da «La Deleuziana» 5/2017, Le macchine da guerra dei ritornelli terrestri, pp. 144-163.
a Sofia, Jacques, Celia, Silvio, Marilina e Fabrice;
a quello che hanno visto nelle notti di Parigi
Eram os outros românticos, no escuro
Cultuavam outra idade média, situada no futuro
Não no passado
(Caetano Veloso, Os outros românticos)
§ 1. Si dice che verso la fine degli anni Trenta, a un incontro del Collège de Sociologie, Walter Benjamin abbia detto a Georges Bataille: Monsieur, vous travaillez pour le fascisme! Come ricercatore della sezione parigina dell’Institut für Sozialforschung di Francoforte, Benjamin aveva il compito di seguire le attività intellettuali della capitale francese, alla ricerca di quel che si muoveva nell’aria del tempo e, eventualmente, di alleati. Ma non ci fu intesa fra il Collège e l’Institut, e proprio per via di quanto Benjamin ne scrisse a Horkheimer e Adorno[1]. La sua costernazione manifesta un misto di fascinazione e distanza che è il punto d’avvio di questo scritto.
Nei decenni che seguirono, la prossimità del Collège al fascismo farà problema in modo esplicito: per un certo imbarazzo a posteriori[2], ma anche per via di un elemento più sottile e cruciale. Se infatti, col senno del poi, certe opere di Caillois e certi passaggi di Bataille sembrano muovere pericolosamente in quella direzione, non è però subito evidente quale opzione di ricerca o quale piega nella sensibilità li portasse verso la combinazione antropologica che stava dilaniando l’Europa.
Non è in questione l’adesione esplicita ai movimenti fascisti (Bataille, semmai, è comunista), ma la terra grigia fra ciò che è cosciente e i sogni, fra l’illuminato e l’implicito, là dove le culture, i tempi e la storia plasmano gli strati più profondi della psiche e della sensibilità. Quella fra il Collège e il fascismo non era una vicinanza ideologica o politica, ma una prossimità esistenziale: il rischio di un’affinità.
Per questo la reazione di Benjamin ha qualcosa di decisivo: contro ogni militanza ingenua, infatti, il problema non sono i fascisti ma il fascismo. Secondo Palma, quello di Benjamin sul Collège è un «giudizio che difficilmente un emigrato tedesco ebreo e antifascista non avrebbe proferito»[3]. E può ben darsi che il berlinese esprimesse un sentire più diffuso, formulando una diagnosi tanto certa quanto quella della preda che riconosce all’istante, in base a indizi appena percettibili, la presenza del predatore. Qualcosa, però, resta opaco: non solo perché fior di intellettuali restarono fascisti, o comunque collaborarono coi regimi, fin a ben oltre il giustificabile (Jung, tanto per non ribattere sul solito Heidegger), ma soprattutto perché altri, avendo aderito al fascismo, entrarono poi nella Resistenza per finire col far parte, nel dopoguerra, dell’estrema sinistra rivoluzionaria e libertaria (fra gli altri: Ernesto de Martino, Maurice Blanchot, Giorgio Cesarano).
Si può ipotizzare che questo transito esprima una manovra psicologica di compensazione: in questo caso, dovremo chiederci perché fin da subito è così chiaro a Benjamin qualcosa che agli altri non è chiaro affatto e quali fossero i segni del fascismo che solo il primo sapeva leggere. Se invece il transito è qualcosa di diverso da una compensazione, resta da capire che cosa lega le precoci posizione fasciste alla più tardive posizioni rivoluzionarie – un’indagine in cui tenersi alla larga dal qualunquismo della “coincidenza degli opposti estremismi”, senza chiudere gli occhi sulle somiglianze e sull’enorme rischio politico, filosofico ed esistenziale che esse portano con sé. Se davvero c’è una qualche affinità tra il fascismo e la rivoluzione libertaria, allora la soluzione non sta nel buttare via tutto e abbandonarsi al liberismo, ma nell’imparare a riconoscere senza esitazioni la linea di discrimine fra i due. Qui la indagheremo nel suo passaggio per la zona, fra tutte, più ambigua e problematica: quella del sacro.
§ 2. Risalendo la biografia del nostro autore si trova un altro incontro dove si manifesta, quasi allo stato puro, la tensione fra fascinazione e distanza. Quando Benjamin lo incontra, fra il 1926 e il 1927, il surrealismo esercita su di lui una presa potente. Vi ritrova le cose che, in quei medesimi anni, si muovono nella parte più profonda della sua esperienza e, come capita in questi casi, il fiato si spezza:
Ai suoi inizi c’è Aragon – il Paysan de Paris di cui la sera a letto non riuscivo a leggere più di due o tre pagine, perché poi il batticuore si faceva tanto forte da costringermi a riporre il libro.[4]
Per il saggio sul surrealismo, di gestazione più lunga del solito, Benjamin accumula materiali e produce infine un testo tanto rovente quanto quelli di cui tratta, enigmatico e visionario, poetico e politico. Che non spegne affatto il “bruciante interesse”: più tardi infatti, e fino alla fine, esso si riverserà nei Passagenwerk, alle cui origini si trovano appunto i lavori della cerchia di Breton[5].
Pubblicato nel 1928, Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei effettua un doppio movimento: nel momento stesso in cui, quasi senza riserve, riconosce al surrealismo una potenza unica e singolare nel panorama rivoluzionario, ne prende le distanze. Lo fa in maniera peculiare perché non è esattamente una critica, quella che Benjamin rivolge al surrealismo: non ne mostra le debolezze, non ne discute i limiti. Si limita a non farsi adesivo, a mantenere i propri confini evitando la confusione. Un’accortezza doppiamente significativa alla luce dell’omaggio perfetto che gli tributa:
Conquistare le forze dell’ebbrezza per la rivoluzione: intorno a questo motivo ruota il surrealismo in tutti i suoi libri e le sue iniziative. Questo può essere definito il suo compito più proprio e specifico.[6]
Ora, l’ebbrezza è precisamente il momento della con-fusione, l’allentarsi dei confini individuali e l’emergere dello sfondo caotico, pre-soggettivo, informe e relazionale da cui l’esistenza prende forma. Se, con Simondon, pensiamo l’individuazione umana come processo sempre in divenire che attinge a, e continuamente porta con sé, un comune fondo preindividuale, altamente potenziale e condizione di possibilità di ogni nuova individuazione, allora l’ebbrezza surrealista coincide col momento in cui il soggetto si de-individualizza nel contatto con le forze del prima e dell’altrimenti, con le stratificazioni profonde del collettivo, della storia e della cultura, con ciò che ci precede e col non-umano – col sacro, quindi; e con l’incanto del mondo[7].
Niente gli era più affine del surrealismo. Ma anziché buttarsi a perdifiato, Benjamin traccia un solco sottile a delimitare il suo progetto. Nel saggio accenna a «perniciosi pregiudizi romantici[8]» che inficerebbero il movimento di Breton e in una lettera a Scholem del novembre 1928, in cui descrive il progetto iniziale dei Passagenwerk, afferma di volere
togliere questo lavoro da una prossimità perfino troppo vistosa col movimento surrealista che, per quanto ovvia e ben fondata, potrebbe rivelarsi fatale per me.[9]
Per quanto ovvia e ben fondata: quando Benjamin individua il motore surrealista nell’ebbrezza al servizio della rivoluzione, sta indicando anche una parte cospicua del suo stesso lavoro. Che però potrebbe rivelarsi fatale – e Benjamin rifiuta l’invito a bere. Resta sobrio. Lui, che proprio in quegli anni, a Parigi, sperimentava l’hascisc con altri intellettuali, stilando rigorosi protocolli osservativi; e che giusto in quei mesi veniva iniziato al marxismo dalla bellezza di Asja Lacis. La costernazione degli anni Trenta è qui ancora solo preoccupazione, ma profetica. Da dove gli viene il presagio del rischio?
Risalendo ancora a monte nella sua biografia si può azzardare un’ipotesi. Appena tredicenne, Benjamin fu mandato per due anni alla scuola di Gustav Wynecken, rappresentante dell’ala più intellettuale e radicale della Jugendbewegung. Fondato nel 1896, il movimento giovanile era nato come critica dell’autoritarismo della Germania di fine Ottocento ed esprimeva una radicale insoddisfazione per le condizioni di vita dettate dall’industrializzazione e dall’imperialismo, a cui opponeva una visione profondamente romantica che prevedeva, fra l’altro, l’organizzazione di confraternite di giovani per il ritorno alla natura, all’avventura e, almeno idealmente, a uno stato di primitiva innocenza[10]. Contro l’impresa razionalizzante e utilitaristica delle scuole, dell’esercito e delle fabbriche, l’attenzione del movimento andava piuttosto ai sogni, ai miti, alla possibilità di abbandonarsi e di ricongiungersi senza traumi alla natura.
Più tardi, però, questa ricerca esistenziale si collegò a un enorme trauma storico e biografico: scambiando l’attualità e le sottigliezze della storia per il ripresentarsi del mito, alla vigilia del primo conflitto larga parte della Jugendbewegung, assetata di eroismo, avventura e nuovo incanto, sostenne l’intervento bellico. La fine è nota: anziché trovare boschi, castelli e onore, intere generazioni si ritrovarono fra immani carneficine, in uno spettrale rovesciamento del panorama culturale europeo.
Una cosa è chiara: le quotazioni dell’esperienza sono cadute, e questo in una generazione che, nel 1914-18, aveva fatto una delle più mostruose esperienze della storia mondiale. Forse questo non è così strano come sembra. Non si poteva già allora constatare che la gente se ne tornava muta dai campi di battaglia? Non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile. (...) No, non era strano. Poiché mai esperienze sono state smentite più a fondo di quelle strategiche attraverso la guerra di posizione, di quelle economiche attraverso l’inflazione, di quelle fisiche attraverso la fame, di quelle morali attraverso i potenti. Una generazione, che era andata a scuola ancora con il tram a cavalli, stava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui niente era rimasto immutato tranne le nuvole, e nel centro – in un campo di forze di esplosioni e di correnti distruttrici – il minuto e fragile corpo umano.[11]
La profondità della cesura bellica, che aveva trasformato la fascinazione in orrore, non può essere sovrastimata. Anziché la dolce estasi dell’abbandono o l’esperienza cui anelavano, i giovani in rivolta avevano trovato la sola cosa di cui esperienza non si può dare: la fine del mondo, l’annientamento, l’apocalissi culturale[12].
La grandezza di Benjamin è stata quella di non tradire il sentire originario, che intravedeva nell’ebbrezza la possibilità stessa della rivoluzione, cominciando però, di lì in avanti, a fare attenzione a qualunque segno rivelasse la propensione a una nuova catastrofe. Prima ancora che il fascismo prendesse il suo nome storico, Benjamin era già immunizzato contro uno dei suoi tratti salienti: l’uso dell’ebbrezza al servizio del dominio.
§ 3. Il periodo che va dal 1870 allo scoppio della prima guerra mondiale è ricordato come singolarmente pacifico: in piena espansione egemonica, la borghesia europea regolamentava il mondo con la pax imperialis, l’atmosfera festiva della Belle époque e il definitivo consolidarsi del mito del progresso. Bastava lasciar funzionare la macchina secondo le sue leggi e ne sarebbe seguito un ecumenico “di più” per tutti: più merci, più soldi, più benessere, più civiltà, più cultura, più aura[13]. Troppo bello per essere vero: la Jugendbewegung fu uno fra gli innumerevoli sintomi della crisi profonda (e irreversibile, dato che non ne siamo mai usciti) che iniziava proprio allora a manifestarsi nella cultura europea e nella forma umana a essa associata.
Per cominciare c’erano le malefatte extra-territoriali: colonialismo e imperialismo si reggevano su un regime di lavoro forzato e di sterminio a bassa intensità che, inevitabilmente, lasciava le sue tracce anche sui colonizzatori. Poi c’era – a cavallo fra Marx, Nietzsche e Freud – la de-sublimazione, e il conseguente recupero storico, delle malefatte interne: dall’accumulazione primitiva al disagio della civiltà, dal sacrificio di Dioniso ai roghi delle streghe, dalla pauperizzazione all’esistenza stessa di una “pulsione di morte” fra i borghesi europei[14]. Poi ancora c’era il convergere della crisi dei fondamenti scientifici con la crisi del fondamento etico. La prima corrispondeva al venir meno dell’immagine monolitica del mondo ereditata dalla fisica classica e si manifestava nell’impossibilità di fondare le scienze in modo non contraddittorio e nell’esplosione di teorie che portavano la molteplicità e l’incompletezza al cuore stesso dell’impresa conoscitiva. La seconda coincideva col venir meno della fiducia nel principio di ordinamento del mondo e nella bontà del progetto moderno. Infine, i giovani erano presi in un grave blocco esistenziale: l’imperativo a “lasciar funzionare la macchina” fu vissuto dalle generazioni nate dopo il 1870 come totale impraticabilità della dimensione politica, che li costrinse a spostare ai margini le loro traiettorie esistenziali. La loro inventiva fiorì nell’arte, nell’architettura, in letteratura, nella psicoanalisi, in musica: lavorò quella parte della vita collettiva e soggettiva che, ancora poco sottoposta a uno sfruttamento brutale, poteva prendere le forme dell’altrimenti; e che ancora consentiva di accedere a un divenire soggettivo che corrispondesse a un divenire del mondo.
Oltre e accanto alla rivoluzione politica ed economica a opera del proletariato, da più parti si lavorava alla possibilità di una vera e propria rivoluzione antropologica, un rivolgimento profondo nei fondamenti della modernità[15]. Possibilità così tangibile e rischiosa da richiedere, infine, il più drastico dei rimedi: il trasferimento alla guerra dei mezzi tecnici del progresso, la distruzione sistematica della gioventù europea, l’asservimento del “sapere altro” che si andava producendo.
Alcuni storici hanno parlato, per il periodo che va da 1914 al 1945, di Guerra dei Trent’anni del Novecento. Ipotesi sostenibile, se si pensa ai totalitarismi che hanno inframmezzato gli scoppi bellici e, soprattutto, al successo dell’impresa, che instaura una vera e propria rivoluzione conservatrice: la fisica che s’insegna a scuola resta quella newtoniana; la crisi del fondamento diventa astruseria da filosofi; l’arte si fa intrattenimento; la psiche si sottomette a procedure cognitivo-comportamentali (o, ancor meglio, alla farmacologia); e con l’ONU, l’OMS, la Banca Mondiale e la NATO nessuno che sia sano di mente potrà più dubitare della bontà del progresso moderno... Una manovra che ha il sapore di una gigantesca rimozione. E infatti la storia dei decenni precedenti si fa imparlabile: i campi di sterminio diventano il Male Assoluto, i nazisti erano mostri, il totalitarismo una malattia etnospecifica degli asiatici e la rivoluzione viene dilazionata sine die in attesa che maturino le “condizioni oggettive”. Fino al “decennio ’68”, fermato con bombe ed eroina e con lo spostamento del conflitto sul piano militare; e anch’esso seguito da una nuova uniformazione.
Oggi siamo di fronte al ripresentarsi della stessa crisi, ma anziché festoso, come nella belle époque, o apertamente ribelle come mezzo secolo fa, questa volta il clima è cupo e disperante[16]: la sopravvivenza aumentata dei supermercati 7/24, del turismo di massa e degli smartphone si traduce in alcol, ansia, panico e psicofarmaci. Ci tocca ri-apprendere, nella sua versione deprimente, qualcosa che già si era presentato come possibilità luminosa (ancorché rischiosa): il superamento della modernità.
§ 4. La modernità è il mondo umano che si è aperto, fra Cinquecento e Settecento, nella coalescenza di tre giganteschi processi storici: colonialismo, capitalismo e scienza. Nei manuali di storia è unanimemente presentata come il trionfo della libertà e del progresso: un cursus honorum un po’ faticoso e con qualche danno collaterale, ma pur sempre una vittoria dell’umanità intera contro le condizioni di povertà e di dipendenza – dalla natura, dagli dèi, dai vincoli tradizionali ecc. – che caratterizzavano le società precedenti. Difficilmente in quelle pagine si fa cenno al prezzo pagato e il non-detto (quello che Žižek definirebbe “il livello osceno delle cose”) sprofonda nell’indicibile. È lì dunque che bisogna guardare, se vogliamo capire qualcosa di ciò che ha mosso, e continua a muovere, gli anti-moderni, i rivoluzionari, i non adatti al mondo-così-com’è.
Per dirla tutta d’un fiato: la modernità è un sistema di dominio il cui tratto specifico è la propensione alla totalizzazione dell’esistente. È un sistema di dominio perché (come tutti gli altri) si basa su un motore differenziale di oppressione che, nel produrre da un lato magnificenza, prestigio e ricchezza, produce dall’altro distruzione, infamia e miseria. È quanto Marx ricostruisce in un capitolo fondamentale del Capitale: l’accumulazione originaria che rende possibile il regime del plus-valore altro non è se non un enorme dispiegamento di violenza – ne sanno qualcosa i popoli colonizzati, convertiti e schiavizzati; le comunità espropriate manu militari; le streghe bruciate sui roghi; le generazioni prese nell’alternativa infernale fra il morir di fame e l’abbruttirsi nel lavoro salariato; i corpi maschili sottomessi alla disciplina di fabbrica, esercito, ospedale e galera e quelli femminili sottomessi alla riproduzione e a un patriarcato particolarmente acido[17].
A differenza degli altri sistemi di dominio, però, la modernità è abilissima a nascondersi dietro l’ideologia trionfale del progresso universale e democratico, e quindi a proporsi come unico modo pensabile della “buona vita” per l’umanità intera. Non si presenta come dominio, ma come liberazione. Vive di un sistema di opposizioni – fra natura e cultura, fra corpo e mente, fra verità e opinione, fra civiltà e barbarie – che costituisce la metafisica dei moderni e in cui, tuttavia,
uno dei termini sta per principio più in alto dell’altro, e lo sovrasta, lo comanda, lo opprime inevitabilmente. Il senso è così “pregiudicato”, l’orizzonte del “possibile” precluso. I dualismi tradizionali – vero e falso, bene e male, giusto e ingiusto – sono in realtà monismi travestiti. Illudono, tradiscono. Il primo termine vincerà sempre, perché la sua superiorità è stabilita in partenza.[18]
Come quello ebraico, la modernità è un dio geloso e, come quello cristiano, è un dio espansivo. Questo la giustifica nella sua operazione più tipica: un incessante attacco a ogni forma di vita, a ogni modo di fare mondo e a ogni attaccamento che non siano quelli previsti dal suo apparato. Ciò vale per la costruzione delle soggettività così come per i modi della sussistenza, per il monoteismo così come per l’accesso alla conoscenza: fa parte di questo attacco, infatti, anche la messa a punto di un sistema conoscitivo potente, la cui prestazione supplementare è di squalificare a priori ogni altro modo della conoscenza. E poiché non esiste mondo senza le connessioni fra umani e non umani che lo fanno esistere (e viceversa: non esistono “enti naturali” disaccoppiati dal mondo che li porta in essere), per potersi fare orizzonte unico la modernità ha dovuto sistematicamente distruggere ogni attaccamento, ogni forma di vita e ogni modo dell’esperienza che non riusciva a sussumere o a controllare. Questa distruzione arriva oggi alla sua fase conclusiva, detta “globalizzazione”.
Tutto ciò nulla toglie all’esistenza, altrove e in altri tempi, di configurazioni antropologiche al contempo non moderne e più o meno totalizzanti – né alla loro indesiderabilità[19]. Ma nessuna di esse è stata al contempo tanto espansiva e tanto intensiva quanto la modernità capitalista; nessuna ha negato altrettanto drasticamente l’esistenza di qualcosa di diverso da sé o al di fuori di sé (che si trattasse di altri modi dell’umanità, di spiriti, di forze naturali o dello “sbadigliante caso”); nessuna ha voluto, teorizzato e costruito, come la nostra, la completa trasparenza dell’umano e l’uomo, nella sua completa immanenza, come opera del tutto – quella che, secondo Blanchot, è «l’origine apparentemente sana del totalitarismo più malsano[20]».
Ora, per assicurare l’unicità del proprio orizzonte e la completa trasparenza del proprio assetto non è sufficiente togliere di mezzo l’alterità che già esiste: bisogna anche bloccare il motore che la produce generando biforcazioni, desideri, intuizioni, resistenze; che porta i viventi a sperimentare nuovi modi di relazione e a interagire con il mondo in maniera creativa e intima – a co-divenire col proprio mondo, appunto. La modernità è riuscita a garantirsi anche questa seconda condizione – ben più sottile e cruciale della prima – attraverso due mosse: lo sbarramento del preindividuale e la saturazione dell’esistente con il godimento coatto.
Cominciamo da quest’ultima. A partire dalla commercializzazione dello zucchero e delle altre droghe coloniali, passando per l’aura della merce e lo spettacolo fino ad arrivare agli smartphone e all’attuale diffusione della pornografia, la modernità fa vivere i suoi soggetti in un regime diffuso di soddisfazioni a buon mercato, fisiologicamente semplici e ad alto impatto dopaminergico che, direzionando alla prestazione il nostro modo di stare al mondo, contribuiscono alla messa in forma di un’umanità fatta di individui isolati, autosufficienti, non relazionali, in continua competizione gli uni con gli altri per l’accesso alle risorse e giustificati, nell’abbandono di ogni antica virtù, dalle dottrine che legano successo, salvezza, progresso e piacere[21].
Ancora più importante è lo sbarramento del preindividuale, che depriva i soggetti della possibilità di entrare in contatto con il possibile e l’altrimenti. Esso è stato ottenuto – fra l’altro – tramite la sistematica squalificazione, patologizzazione e criminalizzazione di ogni modo della sensibilità e dell’esperienza che non sia quello, previsto e comandato, della veglia raziocinante, calcolatrice e competitiva. Per arrivare a tanto abbiamo dovuto imparare a ignorare i nostri sogni, a tenerci a distanza da ogni relazione trasformativa, a temere le intuizioni e a considerare bambini, folli, morenti e profeti come minus habens; e dimenticare la felicità delle rivoluzioni e degli amori, sommersa après coup dal cinismo della rassegnazione. Niente più ebbrezza per i moderni, niente più ekstasis (lett., “uscire dalla posizione che si teneva, dalla stasi, dal ristagno”): nessun contatto con ciò che eccede la strutturazione ordinaria, con il non-umano, con ciò ci precede; con il campo di possibilità a partire dal quale ciascuno prende forma; con le forze e le tensioni che si muovono nella zona umbratile fra ciò che una cultura illumina e ciò che le resta ignoto; con il sacro, il mito, la mistica selvaggia, il terrore e l’estasi.
Fra gli umani (così come fra gli umani e i non umani) si crea il vuoto: dal mondo scompaiono i fili che uniscono i soggetti in una trama comune di esistenza, sostituiti – per tutti e dappertutto – dall’iper-macchina dell’utile e del plusvalore. Lo stato e la democrazia organizzano gli individui in quanto già separati, strappati dalla tessitura relazionale della vita. Alberi, lupi, fonti, fantasmi, mulini a vento, sogni e demoni smettono di parlare: forse perché son diventati muti, forse perché si è atrofizzato l’organo che permetteva di sentirli. Nel destino del mondo non ne va più di me, nel destino mio non ne va del mondo. È il disincanto.
§ 5. Omettendo tutto quanto precede, i manuali di storia si trovano poi a mal partito nell’interpretare l’ombra polemica che fin da subito la modernità produce – o, per dir meglio, l’intero corteo d’ombre che ne assedia le strade e che va a popolare, en travesti, i castelli dei romanzi gotici, gli incubi dei borghesi, le inservibili Highlands, le profondità dei mari. Sono i fantasmi delle comunità espropriate, delle streghe bruciate, degli indios, dei 150 milioni di morti della tratta atlantica, dei soldati nelle fosse, degli operai disanimati, delle donne morte di parto. Sono gli spiriti degli animali e delle piante ridotti a merci, a materia appropriabile. Sono le tracce psichiche, in coloro che tornano, di quanto accade, con brutalità sempre crescente, nelle colonie.
L’insieme di questi spettri, sospetti, insopportazioni e recalcitranze prende il nome comune di romanticismo – forse il più potente, ostinato e umbratile ritornello antimoderno, melodia di rivolta e di malinconia che ha unito intere generazioni di disadatti al mondo-così-com’è. Secondo Löwy e Sayre,
il romanticismo rappresenta una critica della modernità, e cioè della civilizzazione capitalista moderna, in nome dei valori e degli ideali del passato (precapitalista, premoderno). Si può dire che fin dalle sue origini il romanticismo è rischiarato dalla doppia luce che viene dalla stella della rivolta e dal «sole nero della malinconia» (Nerval).[22]
Esso è dunque una risposta polemica al modo di vita sotto la società capitalista e al disincanto che questa prevede e perpetra, in nome di un modo altro che si suppone andato perduto insieme al passato. Non è l’unica maniera possibile di opporvisi: gran parte del marxismo rifiuta la modernità per come essa è organizzata, ma si tiene alla larga dalla malinconia argomentando che il passato, carico di ingiustizie e di incertezza, non meritava nient’altro che di essere spazzato via dalla furia del progresso. Per i romantici, invece, la ribellione nasce da un lutto che non può terminare, perché i fantasmi di ciò che è stato travolto ancora popolano le terre illuminate dalla scienza. Romantici sono coloro che intravedono, nel selciato della strada del progresso, le ossa spezzate dei morti.
Nell’ottica romantica questa critica è legata all’esperienza di una perdita; nel reale moderno qualcosa di prezioso è andato perduto, sia a livello dell’individuo che a quello dell’umanità. La visione romantica si caratterizza per la convinzione dolorosa e malinconica che il presente manchi di alcuni essenziali valori umani, che sono stati alienati.[23]
Non è un caso se la letteratura romantica pullula di castelli, spettri, mostri, tombe, siepi, rovine e automata; né se assume il sogno, la fantasticheria, l’incubo e la suscettibilità come vertici osservativi privilegiati: tutto ciò che è stato bandito dalla città illuminista contribuisce alla potenza del suo irrealismo critico.
A questo esso affianca, come secondo asse critico, il rifiuto dell’astrazione e la ricerca del re-incanto del mondo. La sensibilità romantica intuisce assai presto che, nell’improvviso silenzio dell’universo, è la vita umana ad appassire; che ciò che nel passato in qualche modo si dava e ora non si dà più – la possibilità di una relazione fra ciò che è umano e ciò che è totalmente altro – è più che sufficiente a fare del presente una terra ostile, del progresso un’ideologia e della ricchezza un furto. Nulla attenua questo spleen antimoderno intimamente rivoltoso e al romanticismo nel suo insieme va riconosciuta la percezione precocissima, e poi la fedeltà, al sentimento del «così non va».
È qui che il romanticismo ha rivelato tutta la sua forza critica e la sua lucidità, a fronte dell’accecamento delle ideologie del progresso. I critici romantici hanno raggiunto – anche quando l’hanno fatto in modo intuitivo o parziale – quel che era l’impensato del pensiero borghese, hanno visto ciò che stava al di fuori del campo di visibilità della visione liberale individualista del mondo: la reificazione, la quantificazione, la perdita dei valori umani e culturali qualitativi, la solitudine degli individui, lo sradicamento, l’alienazione a opera della merce, la dinamica incontrollabile delle macchine e della tecnologia, la temporalità ridotta a istantaneità, la degradazione della natura. In una parola, hanno descritto la facies hippocratica della civiltà moderna. Che spesso abbiamo presentato questa diagnosi acuta nel nome di un estetismo elitista, di una religione retrograda o di una ideologia politica reazionaria nulla toglie alla sua acutezza e al suo valore in quanto diagnosi. Se non sono sempre stati in grado di proporre delle soluzioni alle catastrofi provocate dal progresso industriale – salvo un illusorio ritorno al passato perduto – hanno però messo in evidenza i misfatti della modernizzazione occidentale.[24]
Alcuni dei più acuti critici della modernità furono grandi conservatori, e finanche reazionari, accidiosamente rivolti al passato. Altri furono rivoluzionari visionari. Il fascismo cavalcò la critica antimoderna fino all’apologia dell’irrazionale, combinandola con l’uso spregiudicato di tutti i più avanzati mezzi tecnici moderni. Ma dopo l’esito catastrofico delle guerre mondiali e dei totalitarismi – al cui insorgere la propensione misticheggiante e irrazionalista aveva tanto contribuito –, tutte le resistenze anti-moderne sono state assimiliate al fascismo tout court e respinte, insieme a questo, nella categoria dell’irricevibile.
Si tratta di un errore, e dei più perniciosi. In primo luogo perché, cancellando la molteplicità del romanticismo (e la specificità del fascismo), taglia i garretti a una delle più pericolose correnti critiche della modernità. E poi perché, rifiutando tutte le istanze romantiche, abbandona il campo di lotta fra tutti più cruciale e decisivo – quello, appunto, dell’ekstasis e della possibilità di un altrimenti.
§ 6. Cominciamo dai molti modi del romanticismo. Nelle ali del suo castello esso alberga un’estrema varietà di posizioni, la maggior parte delle quali decisamente lontane dal fascismo. Löwy e Sayre ne propongono una tipologia provvisoria. C’è un romanticismo restituzionista, che aspira alla restaurazione integrale o alla ricreazione di un passato precapitalista; un romanticismo conservatore, che mira a conservare, entro società già impegnate nello sviluppo capitalista, le forme antiche ancora presenti; un romanticismo rassegnato, che propugna una visione tragica dell’inevitabilità della modernità; un romanticismo riformatore, che promuove riforme legali e della coscienza in vista della possibilità di ritorno ai valori antichi; un romanticismo fascista, in cui la condanna della democrazia, del comunismo e dell’ebraismo si mescolano alla glorificazione «dell’irrazionale allo stato puro, dell’istinto bruto nelle sue forme più aggressive[25]» e all’annientamento del polo individuale; e infine un romanticismo rivoluzionario o utopico, che «va al di là dei tipi già evocati per “riempire” la nostalgia del passato pre-capitalista con la speranza di un avvenire radicalmente nuovo[26]» – che è quello di Benjamin e di Bloch, la cui tradizione umbratile sta tornando in questi anni alla memoria collettiva[27].
Prima di esplorarlo, mandiamo giù la medicina amara e ammettiamo che esso condivide con il fascismo una parte almeno della sua matrice culturale. Se questo è vero, allora non è più possibile orientarsi fra le posizioni politiche usando una linea continua che parte da quelle più reazionarie e arriva, all’altro capo, a quelle rivoluzionarie: serve uno schema più complesso. Ad esempio – incrociando il rapporto alla modernità con l’accettazione o meno della naturalità del dominio dei pochi sui molti – questo:

Il romanticismo utopico-rivoluzionario confina da un lato col fascismo per il rifiuto della modernità; dall’altro col progressismo per il rifiuto della naturalità del dominio; e sta agli antipodi del neoliberismo (il che significa che l’intera configurazione dell’Occidente attuale gli è insopportabile).
In ciò, esso sviluppa un diverso rapporto con il tempo e la memoria. Nel romanticismo utopico-rivoluzionario la perdita non è avvenuta in un momento particolare del passato, che coincide grossomodo con l’avvento della modernità; piuttosto, da allora siamo entrati in un regime di perdita continua, nell’incessante emorragia di qualcosa che, nell’andar smarrito, non smette di strapparci a noi stessi. Siamo noi i fantasmi. Ed è la nostra vita, quella che non abbiamo mai vissuto, a metterci nostalgia. Non si tratta di ritornare a un qualche stato del mondo già visto nel passato e poi travolto dagli eventi, né di compensare la modernità abbandonandosi all’irrazionale e alle potenze primigenie e violente che la civiltà avrebbe imbrigliato[28]; ma di portare nel presente quelle istanze, quei sogni, quelle propensioni e quei desideri che, nel passato come nel presente, fanno segno a qualcos’altro, a un divenire che diverga tanto dalle crudeltà conosciute nella storia degli oppressi, quanto dall’insopportabilità del presente che ci è toccato in sorte.
Questo modo d’intendere il romanticismo comincia a chiarire quale filo abbiano seguito coloro che sono passati da iniziali posizioni fasciste a più tarde posizioni rivoluzionarie e libertarie[29]. In entrambi i momenti si trattava per costoro di fare i conti con ciò che manca nel presente, col senso di una perdita, entrando in conflitto con la configurazione del mondo che tale mancanza ha imposto e non cessa d’imporre. Al suo primo apparire il fascismo si presentò come una risposta facile (perché storicamente ignorante) al dolore del lutto, come il gesto che pretende di riafferrare subito l’oggetto smarrito senza fare i conti con le ombre, i vuoti, i silenzi e i fantasmi del soggetto; e con la delicatezza dei mondi. Tutte cose che s’imparano con l’esperienza.
L’appiattimento del romanticismo sul solo fascismo ha permesso, nel secondo dopoguerra, di squalificare qualsiasi istanza che non si presentasse, almeno in linea di principio, come favorevole al progresso, e di rendere astenico il pensiero rivoluzionario sfinendolo di scientismo, di razionalismo e di sospetto verso qualsiasi vera e incarnata non-modernità. Per interi decenni le resistenze “alla Polanyi” delle comunità invase dal capitalismo – fatte in nome della relazione con la terra, del buen vivir, del rispetto dei cimiteri – sono state sbeffeggiate come arcaismi[30]. Ancora oggi l’accelerazionismo pensa di essere rivoluzionario riproponendo il solito vecchio disprezzo per tutto ciò che è altro da noi. E chiunque affermi che il reale è molto più ampio e molteplice di quel che si vede nella veglia razionale viene irriso come sognatore, utopista, cripto-fascista o para-clericale.
Tutto questo fa segno alla nostra inconsapevole collusione con quella stessa modernità che, su un altro piano, volevamo combattere. Ma è una postura fattasi ormai impossibile da tenere: un po’ perché, a ben vedere, quello che arriva dalle scienze (comprese quelle hard) va risolutamente in tutt’altre direzioni; un po’ perché il miglior commento al progresso neoliberista è la diffusione degli antidepressivi; un altro po’ perché la crisi sistemica che stiamo attraversiamo permette, fra l’altro, di tornare a sentire il morso della vita, della sua eccedenza, dei suoi molti modi. Così, se da un lato non sorprende che l’eccellente operazione di marketing che va sotto il nome di “papa Francesco” goda oggi a sinistra di tanta popolarità, dall’altro lato è un segno propizio l’attuale convergere di una parte della tradizione rivoluzionaria con quanto si è elaborato, nel corso di un secolo e mezzo, all’incrocio fra mondi umani differenti: fra coloro che hanno capito che uniformarsi e ridurre significa, sempre e comunque, fare il gioco della modernità totalitaria[31].
§ 7. La Jugendbewegung aveva visto bene: nella modernità non si fa esperienza perché tutte le cose fondamentali sono già pre-giudicate o decise altrove. Scornati o gaudenti, siamo tenuti a subire l’incontro con il mare magnum del mondo anziché permettere all’attenzione, alla partecipazione, alla lotta e alla relazione di trasformarci in marinai che sanno entrare con le onde in una composizione di forze che le renda navigabili[32].
Ora, perché esperienza si dia è indispensabile che la forma umana che ci è stata data dai nostri tempi non sclerotizzi, che resti in contatto con la possibilità del mutamento e del divenire, che sia allentabile e rilavorabile. La conseguenza di gran lunga più grave dell’identificazione fra romanticismo e fascismo è stato l’abbandono del campo dell’ekstasis ai soli che non si sono mai fatti scrupoli a usarne e abusarne:
se i fascisti erano disposti, e notevolmente bravi, a sfruttare questi sogni, ciò non significa che il mito e la fantasia fossero necessariamente reazionari. Proprio al contrario: era la sinistra ad aver abbandonato questo terreno, dove la battaglia avrebbe dovuto svolgersi, le cui immagini contenevano i semi rivoluzionari che il terreno lavorato dalla dialettica marxista avrebbe potuto nutrire e far germogliare.[33]
Come tutto il romanticismo ha precocemente intuito, la posta in gioco nell’ekstasis è nulla meno che la possibilità del cambiamento soggettivo (esperienza) e comune (rivoluzione). Per questo dobbiamo riprendercela e per questo è urgente mettere a punto delle politiche dell’ekstasis che siano antitetiche a quelle fasciste.
Cominciamo, allora, con la constatazione della sua pericolosità: pura potenza, l’ekstasis porta con sé un’ambiguità pericolosa e ineliminabile, l’impossibilità di stabilire le parti una volta per tutte. Nessuno conosce a priori le proprie reazioni di fronte all’attrattiva del dominio, alla fusionalità regressiva, al cattivo uso della conoscenza, alla tentazione dell’annientamento; per tutti si aprono pericoli e lusinghe ignoti. Questo spesso disorienta e induce a derive dagli esiti incerti. Non essendovi nella dimensione ek-statica alcuna garanzia, l’unico discrimine possibile fra diversi modi di praticarla è l’intenzione di chi vi si muove.
Il fascismo è veloce a farvi incursione e abile nell’appropriarsene: nel dargli un nome, un senso, un valore. Sa come veicolarne la potenza per i propri fini (le adunate oceaniche, l’esaltazione eroica, l’irrazionalismo, la sessualizzazione del potere, la costruzione di percorsi affidabili verso la gloria); sa – come lo sa Hollywood – che un grammo di romanticismo rende potabili intere litrate di liquame. Insoddisfatto della piattezza del mondo, si avventura spavaldo nella zona che la modernità scotomizza, ma solo per compiervi la stessa operazione di riduzione a uno che il resto del romanticismo rimprovera alla modernità.
Sotto molti punti di vista, il fascismo è il figliol prodigo della modernità: impiega strumentalmente la nostalgia di un passato di gloria e l’audacia nel bazzicare i territori pericolosi dell’ebbrezza per portare l’individuo moderno alle estreme conseguenze: alla separazione di sé dagli altri non solo nella competizione e nell’indifferenza, ma fino nell’abuso, nella crudeltà e nella violenza. Se nel suo profondo monismo la modernità costeggia continuamente il totalitarismo – ovvero la piena e compiuta riduzione a uno della varietà del mondo, della vita e dei soggetti – allora il fascismo corrisponde al momento della totalizzazione dei regimi immaginari e pulsionali. Dell’ebbrezza ricerca il lato oscuro: il dominio, l’elitismo, la forza bruta che passa per la morte, il sangue, lo stupro. Proprio perché insostenibile, il suo ritratto più realistico è ancora Salò di Pasolini[34], dacché
il nazionalsocialismo fu un compimento, quello di gran lunga più terrificante, della metafisica dei Moderni.[35]
Il fascismo, in breve, ricerca nell’ekstasis la morte, l’innalzamento soggettivo nel dominio, l’annientamento dell’altro nell’asservimento e, infine, il godimento. È il famigerato «Viva la muerte!» dei miliziani spagnoli, sono i teschi, i falli, la mimica disumana del Duce, i parossismi del Führer. Corruptio optimi pessima: il rovescio dell’incanto è l’orrore – e i due possono continuamente convertirsi l’uno nell’altro. Questi elementi si ritrovano anche nel pericoloso peregrinare del Collège de Sociologie attorno a un rito sacrificale (per il quale, non a caso, si erano trovati volontari per il ruolo di immolato, ma nessuno per il ruolo di immolatore); e qui sta il baco elitista e individualista del surrealismo, prima traccia di un’antropologia che, nella seconda metà del secolo, verrà messa a servizio di un progetto di sistematico sfruttamento che porterà fino al “surrealismo di massa” della società dello spettacolo:
Alla conquista di una coscienza comune dello sfruttamento capace di mettere a fuoco individuazione e totalità, la surrealtà nichilista oppone un’antropologia signorile e trasgressiva. Un soggetto che è capace di innalzarsi, contro la banalità della vita quotidiana, nell’estasi dell’arbitrio, del male e della violenza; ma che conosce anche molti modi di fuggire da un presente da cui si sente tenuto in scacco: per esempio nell’allucinazione stupefacente, nella regressione verso forme degradate di sessualità compulsiva, nella contemplazione mistica dell’esotico. (…) Il suo insegnamento estetico, fatto di automatismi psichici e verbali, di sconnessione spazio temporale, di scardinamento logico del discorso, di estetizzazione dell’arbitrio, organizza ormai internamente la grande narrazione del capitalismo avanzato, che la impone ovunque in modo performativo.[36]
Come già alcuni hanno detto, c’è una certa continuità fra il fascismo storico e la soggettività neoliberista dei nostri giorni. Quale può essere allora, per i nuovi altri romantici, una politica dell’ekstatis all’altezza del rischio? Servono corrimano che ci permettano di restare solidamente, allegramente anti-moderni senza scivolare nell’irrazionalismo, nella violenza, nell’estetizzazione della morte, nella voluttà del sangue; e di avvicinarsi all’ebbrezza senza confonderci coi mestatori che, da molto tempo, ne fanno una forza della reazione.
Torniamo a Benjamin e vediamo come prosegue la sua analisi del surrealismo:
Conquistare le forze dell’ebbrezza per la rivoluzione: intorno a questo motivo ruota il surrealismo in tutti i suoi libri e le sue iniziative. Questo può essere definito il suo compito più proprio e specifico. Esso non consiste solo e semplicemente nel fatto che – come sappiamo – una componente di ebbrezza è presente e operante in ogni atto rivoluzionario. Essa è identica con quella anarchica. Ma mettere l’accento esclusivamente su di essa equivarrebbe a trascurare interamente la preparazione metodica e disciplinare della rivoluzione a favore di una prassi oscillante fra l’allenamento e i preparativi di una festa.[37]
La rivoluzione, e cioè il reincanto del mondo, è ciò a cui tende l’ekstasis utopica. Ha un caratteristico timbro felice, che è segno diagnostico affidabile[38], e va preparata: nel desiderio, nel sogno, nella prefigurazione. Perché non è vero che ciò che cade al di fuori della veglia raziocinante non ha metodo, non conosce misura e non ammette pratica. Solo che, qui, il metodo non viene prima del cammino a sbarrarne le deviazioni, ma dopo, a raccontarne le peripezie; la misura è relativa a coloro che misurano; e la pratica è intimamente connessa al rischio.
Ecco allora qualche provvisoria indicazione sentieristica:
(1) Mai scambiare l’ekstasis per il fine. Quando succede, essa si trasforma subito nella mezz’ora d’aria concessa a chi acconsente alla gabbia. (2) Usare l’ekstasis come operatore di molteplicità. L’alternativa alla modernità e al suo totalitarismo non è la barbarie, né un’ipotetica “modernità altra” altrettanto unificante, ma la molteplicità dei mondi esterni e di quelli interni: dallo zapatista queremos un mundo donde quepan mucho mundos all’io sono noi. (3) Esercitarsi. Sviluppare la capacità di avventurarsi in luoghi che portano con sé un’altissima carica di ambiguità e indecidibilità senza lasciarsi incantare dalle sirene. L’educazione – intesa come arte della canalizzazione potenziante – aiuta: non tutto è fatto per occhi umani. Imparare dal mito greco. (4) Attenzione alle cose piccole. È l’insensibilità che ci spinge a ricercare sensazioni estreme. Mondi interi si spalancano nelle pieghe del quotidiano, a saperli vedere. (5) Far buon uso delle virtù antiche. Nella dimensione ek-statica servono astuzia, pazienza, una buona dose di intelligenza e la capacità di intuire gli sviluppi. Studiare la metis dei greci, la saggezza di Aristotele, il paradigma indiziario secondo Ginzburg, l’analogia di Melandri. (6) Far buon uso del potere della conoscenza. Il problema non è il potere ma la sua sclerosi: il dominio. Nessuno conosce tutti i modi dell’ekstasis: in ciascuno di essi, usare come skipper chi ne ha più esperienza e accettare di essere skipper di che ne ha di meno. Infine la più importante: (7) Non per sé. Non si va «dove gli angeli esitano» per aggiungere una tacca sull’atlante dell’esotico, per sballo o per darsi arie una volta tornati a casa. Si va come rappresentanti di un gruppo a cercare un istante di preveggenza. A negoziare con le forze che, dentro di noi, ci piegano al meno peggio e all’acquiescenza. A prendere contatto con quello che si muove nella zona grigia che sta fra il mondo così come l’abbiamo costruito e conosciuto, e tutto ciò che del reale non conosciamo. A ristabilire i contatti con gli enti che popolano il nostro mondo e conoscere quelli che stanno sulla soglia dell’esistenza dei mondi.
La parola chiave è legame: in quelle lande le connessioni che ci tengono in vita (che sono la nostra vita) si fanno percepibili, crolla l’illusione drogata dell’in-dividuo autonomo e autosufficiente. Si arriva allo strato comune, alla struttura che connette. La tentazione di dominarlo, impossessarsene e distruggerlo fa parte della piega fascista. Il ricorso utopico-rivoluzionario all’ekstasis non cerca di farsi padrone delle forze che “stanno sotto”, ma di farsene amante.
Questo significa sviluppare un diverso rapporto col potere. Così come non cerca di appropriarsi delle forze dell’ekstasis, la corrente utopico-rivoluzionaria sa che le liberazioni sono tante quanti i differenti tipi di catene; che le catene sono tante quanti i possibili poteri; e che le rivoluzioni attraversano gli spazi organizzati per sospendere i rapporti di dominio e coazione in vigore entro un dato contesto, reincantandoli e trasformandoli in direzioni imprevedibili. Il futuro, quindi, non sta in nessun piano preordinabile a partire dal nostro presente asservito. Semmai, è qualcosa che ancora non conosciamo e a cui aspiriamo senza saperne il nome; qualcosa di cui non possiamo appropriarci, ma che si approprierà di noi e ci trasformerà. Ha più a che fare col sogno di un figlio che con il progetto per un centro commerciale. Nel femminismo black degli Stati Uniti lo hanno chiamato yearning:
Lo yearning è la protezione delle femministe che sono riuscite a resistere alla critica “demistificatrice”. Non è un punto fisso al quale aggrapparsi, in nome del quale lottare o enunciare i dilemmi insolubili (…). Esso è, semmai, un modo per disarticolare le catture, le scelte infernali, i dilemmi disperanti, per sentire che la sola cosa che importa veramente sono i cammini concreti e rischiosi attraverso cui potrebbero trovare senso le cose di cui ora si afferma l’impossibilità. È un modo per non accettare né la sottomissione né lo scontro, e per provare ad abitare una tangente.[39]
È il passo di danza con cui si accetta che l’altro – questo “altro” così desiderato e desiderabile – non nasca da noi o per noi, ma dalla situazione che è in grado di portarlo in essere, e di cui siamo parte. La nostalgica tristezza dei mostri, dei fantasmi e di tutti i daydreamers romantici altro non è se non un lunghissimo yearning: per un amore che inventa il suo nome, per un modo più alto dell’umanità, per un luogo che sia finalmente felice.
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[1] Foucault 1983; Pic 2013. La frequentazione ha lasciato poche tracce esplicite: per Benjamin e Adorno, v. i materiali raccolti in «Critique» 788-789, pp. 97-109; poi Klossowski 1952 e – per una versione attenuata dell’aneddoto, dove “fascismo” diventa “estetismo pre-fascisteggiante” – Klossowski 1969.
[2] Frank 2003.
[3] Palma 2014, p. 2.
[4] Benjamin 1935, p. ?.
[5] Löwy 1996.
[6] Benjamin 1928, p. 265.
[7] Simondon 1964-1989; v. anche Jesi 2013.
[8] Benjamin 1928, p. 265.
[9] Cit. in Lowy 1996, p. 17.
[10] V. ad es. il racconto della giovinezza di Adrian Leverkühn nel Dottor Faustus di Thomas Mann, le opere di Hermann Hesse e la peripezia umana e teorica di Jung.
[11] Benjamin 1933, p. 364-365.
[12] De Martino 1977.
[13] Polanyi 1944, Schorske 1980, Hobsbawm 1987.
[14] Coppo 2010.
[15] Derrida 1967; Schürmann 1996.
[16] Per un paragone fra prima e seconda mondializzazione, Berger 2003. Per le analogie fra gli anni Trenta e il presente, Di Vittorio et al. 2009.
[17] Taussig 1980, 1987; Parinetto 1998; Federici 2003; Rahnema & Robert 2008.
[18] Bazar elettrico 2017. E vale anche la pena di rileggere il passaggio originale: «Poiché l’Illuminismo è totalitario più di qualunque sistema. Non in ciò che gli hanno sempre rimproverato i suoi nemici romantici – metodo analitico, riduzione agli elementi, riflessione dissolvente – è la sua falsità, ma in ciò che per esso il processo è deciso in anticipo» (Horkheimer & Adorno 1944 e 1969, p. 32).
[19] Devo questa considerazione a una conversazione con Jean Levi nel luglio 2017.
[20] Blanchot 1983, p. 11.
[21] Ancora una volta Weber 1904-905, ma anche Mintz 1985.
[22] Löwy & Sayre 1992, p. 30.
[23] Löwy & Sayre 1992, p. 35-36.
[24] Löwy & Sayre 1992, p. 297-298.
[25] Löwy & Sayre 1992, p. 96.
[26] Löwy & Sayre 1992, p. 104. Esso si suddivide a sua volta, secondo gli autori, in una manciata di correnti: giacobino-democratica, populista, socialista e utopico-umanista, libertaria, marxista
[27] Poggio 2010, 2011.
[28] C’è un’aria di famiglia fra le sconsolate conclusioni del Freud più filosofico – quello del Disagio della civiltà e di Al di là del principio di piacere – e il feroce vitalismo fascista: in entrambi i casi, ciò che sta prima della messa forma individuale e civilizzata è letto esclusivamente come irrazionale, violento e crudele. E mentre in Freud, e più in generale nei conservatori, questo giustifica la necessità di “ingabbiare” i soggetti entro le maglie della civiltà per evitare che derivino verso il peggio, nel fascismo la forza di ciò che è selvaggio diventa giustificazione per la più truce brutalità mascherata da istinto.
[29] Senza dimenticare che l’attrattiva del fascismo presso le generazioni della Jugendbewegung veniva anche dallo stato deplorevole del pensiero materialista e rivoluzionario: Lo Piparo 1979.
[30] Silver 2003.
[31] Viveiros de Castro 2003; Consigliere 2014.
[32] Echi di Deleuze e dell’eretico Spinoza: queste due situazione corrispondono infatti a ciò che Deleuze, leggendo Spinoza, individua come conoscenza di primo e di secondo tipo (Deleuze 1978-1981).
[33] Taussig 1984, p. 89.
[34] Manna 2009.
[35] Lacoue-Labarthe 2002, p. 20.
[36] Balicco 2015.
[37] Benjamin 1928, p. 265.
[38] Pezzella 2009, Romiteli 2015, Tarì 2017.
[39] Pignarre & Stengers 2005, p. 60.