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UNITÀ TEMATICA N. 5
IL LAVORO NELL’ERA DIGITALE

Autore

Sergio Bellucci

E-WORK. Lavoro, rete, innovazione.

Brevi note autobiografiche

 

Inviato il 18/10/2019




 

Risale a circa 15 anni fa la conclusione di un impegno che fu per me importantissimo: la scrittura del mio libro E-work. Avevo finito di raccogliere le riflessioni che avevo portato avanti dalla fine degli anni ’80 quando, con l’aiuto di un compagno stupendo come Peppino Trulli, iniziai un percorso di analisi di quello che stava accadendo nel mondo della produzione. Lavorando, allora, in uno dei settori a maggior sviluppo di innovazione, vivevo in un osservatorio perfetto delle tendenze in atto, delle sperimentazioni che si producevano, di ciò che sarebbe arrivato nel resto del mondo produttivo.

 

Da quelle novità sarebbero nate e morte molte cose. Sarebbe cambiata la forma di quello che allora era chiamato il “conflitto operaio”, che era ancora, per alcuni versi, un conflitto sul “potere” nella produzione, una rivendicazione di “potere nella società”. In pochissimi anni tutto cambiò. Ci furono dei passaggi simbolo, come l’accordo del luglio del ’93 in Italia, ma il tema era che stavano cambiando alcune strutture di fondo della forma della produzione. Nel nostro paese più lentamente che in altri luoghi del pianeta, ma tutto stava per essere s/travolto.

Ci furono compagni che si spesero per comprendere la fase e rimettere in carreggiata la forma del conflitto, uscire dal gorgo che stava ingoiando e trasformando tutto: la riduzione del conflitto al mero obiettivo “quantitativo” di un trattamento salariale in grado di soddisfare i bisogni indotti “dall’Industria di Senso”. Una sorta di riduzionismo sociale con il totale abbandono dell’alterità politica di un orizzonte di vita “altro”.

In quel tempo le riflessioni sulla produzione erano spaccate sostanzialmente in due campi. C’erano i post-industrialisti e il fronte di quelli che io chiamo i “continuisti”. I primi, sull’onda delle trasformazioni produttive che iniziavano ad investire i luoghi di lavoro con l’introduzione di quelle che allora venivano chiamate le “macchine a controllo numerico” e che rappresentavano i primi processi di digitalizzazione della produzione, sostenevano una sorta di “fine del capitalismo industriale”. I secondi sostenevano che non importava come e se cambiasse la produzione, la forma dello sfruttamento capitalistico rimaneva intatta.

 

Personalmente ero interessato ad una visione diversa. La trasformazione del lavoro non sarebbe stata neutra per il livello e la qualità del conflitto, per la sua trasformazione e il suo “orizzonte di senso”. Il cambio nei processi della produzione avrebbe generato, a mio avviso, un cambio della forma del soggetto, un po’ come Gramsci ci ammoniva nei suoi Quaderni, nel passaggio dall’operaio artigiano all’operaio massa indotto dall’avvento del processo “tayloristico-fordista”.

A mio parere, questa la tesi del mio libro in estrema sintesi, l’avvento del digitale avrebbe trasformato il ciclo produttivo e avrebbe inaugurato quello che io chiamai allora Taylorismo Digitale. Cosa cambiava con questa novità, per me? Il fatto che i processi di “Parcellizzazione, Cooperazione e Controllo” fossero smaterializzabili, flessibilizzabili, spersonalizzabili, avrebbero prodotto una “fabbrica” diversa - esplosa sul territorio, esternalizzata in una miriade di luoghi e attività, organizzata a rete e sotto il controllo matematizzato del digitale - e un lavoro sempre più digitalizzato, cioè organizzato in flussi ingegnerizzati,  gestiti da software e con strutture di controllo del processo non più umane e/o addirittura auto-indotte.

 

Nello stesso libro, annunciavo anche l’avvento di una ulteriore fase: la nascita del Lavoro Implicito, l’avvento di una forma di lavoro esternalizzato dai processi produttivi digitali direttamente sul consumatore o, se volete una riflessione più sociologica, sul corpo della società. Un lavoro che mentre eliminava pezzi di ciclo produttivo delle aziende produttrici di merci e servizi, metteva al lavoro le persone che assumevano su loro stessi l’onere di pezzi di ciclo produttivo e non solo non venivano retribuiti per questo lavoro, ma pagavano gli strumenti produttivi, l’energia e i costi di attivazione necessari.

Le implicazioni di tali trasformazioni nella capacità di rappresentanza sociale e nel mantenimento di un orizzonte politico autonomo del mondo del lavoro sono oggi sotto gli occhi di tutti. E, a mio avviso, lo sono le ragioni di una sinistra che non ha compreso le trasformazioni di quel mondo che voleva rappresentare e interpretare.

Il libro contiene anche altro, ovviamente. E molto altro è accaduto da allora. Ma su questo ognuno di noi è impegnato a ragionare, scrivere, dibattere. I cambiamenti della produzione e del lavoro sono andati anche oltre e, a mio avviso, prefigurano un nuovo e più deciso salto.