Charles Darwin aveva una concezione molto chiara dei sistemi viventi che sapeva costituiti da elementi interagenti in modo non additivo a formare insiemi in cui il cambiamento di un componente influenza inevitabilmente anche gli altri. Tanto che per Darwin i risultati della selezione naturale sono condizionati dalla “coerenza” fra i componenti dei diversi sistemi. Scriveva infatti Darwin nella “Variazione….“ La variabilità é regolata da molte leggi sconosciute la più importante delle quali potrebbe essere la legge dello sviluppo correlato…. Con questa affermazione voglio dire che le diverse parti di un organismo sono così strettamente connesse che quando avvengano piccole modificazioni in un qualche punto accumulate dalla selezione naturale, le altre parti sono soggette a cambiamenti….Con questa espressione voglio dire che la organizzazione è fatta di elementi così strettamente connessi durante l’accrescimento e lo sviluppo che quando avvengono piccole variazioni in una parte qualsiasi, e si accumulano per selezione naturale, altre parti vengono modificate…. Nonostante che ogni variazione è causata direttamente o indirettamente da cambiamenti nelle condizioni esterne non dobbiamo mai dimenticare che la natura della organizzazione su cui si agisce è di gran lunga il fattore più importante per il risultato. Questo è provato dal fatto che diversi organismi nelle stesse condizioni possono cambiare in modo diverso mentre organismi simili in condizioni diverse possono spesso variare nello stesso modo” CH.Darwin, in :The Variation,1875 . Darwin quindi, nonostante che considerasse fattore principale della evoluzione nella “Origine” la selezione da parte dell’ambiente, si contraddiceva in parte nel volume sulla variazione in cui osservava che le modificazioni dei sistemi viventi, per essere mantenute nelle generazioni successive devono confrontarsi con la struttura della rete in cui si inseriscono, e quindi con le sue “regole” dinamiche. In questo modo alla selezione “esterna” prodotta dall’ambiente. anche se questo concetto non è esplicitato nei suoi scritti, implicitamente, Darwin aggiunge implicitamente un processo di “selezione interna” da parte delle reti riceventi, “filtri preliminari” delle variazioni, che ne valutano la coerenza con le regole specifiche della loro organizzazione interna. Questo concetto, completamente dimenticato dal neo-darwinismo è stato ripreso e discusso a fondo più di un secolo dopo la prima edizione della “Origine” da un fisico, L.L. Whyte, che nel suo volume del 1965 in cui ha coniato il termine “selezione interna”, si meravigliava che il problema delle regole interne dei sistemi viventi non fosse stato affrontato prima dai biologi e dagli evoluzionisti. L’osservazione di Whyte era in realtà veramente centrata se si considera che già Darwin aveva chiaro il concetto di sistema come rete di componenti collegati e lo aveva esteso a tutta la organizzazione gerarchica della vita ecosistemi inclusi come dimostra la sua meravigliosa discussione delle interazioni fra i lombrichi e l’ambiente ( ). La concezione dei sistemi viventi come sistemi complessi , è stata poi la base dell’ipotesi costruttivista della nascita della vita sulla Terra proposta da Fox (1974) secondo il quale le prime molecole si sono assemblate in modo non casuale formando strutture interagenti e dinamiche simili agli “ipercicli” di Eigen ( 1971,) poi formalizzati dallo stesso Eigen insieme a Schuster nel 1977. Questa concezione (vedi M.Buiatti, 2009), è profondamente diversa da quella dei neo-darwinisti costruita estrapolando i dati e i concetti di Gregorio Mendel, non a caso fisico allievo di Doppler e legato al chimico/fisiologo Unger molto vicino ai cosiddetti “medici materialisti”. Questi erano un gruppo di chimici e fisiologi che hanno, in un famoso “Manifesto”, estrapolato ai sistemi viventi la concezione meccanica della materia prevalente nella seconda metà dell’Ottocento. Secondo Mendel (M.Buiatti, 2011), il corredo genetico degli organismi era costituito da elementi indipendenti e discreti, che si assortivano casualmente di generazione in generazione e determinavano, senza nessuna influenza dell’ambiente, le caratteristiche (il fenotipo) dell’individuo in cui si trovavano. Il neo-darwinisti mendeliani (la “Genetica di popolazioni”), hanno così fondato una teoria della evoluzione basata sulla estrapolazione a popolazioni di n individui dei dati di Mendel, in termini di frequenze dei diversi varianti (alleli) dei singoli geni. I concetti base di questa teoria sono:
a)Gli Individui i cui fenotipi sono gli unici soggetti/oggetti del cambiamento evolutivo, determinati completamente dai geni. La selezione agisce quindi sui genotipi attraverso i fenotipi. b) I geni sono indipendenti e il fenotipo è determinato dalla somma delle azioni degli alleli e dei geni senza essere condizionato dalle “correlazioni” darwiniane del contesto e cioè da interazioni non additive fra geni ed alleli. c)L’evoluzione delle popolazioni consiste in un cambiamento continuo di frequenze di elementi discontinui ( gli alleli). d)I processi che determinano l’evoluzione sono tre: mutazione, deriva genetica, selezione naturale. e)Nella selezione l’“ambiente” attivo filtra organismi passivi le cui caratteristiche sono quelle trasmesse dalla generazione precedente.
Nel presente saggio la visione neo-darwinista verrà confutata utilizzando dati recenti che dimostrano la sostanziale unità della organizzazione gerarchica della vita e introducono il concetto di “selezione interna”. Si dimostrerà in particolare che la “selezione interna” é dovuta ai vincoli derivanti dalle “regole di coerenza dinamica” fra gli elementi che compongono i diversi livelli di organizzazione presenti nella Biosfera e che agiscono nel contesto “cooperativo” di elementi connessi la cui “storia” si svolge in una dialettica fra le modificazioni necessarie all’adattamento e la stabilità “omeorretica” (Waddington) dei sistemi. Lo studio dei vincoli e delle loro dinamiche verrà condotto attraverso la discussione di una serie di esempi di “variazione correlata” darwiniana ai diversi livelli di organizzazione della vita, dalle molecole “informazionali” (DNA, RNA, Proteine), al metabolismo, alle cellule, ai tessuti e colonie cellulari, agli organismi multi-cellulari, agli ecosistemi, alla biosfera e inoltre al sistema connesso umano che influisce ormai su tutti gli altri contesti. Si chiarirà così che le interazioni dialettiche fra componenti dei sistemi viventi non sono solo “orizzontali” e cioè fra elementi dello stesso livello di organizzazione, ma anche “verticali” e cioè fra livelli diversi. Per questa ragione una modificazione in un componente di un livello, date le connessioni esistenti, si ripercuote su quelli di quel livello ad esso connessi ma , essendo la rete modificata collegata con quella di cui fa parte (superiore nella scala gerarchica) e con quella inferiore, costituita appunto dagli elementi di cui è composta, l’evento iniziale si tradurrà in una ondata di modificazioni difficilmente prevedibile da parte di un osservatore esterno. Il livello di impredicibilità dipenderà dalla non linearità delle funzioni di connessione della rete (“randomness classica”) ma anche, come discusso da Buiatti e Longo, 2011, da eventi casuali di tipo quantistico. In questo contesto solo una parte delle variazioni possibili sarà “accettata” dal sistema complessivo mentre altre, meno compatibili, porteranno ad un abbassamento più o meno intenso della fitness (capacità riproduttiva di ogni organismo) . Se poi il cambiamento è particolarmente drastico, a livello organismico si potranno avere la morte o un rimaneggiamento complessivo del genoma come descritto dalla teoria degli “hopeful monsters” di R.Goldschmidt, che potrà condurre a “salti evolutivi” come proposto dalla teoria degli “equilibri punteggiati” di Gould ed Eldredge ( ) . La selezione interna, come quella classica “esterna”, comporta una riduzione di entropia dei sistemi dovuta alla necessità di compatibilità delle modificazioni, rispettivamente con l’ambiente esterno e con la rete interna. L’impatto relativo della selezione interna è valutabile quindi dall’aumento dei vincoli alla stocasticità con metodi diversi a seconda del livello di organizzazione che vogliamo studiare. Questa operazione è semplice nel caso delle stringhe di DNA, RNA e proteine dove si potrà studiare direttamente la distribuzione dei nucleotidi, più difficile nel caso delle reti i cui dovranno essere calcolati il numero e la intensità delle connessioni.
a) I vincoli nelle macromolecole informazionali
Prima di entrare nel dettaglio dei vincoli alla stocasticità nel DNA è utile dare alcune indicazioni sulla struttura e composizione dei genomi. Innanzitutto va detto che il DNA può essere, come si dice, codificante o non codificante. Il primo è il DNA che viene trascritto e tradotto in proteine mentre il secondo svolge funzioni di regolazione della attività dei geni. Le quantità relative dei due DNA sono molto diverse nei batteri e virus e negli eucarioti. I primi hanno genomi essenzialmente costituiti da DNA codificante mentre ad esempio negli umani questo copre poco più del 2% del totale. La selezione agisce in modo diverso sui due tipi di DNA. In quello codificante infatti è la distribuzione degli aminoacidi nelle proteine che è sottoposta alla selezione perché sono queste che devono essere coerenti con la loro funzione, per cui la selezione e quindi la modificazione delle sequenze degli aminoacidi e non si riflette in deviazioni dalla stocasticità dei nucleotidi. Questo parametro è invece utilizzabile nelle sequenze non codificanti dato che é l’ordine dei nucleotidi che determina la forma quadri-dimensionale del DNA (le tre dimensioni e il tempo perché la configurazione cambia con questo) e quindi la sua funzionalità. I primi studi sulla struttura statistica delle stringhe di nucleotidi datano dagli anni “80 con la introduzione del concetto della esistenza di un codice quadri-dimensionale (Trifonov,1989) oltre a quello a lineare a 64 codoni delle sequenze codificanti. Questo codice é “leggibile” dalle proteine che si complessano con il DNA, molecola altrimenti del tutto inerte e attivabile soltanto se ha conformazioni locali coerenti con le regole del complesso. I metodi di analisi statistica utilizzati per lo studio della struttura statistica di genomi interi o parti di essi sono molti e vanno dalla ricerca di correlazioni a lungo e corto raggio (W.Li,1997, Audit et al, 2001,Kendal et al.,2005), alla analisi dei livelli di complessità misurati con algoritmi di compressione (Menconi et al., 2008) e con altri metodi (Acquisti et al., 2004, M.Buiatti et al.,2002, Ogawa et al.,2010), allo studio della eventuale struttura frattale del DNA (Telling et al., 2009) ecc. I dati ottenuti dimostrano che, come è ovvio, le sequenze non codificanti mostrano minore complessità, più frequenti e nette periodicità e correlazioni a lungo e corto raggio strutture frattali più evidenti ecc. Per questo si è cercato di chiarire il significato funzionale, strutturale e non, delle “regole” statistiche che si trovavano, studiando le ragioni chimico-fisiche delle conformazioni assunte, derivanti essenzialmente dalla diversità fra le coppie A-T e G-C da un lato, le purine A e G e le pirimidine T e C dall’altro, e dal loro ordine nelle due eliche, sfatando così la presunta linearità delle sequenze. La formazione di complessi fra DNA e proteine è essenziale sia per la attivazione del DNA che per la sua organizzazione in cromosomi in particolare nel caso degli eucarioti. Sia la trascrizione che la traduzione infatti, sono regolate da proteine che, perché il DNA venga trascritto, devono complessarsi con la sequenza della zona a monte del gene vero e proprio. La formazione di un complesso comporta il cosiddetto “riconoscimento” del DNA da parte di particolari molecole proteiche ( “fattori di trascrizione”) che sono le ultime di una catena di “trasduzione di segnale” che parte da proteine situate nella membrana cellulare capaci di riconoscere i segnali che vengono dall’ambiente esterno alla cellula. Il riconoscimento avviene per complementarietà delle forme del DNA e delle proteine attivatrici, che derivano a loro volta, come si è detto, dalle loro caratteristiche chimico-fisiche. Questo significa che la sequenza di DNA a monte del gene e quella che codifica per le proteine attivatrici devono necessariamente evolversi di concerto perché avvengano le attivazioni dei geni che devono entrare in funzione in tempi diversi per rispondere ai cambiamenti dell’ambiente esterno e di quello interno segnalati dalla catena di trasduzione. Sia nei procarioti che negli eucarioti il riconoscimento in questione avviene nella sequenza di DNA che precede il gene (“promotore”) in cui si trovano sequenze specifiche di pochi nucleotidi, diverse a seconda della funzione del gene, che servono per il riconoscimento da parte dei fattori di trascrizione. Questo però non è sufficiente al corretto funzionamento del complesso che coinvolge tutto il promotore la cui intera sequenza deve essere coerente con distribuzioni specifiche delle coppie di nucleotidi. E’ quanto ha dimostrato il nostro gruppo in un recente lavoro (E.Calistri et al, 2011) in cui si è visto che il rapporto fra A-T e G-C varia nei promotori con andamento continuo mano a mano che ci si avvicina al punto di inizio di trascrizione, a favore dell’una o dell’altra coppia di basi a seconda del gruppo di organismi analizzati. Nei procarioti infatti l’aumento è sempre a favore di A-T come avviene anche nel lievito e nelle piante mentre negli eucarioti a sangue caldo e in una alga che vive ad alte temperature è in G-C con un trend crescente mano a mano che si sale nella scala evolutiva. Per quanto riguarda gli eucarioti la ragione di questo aumento sembra stare nel fatto che la sequenze a bassa complessità di per sé stesse tendono a favorire la liberazione del DNA dai “nucleo-somi”. Ognuno di questi è una “pallina” costituita da otto molecole di istoni, proteine su cui si arrotola il DNA. I nucleosomi sono intervallati da sequenze di DNA “nudo” a formare una “collana” che si arrotola su sé stessa più volte a formare i cromosomi su cui è fissato nei cromosomi accelerando così l’inizio di trascrizione in RNA ( ), mentre la prevalenza di AT nei batteri è probabilmente legata alla maggiore flessibilità del cromosoma batterico ( ). Causa di co-evoluzione fra sequenze non codificanti di DNA ed altre che codificano per proteine sono anche le interazioni fra queste due classi di molecole nei nucleo-somi, (In questo caso, alla funzione strutturale è collegata anche la regolazione che si basa sulla alternanza di compattamento e liberazione dei nucleosomi dalle proteine su segnale esterno. Quanto abbiamo discusso fino ad ora è relativo a sequenze relativamente corte che si ripetono nel genoma in modo non casuale, ma regole precise dei rapporti fra le frequenze relative di A-T e G-C sulle stringhe di DNA coprono anche intere zone dei genomi come succede nel caso delle “isochore”, aree del genoma ricche in AT ma soprattutto in G-C scoperte da Bernardi e dal suo gruppo negli anni “80 del Novecento e attribuite a vincoli molecolari selettivi della omogeneità in G-C o A-T di intere zone del cromosoma (Bernardi e Bernardi, 1986). Questa ipotesi ha avuto conferme funzionali ad esempio nel lavoro citato di Calistri et al.,2011 e in altri che dimostrano la presenza della maggior parte dei geni nelle zone ricche in G-C “preferite” anche da frammenti di DNA artificialmente inseriti nei genomi con tecniche di ingegneria genetica. Non si sa molto della ragione di questo fenomeno se non che la preferenza di G-C potrebbe essere dovuta alla maggiore stabilità che conferisce alla stringa come suggerisce la maggiore frequenza delle isocore a G-C in animali a sangue caldo dimostrata sia dal gruppo di Bernardi e nel nostro. Se i fenomeni co-evolutivi finora descritti derivano dalla interazione diretta fra due molecole a formare un complesso attivo, ve ne sono altri che si sono fissati per interazioni fra organismi collegati da processi di cooperazione o anche del tipo preda-predatore. Per fare un esempio in alcuni funghi Erisiphali e Ascomiceti (Sacristan et al., 2009,) una particolare sequenza di DNA, la LINE-1, appartenente al gruppo dei “retro-posoni”, co-evolve con la famiglia genica AVR con ogni probabilità perché ha a che fare con la resistenza al patogeno fungino. .
b) Il contesto metabolico e la fisiologia
Il livello di reti immediatamente superiore a quello delle stringhe di nucleotidi di DNA ed RNA e delle proteine è quello del metabolismo e della fisiologia, ambedue costituiti da molecole relativamente piccole collegate fra loro a formare moduli e cioè insiemi di componenti collegati fra di loro “comandati” da una molecola chiamata “hub” per analogia con gli aeroporti con molte connessioni, interagente con molte altre e con “hubs” di moduli diversi. Questa struttura rende facile la connessione fra nodi secondari appartenenti a moduli diversi perché, ad esempio, se i moduli sono due, il collegamento richiede teoricamente solo tre passaggi, da un nodo secondario al suo hub, da questo all’altro hub e e infine al secondo modulo secondario. Un altro vantaggio della struttura modulare è dato dal fatto che danni “casuali” provocati dall’esterno tendono a colpire i nodi secondari che sono molto numerosi, provocando effetti meno gravi di quelli derivati dalla distruzione di uno dei rari hubs. La selezione interna qui agisce in modo “conservativo” e cioè tende alla conservazione della dinamica dell’equilibrio metabolico, a sua volta determinato dalla quantità e qualità delle proteine prodotte e quindi dai livelli di espressione dei geni della “sottostante” rete genica. Tuttavia, qualunque nodo venga colpito ci saranno inevitabilmente ripercussioni su altri nodi e allora la rete risponderà non in modo omeostatico ma omeorretico riassestandosi su un nuovo equilibrio (un sistema omeostatico ritorna quello di prima dopo una perturbazione mentre uno omeorretico riprende un percorso in cui “scorreva” dopo un cambiamento di direzione determinato dall’esterno . Da questo punto di vista sono molto interessanti gli effetti sia in piante che in animali, della modificazione artificiale con i metodi della “ingegneria genetica” del corredo genetico , erroneamente chiamata in italiano “biotecnologia” (biotecnologie sono tutte le tecnologie che usano esseri viventi per la produzione senza modificarne il genoma). La ingegneria genetica invece permette la introduzione di geni nei genomi di organismi di specie in cui non erano precedentemente presenti. Non a caso questa tecnologia è praticamente fallita nel caso degli animali che rispondono, per una serie di ragioni che qui non è il caso di discutere, molto peggio delle piante alla induzione di mutazioni e alla introduzione di “geni alieni”. Anche nel caso delle piante tuttavia, sono molti I dati in letteratura che descrivono I cosiddetti “effetti inattesi” della introduzione di singoli geni nei genomi vegetali (Vedi per una review aggiornata, M.Buiatti,2012). Di particolare interesse la drastica modificazione della morfologia e della fisiologia di piante di Nicotiana langsdorffii derivante dall’inserimento di un gene animale per il recettore dei gluco-corticoidi (Giannarelli et al.,2010) che non dovrebbe interferire con il metabolismo di una pianta. Casi noti di co-evoluzione di geni connessi in reti metaboliche ci sono anche in natura come nei casi di trasferimento genico naturale da una specie ad un’altra. Così un batterio (Agrobacterium rhizogenes) infetta le specie del genere Nicotiana e introduce nel loro genoma geni che modificano il bilancio ormonale della pianta. Data la non perfetta separazione nei vegetali delle linee cellulari somatiche dalla germinale, cellule infette possono entrare negli organi riproduttivi che producono quindi semi “geneticamente modificati”. Così è successo in specie di Nicotiana che hanno mantenuto durante la evoluzione complementi diversi di geni batterici a seconda degli ambienti in cui si sono adattate. Naf ( ) che ha studiato la evoluzione del genere, lo ha diviso in due gruppi di specie a seconda della presenza o meno di geni batterici e ha scoperto che ibridi fra specie appartenenti a gruppi diversi avevano tumori spontanei mentre questo non avveniva in ibridi fra piante dello stesso gruppo. Nel nostro laboratorio abbiamo isolato e studiato la sequenze dei geni batterici di piante di molte specie, costruendo l’albero genealogico dei geni batterici presenti nei genomi delle diverse specie di Nicotiana che é risultato identico a quello delle specie stesse ma molto diverso da quello dei loro omologhi dei batteri attuali Ciò dimostra che i geni di Agrobacterium introgressi nelle specie di Nicotiana si sono adattati al background genetico/fisiologico delle piante ospiti mentre le copie rimaste nei batteri hanno seguito una strada autonoma coerente con l’ambiente. Questo processo deriva dal fatto che i geni batterici ed i loro prodotti interagiscono nella pianta con gli ormoni vegetali, senza dubbio “hubs” della rete fisiologica, a sua volta modulata dai diversi ambienti occupati dalle specie ed adattata ad essi. Questa ipotesi è confermata da studi della fisiologia delle specie di Nicotiana (P.Bogani et al.,1997) dai quali erano già emerse correlazioni fra presenza/assenza di geni batterici e le loro combinazioni da una parte, il tipo di differenziazione in vitro delle cellule delle diverse specie, i rapporti quantitativi fra i componenti del sistema ormonale, e la posizione filogenetica dall’altra. L’infezione con i geni batterici ha quindi determinato cambiamenti fisiologici e di sviluppo nelle piante simili ai “rimaneggiamenti” di genomi interi dimostrati da M.Feldman in ibridi fra specie diverse, in cui gli “elementi mobili” si moltiplicano e “saltano” nell’ibrido, permettendo la riorganizzazione dell’intero corredo genetico ( M.Feldman e A.Levy, 2011), assimilabile allo “effetto Regina Rossa” caratteristico di tutti i sistemi fisici in cui una grande variazione venga “assorbita” grazie alla riorganizzazione del contesto. Questo processo è inoltre molto simile agli “hopeful monsters” di R.Goldschmidt che pure derivavano da mutazioni e non da ibridazione interspecifica. In ambedue i casi i due diversi eventi “catastrofici” (una mutazione che colpisce un “hub” o l’unione di due specie) provocano una accelerazione del processo evolutivo che ricorda molto i “salti” evolutivi degli equilibri punteggiati gouldiani anche se l’evoluzione può accelerare ad esempio anche in casi di coevoluzione “antagonista”, come nelle interazioni ospite-parassita, per la necessità dei partners di modificarsi rapidamente nella lotta per la reciproca sopravvivenza (S.Paterson et al., 2010).
C) Contesto fisiologico e selezione cellulare
Il cambiamento delle reti fisiologiche nelle piante può agire sulla selezione per via somatica e il risultato può poi passare alle generazioni successive per via germinale. Sia in piante che in animali si è dimostrato che le cellule di uno stesso organismo pur essendo derivate da una solo cellula iniziale non sono necessariamente geneticamente uguali e che i contesti interni agiscono insieme a quelli esterni sulla cosiddetta selezione somatica o cellulare. Nel caso delle piante poi le cellule somatiche possono entrare in linea germinale e quindi nei semi che potranno essere quindi geneticamente diversi dalla pianta orignaria. Già Lamarck, riferendosi a piante a propagazione vegetativa, scriveva nella sua Philosophie Zoologique : “Ma ogni gemma di una pianta è lei stessa una pianta che condivide la vita con il resto, fa le infiorescenze e i fiori ogni anno, poi produce frutti e infine può dare origine ad un ramo da cui nascono altre gemme e cioè altre piante. Ognuna di queste produce frutti o rami che danno origine ad ancora altre piante con una loro individualità” (Lamarck,1809, 1914). Che la selezione somatica nelle piante sia influenzata dal contesto fisiologico e dell’ambiente esterno è stato dimostrato ad esempio da A.Bennici et al., 1968 che hanno coltivato cellule di Haplopappus gracilis su mezzi di coltura con rapporti ormonali diversi ed hanno osservato forti modificazioni nella struttura e nel numero dei cromosomi a seconda della combinazione ormonale, dato questo confermato a livello molecolare in pomodoro da P.Bogani et al., 1996. Molti studi hanno confermato fin dagli anni “60, l’esistenza di processi selettivi anche transgenerazionali a livello somatico in particolare in piante in cui era stata aumentata artificialmente la frequenza di mutazione, e l’effetto delle condizioni ambientali sulla loro dinamica (vedi ad esempio M.Buiatti et al, 1969). Nel caso degli animali superiori invece, data la precoce separazione della linea germinale da quella somatica e il processo di eliminazione di eventuali gameti mutati, la selezione cellulare non ha effetti transgenerazionali ma è frequente a livello somatico e quindi indirettamente può influire sulla fitness fenotipica dei singoli individui. Ad esempio durante la maturazione dei linfociti è proprio la selezione cellulare da parte degli antigeni che favorisce la proliferazione di quelle cellule che sono in grado di riconoscerli e difendere così l’organismo, e questo grazie ad un meccanismo complesso di generazione di variabilità somatica dei geni delle immunoglobuline. Un caso particolarmente interessante da questo punto di vista è quello di Dictyostelium discoideum, una ameba unicellulare che, in mancanza di cibo, va incontro ad un processo di aggregazione dando origine ad un verme capace di spostarsi in cerca di ambienti più favorevoli. Una volta trovato il cibo l’organismo si ferma e si fissa producendo uno sporangio che dà luogo ad una nuova generazione di amebe dopo normali processi meiotici. Le amebe quindi sono eterogenee geneticamente ma, come discusso da Dee et al., quando si aggregano interviene un processo di selezione che permette la presenza nell’organismo in formazione solo di cellule che hanno lo stesso genotipo, con un processo che ricorda quello di formazione delle colonie di Myxococcus xanthy. L.J. Shinkets and D.Kaiser (1982). In ambedue i casi l’organismo multicellulare ha regole interne rigide che in questo caso determinano una sorta di “discriminazione genetica conservativa”. Processi simili sono presenti anche in animali superiori in cui le cellule tuttavia si differenziano più per la loro struttura epigenetica che per quella genetica. Tuttavia recentemente si è scoperta l’esistenza di una consistente variabilità genetica somatica in termini di numero di copie di singoli frammenti di DNA e di ri-arrangiamenti anche consistenti di intere zone dei genomi, può coprire fino al 30% del corredo genetico ed avere effetti importanti sul fenotipo. Questa variabilità genetica (Copy Number Variation =CNV), deriva da processi di replicazione non di tutto il cromosoma ma di piccole porzioni di questo, che “saltano” in altre posizioni del genoma e possono così provocare negli umani in diversi casi malattie non ereditabili perché in cellule che non entrano nella linea germinale ma localmente dannose. Un esempio è dato da una serie di morbilità che incidono sul funzionamento del cervello, provocate da modificazioni nel numero di copie e ri-arrangiamenti di complessi genici specifici coinvolti ad esempio nella eziologia dell’autismo e della schizofrenia (Smith et al., 2008). E’ ipotizzabile quindi che il processo di “pruning” (potatura), che elimina una grande quantità di sinapsi e anche cellule neuronali possa avere un qualche effetto selettivo legato alla eterogenità genetica. Si conoscono ormai abbastanza bene le molecole che intervengono nel meccanismo di segnalazione che permette Il collegamento fra neurone e neurone e quindi si hanno sinapsi solo se i segnali vengono percepiti da ambedue i neuroni potenzialmente comunicanti. Se questo non avviene la catena di neuroni che trasmette i segnali viene modificata o eliminata. Sono di molto tempo fa gli esperimenti che hanno dimostrato che un topino appena nato lasciato al buio per dieci giorni diventa cieco per tutta la vita e che i fasci neurali che sarebbero serviti per la vista si collegano invece con le vibrisse, strumento vicariante per l’orientamento dell’animale. Da un punto di vista concettuale questo processo è simile a quello della selezione delle mutazioni nel DNA discusso precedentemente, nel senso che in ambedue i casi vengono mantenute dalla selezione solo le molecole o le cellule che si “riconoscono” in modo da agire di conserva per il funzionamento della rete in cui si trovano (le reti molecolari di DNA e proteine da una parte e quelle cellulari dall’altra). Del resto, come le cellule, anche i tessuti sono coordinati, in particolare nelle piante e negli animali superiori, in modo da dare ognuno il suo apporto all’organismo nel suo complesso come ricordava lo stesso Darwin parlando delle “variazioni correlate”. In tutti questi casi la selezione dei componenti é funzionale alle esigenze della rete di cui fanno parte, molecolare all’interno delle cellule, fra cellule nei tessuti, fra questi nell’organismo. Gli organismi poi, sono connessi negli ecosistemi e devono essere anch’essi coerenti con le regole di questi, sia interni che esterni. Per ecosistemi interni intendo qui gli Holo-genomi o “super-organismi” come li hanno chiamati Zilber-Rosenberg e Rosenberg,2008, e Sleator, 2010, intendendo con questo termine i sistemi costituiti da un animale o una pianta superiore che ospitano microrganismi. Anche gli umani appartengono a questa categoria e vivono in compagnia di oltre 1000 specie batteriche diverse corrispondenti a più di un chilo del nostro peso, che devono mantenere equilibri specifici fra di loro e i loro “padroni di casa”, pena la distruzione di tutto il sistema. Per fare un esempio della importanza del sistema batterico per la nostra vita basti ricordare che la dimostrazione da parte di Roud e Mazmanian, che la struttura delle popolazioni simbionti regola le risposte immunitarie del nostro intestino sia in salute che in malattia. D’altra parte il funzionamento del nostro apparato digerente è tutto dipendente dallo ecosistema microbico come dimostra il fatto che uno dei problemi delle terapie antibiotiche è proprio l’insorgere di problemi intestinali curati poi con la somministrazione di popolazioni microbiche. Uno degli esempi più interessanti di coevoluzione in un mini-eco-sistema è quello delle iterazioni fra una specie di formiche (le “Attine”), un fungo della famiglia delle Lepiotacee, un patogeno del fungo (Escovopsis) ed un batterio Actinomicete. Le Attine sono formiche che si cibano di foglie che le operaie tagliano e portano nel formicaio. Tuttavia le formiche, mancando di cellulasi, non sono capaci di digerire il materiale vegetale e si sono quindi “fornite” di un fungo delle famiglia delle Lepiotacee fungo che lo rende commestibile con la sua celllulasi. Il fungo tuttavia è attaccato dal parassita Escovopsis che viene eliminato dal batterio con antibiotici specifici. Il fatto importante è che se si analizza con metodi molecolari la evoluzione delle specie del sistema e si costruiscono i loro alberi filogenetici, si scopre che hanno la stessa struttura il che indica che si sono co-evolute in assoluta sincronia (Mueller e Rabeling,2008). L’esempio delle Attine è paradigmatico e rappresentativo di tutti i processi di co-evoluzione a livello degli ecosistemi in cui le specie interagiscono. E’ quindi generalizzabile quando afferma P.Jordano, 2010, che gli ecosistemi (e la Biosfera, N.d.R): “mostrano la presenza di un “corpo centrale di patterns di interazione super-generalisti, organizzati come scatole cinesi e moduli multipli che sostituiscono i blocchi fondamentali della rete complessa. La struttura delle interazioni multiple fra specie assomiglia ad altre reti complesse ed è fondamentale per capire la sua evoluzione e anche la necessità della perdita di specie per il mantenimento del sistema”.
In questo saggio si sono analizzate le dinamiche dei vincoli alla casualità dei diversi livelli di organizzazione gerarchica della vita, dalle interazioni fra molecole informazionali, fra componenti del metabolismo, della fisiologia, dei sistemi cellulari, dei tessuti, degli organismi, degli ecosistemi, della Biosfera. A ogni livello le regole di connessione interne riducono i gradi di libertà dei componenti che vengono selezionati solo se si connettono e mantengono quindi la struttura dinamica a rete in cui si trovano. La selezione favorisce gli elementi connessi del livello inferiore ed è anche componente di quello superiore e così via fino alla rete della Biosfera che è anch’essa sottoposta a selezione dai cambiamenti della materia non vivente del Pianeta. Quindi le connessioni non sono solo “orizzontali” all’interno di ogni livello ma anche “verticali” nel senso che un cambiamento di un componente modifica il livello in cui si trova ma influisce sui livelli superiori e su quelli inferiori, come hanno discusso recentemente Buiatti e Longo (materiale non pubblicato).
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