegamento nella formazione di RNA maturo e ancora fra proteine e DNA per la replicazione del DNA, ecc. Naturalmente il DNA, lo RNA, le proteine, coinvolti in tutti questi processi, dato che comportano strutture complementari, durante l’evoluzione cambiano di concerto (si co-evolvono) e quindi riducono i loro gradi di libertà (sono vincolati). Per questo si può dire che vi siano due tipi di selezione, quella esterna, determinata dall’ambiente, e quella interna, diretta invece a eliminare mutazioni che alterino la coerenza (l’armonia) del contesto in cui avvengono. L’effetto di un cambiamento di un nucleotide (una «lettera») nel DNA avrà effetti diversi a seconda che sia avvenuto in una zona codificante o non codifi-cante. Nel primo caso la mutazione cambierà un codone e quindi potrà determinare la presenza di un aminoacido non previsto in una proteina e cioè un errore nel linguaggio lineare del DNA codificante. Un cambiamento in quello non codificante potrà avere anch’esso effetto negativo o positivo ma solo se altera il linguaggio quadri-dimensionale della sequenza determinato dalla struttura fisico-chimica globale della sequenza. In realtà, dato che a loro volta anche le proteine, in particolare se sono enzimi, funzionano soltanto se assumono la conformazione giusta per riconoscere un substrato, il codice lineare del DNA, una volta tradotto, diventa quadri-dimensionale ma i vincoli derivano dalla struttura fisico-chimica della proteina e non necessariamente del DNA. Questo spiega il fatto che le deviazioni dalla casualità delle distribuzioni dei quattro nucleotidi, trovate con metodi computazionali sono molte di più nelle zone non codifi-canti che in quelle codificanti. Così in un’analisi computazionale condotta nel nostro laboratorio dell’Università di Firenze sulla distribuzione del rapporto AT/GC nei promotori di organismi che vanno dai batteri all’uomo, abbiamo osservato che in tutti i casi andando da mille basi a monte del gene verso l’inizio di trascrizione c’era sempre un aumento continuo di AT nei procarioti e di GC negli eucarioti, spiegabile con la necessità di una alta flessibilità nei primi e di liberarsi facilmente delle proteine che compattano il DNA nei secondi.
4. Conclusioni. I linguaggi sociali
Sin qui ho parlato di linguaggi a livello molecolare che partono dall’esterno delle cellule e ne regolano l’espressione dei geni. Altri linguaggi vengono utilizzati fra cellule e altri ancora nelle relazioni fra organismo e organismo di una stessa specie o di specie diverse. Così funziona anche il nostro cervello con la differenza che in questo caso il segnale passato da neurone a neurone è un impulso elettrico che provoca la modifica qualitativa dell’espressione genica nel ricevente che sintetizza proteine diverse da quelle dello stato precedente. In questo modo messaggi di ogni genere vengono trasmessi da una zona periferica dell’organismo al cervello che li elabora e li diffonde attivando i processi di cambiamento conseguenti. È così che, in particolare negli animali sociali, il linguaggio provoca cambiamenti materiali nella complessa rete neuronale anche attraverso meccanismi epigenetici come quelli che regolano il comportamento materno dei topi. Tant’è vero che se un topolino viene tenuto al buio per dieci giorni dopo la nascita resterà cieco per tutta la vita, perché i fasci neuronali che collegano gli occhi al cervello non si formano in mancanza di stimolo. Anche in questi casi il recettore modifica la sua conformazione in seguito all’impulso elettrico (lo spyke) e manda segnali all’interno attivando nuovi processi di espressione genica. Processi simili a quelli descritti con linguaggi formalmente non molto diversi si hanno anche nello scambio di messaggi fra organismi di specie diverse negli ecosistemi, a cominciare da quello umano, in cui cellule animali sono collegate con miliardi di batteri che colonizzano il nostro corpo (si parla di più di un chilo di batteri a persona). Lo stesso avviene in animali sociali come le api in cui la regina diventa tale non per ragioni genetiche ma perché le operaie l’hanno nutrita con la cosiddetta pappa reale che attiva i geni della femminilità e della riproduzione.
In questo caso come in altri il linguaggio fra le operaie nutrici e la futura regina è chimico e ha una origine comportamentale. Tutto questo ci dice che la biosfera è costruita come una gigantesca rete organizzata in reti a livelli successivi di complessità: dalla molecola, alla cellula, all’organismo, alla popolazione, all’ecosistema. In questa rete costituita tutta da elementi continuamente comunicanti in vari modi e con diversi linguaggi, non tutti i nodi hanno uguale peso perché possono avere più o meno collegamenti, per cui il danneggiamento di un «hub» per molti altri nodi avrà un effetto negativo molto più intenso di una «offesa» a un nodo con pochi collegamenti. Potremmo allora concludere questo breve saggio sottolineando di nuovo che la vita non esisterebbe se non ci fosse diversità/variabilità e se tutti i componenti non fossero legati fra di loro in modo armonico e cooperativo. E infatti moriamo quando il nostro corpo non riesce più a reagire in modo concertato e ci disgreghiamo tornando, appunto, allo stato di polvere.
OPERE CITATE
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Bateson, G. (1979), Mind and Nature: A Necessary Unity, New York, Bantam Books.
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Waddington, C.H. (1981), Evoluzione di un evoluzionista, Roma, Armando.
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