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UNITÀ TEMATICA N. 7
LA FORMAZIONE DEI SOGGETTI
INDIVIDUALI E COLLETTIVI

Sottotitolo descrittivo

Autore

Scipione Semeraro

COSTRUIRE L'UGUAGLIANZA
LIBERARE LE DIFFERENZE

da école, Officina. Idee per l'educazione, 31 dicembre, 2011.

 

Inviato il 1/06/2019




Viviamo in un tempo in cui il falso viene offerto come evidenza…    e si modifica profondamente la struttura di formazione del senso comune.  Alcuni concetti, messi sotto stress, cambiano connotazione di senso.  Voglio solo riferirmi a tre nozioni che aiutano a fare il punto: riforma, libertà, eguaglianza.  Riforma aveva sempre avuto un  significato progressivo, ora il suo abuso allude sempre a provvedimenti restrittivi, negativi per la condizione delle persone. inutile riferirsi alle “riforme” delle pensioni, della scuola, del lavoro…

Stessa sorte per la nozione di libertà: il senso più diffuso è quello di “libera volpe in libero pollaio” e infine l’eguaglianza. Il suo senso allude a qualcosa di vecchio, non più accettabile, retrò.

A noi interessa riconsiderare il valore dell’eguaglianza, sfuggendo alla confusione con l’uniformità. Insomma dovremmo rivisitare criticamente la coppia uguaglianza-differenze e soprattutto finalizzare questa ricerca ad una sua applicazione nella formazione.

Uguaglianza sta scritta nella nostra storia naturale, siamo esseri “per natura” uguali, soggetti di diritti universali. Nella stessa nostra storia naturale sta scritta la nostra unicità, fondata però, come tutti gli altri esseri, sulla diversità.

Nella nostra storia sociale è invece la radice della trasformazione delle diversità in diseguaglianza, cioè in una diversa collocazione delle persone, dei gruppi, delle etnie in diversità sociali con diritti disuguali.

Perseguire uguaglianza salvaguardando le differenze deve essere un progetto da affidare anche all’educazione. L’art.3 della nostra Costituzione è attenta a questo problema quando afferma che l’uguaglianza dei cittadini si afferma, non solo dando a tutti le stesse opportunità, ma quando, attivamente, si rimuovono gli impedimenti sociali ed economici alla realizzazione di questo obiettivo. E’ un’indicazione preziosa che ci mostra come la formazione pubblica, insieme ad altri strumenti, può concorrere alla realizzazione dell’uguaglianza e all’esaltazione delle differenze. Le diversità di genere, di cultura, di condizione sociale devono quindi transitare dall’essere fonte della discriminazione a ragione del valore dell’unicità della persona. Ecco il nodo tra uguaglianza e differenze, apparentemente in contraddizione, ma ambedue valori costitutivi della persona umana e dei diritti.

Come si diceva l’eguaglianza è sottoposta a una dannazione continua; i sostenitori della competizione conflittuale tra individui si mascherano dietro l’ideologia della uniformità, dell’egualitarismo come frustrazione della crescita personale. In verità questo atteggiamento nasconde la volontà di dominio e la perpetuazione del privilegio. E’ anche vero che molto spesso si agita la questione del merito come molla dell’acquisizione dei diritti. In verità la questione del merito intende denunciare le procedure di privilegio che ci fanno differenti e soprattutto slegano la questione del diritto dei singoli dalla responsabilità etica collettiva. Certamente giusta è la critica al collettivismo coattivo e ai risultati di impoverimento personale che la storia ci ha consegnato quando in nome del “bene” comune si è mortificata la centralità del valore della persona come singolarità.

Cosa può fare la scuola e la formazione in generale?

Vorrei esordire con una citazione da Bauman. Ci sono due stili personali che si possono perseguire. Avere esseri umani che somigliano a battellieri o persone che sono come naviganti. Apparentemente soggetti uguali. Stesse funzioni, navigare, governare barche e navi, raggiungere una meta. Ma i battellieri si muovono in un percorso necessario, la corrente del fiume li porta alla destinazione e nonostante ampie possibilità di navigare in maniera originale, sono in un sistema di riferimento chiuso e costringente. E’ dei naviganti invece la possibilità di navigazione in un sistema aperto, frutto di un progetto, una rotta volontariamente scelta, una navigazione libera anche se sovraccarica di rischio.

Libertà in un quadro predefinito oppure libertà di creare e inventare quello che non è mai stato sperimentato. L’esempio ci aiuta a capire la coppia uguaglianza e differenze, come spazio personale della creatività e dell’invenzione.

Sicuramente la tendenza degli individui è l’affidamento all’autorità esterna, garante di sicurezza, una libertà vigilata, che cede sovranità sulla propria vita in cambio della certezza delle routines e della sicurezza.

In questa prospettiva solo l’eguaglianza può diventare condizione dello sviluppo delle differenze personali, solo uno scenario di diritti assoluti può offrire l’opportunità di essere unicità in una società di eguali.

La formazione è uno strumento potente per questa navigazione. In passato l’analfabetismo era considerato come deficit di accesso ai processi di conoscenza e di progettazione delle libertà. La richiesta del diritto allo studio ne seguiva. Ma come è possibile che oggi pure l’accesso, formalmente garantito, all’istruzione non ci renda più liberi e uguali. Non esiste più la possibilità di usare la formazione come strumento di mobilità sociale. E allora bisogna riconsiderare il nodo da cui dipende la nostra incultura, il nostro deficit di sapere critico.

Penso che sia importante considerare quanto sia oggi mutato il soggetto che forma il senso comune e organizza l’orizzonte simbolico delle persone. Nasciamo e cresciamo in un universo di simboli e di senso già ampiamente dato e organizzato. Quando ci accostiamo ai sistemi formali della formazione siamo già portatori di una cultura inconsapevole, ma fortemente radicata. L’immersione nella società dei consumi, lunga quanto la vita stessa, ci espone in maniera pervasiva ad un sistema mondo già costituito, fatto di quantità immense di informazioni, senso delle cose, valori e qualità della vita. Se a scuola aggiungiamo in maniera massiva altre informazioni a queste già possedute, non produciamo nuove capacità critiche ma spesso solo conferme del sistema simbolico esistente. L’analfabestimo per paradosso diventa una variabile dipendente più dall’eccedenza informativa e simbolica, piuttosto che dal deficit tradizionale di saperi.

Non esiste sistema educativo, né luogo di trasmissione di valori e di comportamenti tanto pervasivo quanto l’esposizione al sistema complesso e articolato delle merci. Nasciamo in quel reticolo simbolico e dalle merci riceviamo le gerarchie di valore, i nessi interpretativi delle cose e degli altri esseri umani.

Un tempo l’educazione era un portare con mano dal non sapere alla conoscenza le persone, soprattutto i piccoli. Oggi questo non è più, siamo da sempre collocati nel mezzo di un sapere e di una cultura organizzata, non solo nell’occidente consumista; consumare e/o desiderare hanno dimensione globale, costituiscono un linguaggio universale.

Per questa ragione il moderno analfabetismo deriva più dall’eccedenza delle informazioni e dei simboli che dalla loro privazione.

I saperi, come le merci, ingorgano e creano un rumore di fondo in cui non è facile acquisire un sapere utile e critico.

Una pedagogia efficace dovrebbe, in ogni epoca della vita, decostruire criticamente quest’ambiente affollato di “saperi” e simboli.

Forse in questo contesto va cercato il nodo cruciale della crisi “educativa” della famiglia, della scuola e di ogni altro soggetto che intenda, in ogni epoca della vita, comunicare un suo sistema di interpretazione del mondo.

Non solo quindi le merci, consumate e/o desiderate, insegnano molte cose del mondo e regolano l’orizzonte della realtà, ma esse stesse trasmettono un senso e stabiliscono relazioni tra le persone. Si aggiunga che la cultura, in quanto merce, posseduta, acquistata, scambiata, non sfugge a questa dimensione “totalitaria” dei processi di formazione del senso comune.

Per reagire all’analfabetismo da eccedenza si deve considerare la cultura come una paziente operazione di scomposizione, ricostruzione delle nozioni, ricomposizione critica delle informazioni, risistemazione delle gerarchie di valori, un’abitudine a considerarne la genealogia. Per capire perché ho un’opinione, devo sapere come e perché si è formata.

La magia e la miseria delle merci sta nell’essere realtà senza svelare il processo di produzione, il lavoro, la sofferenza, lo sforzo, il costo che ne permettono l’esistenza.

I processi di formazione della cultura, come il vero sapere critico, devono fare i conti con la genealogia, la storia e l’origine, della realtà presente, unica condizione per non subirla e poterla liberamente cambiare e determinare. La crisi della democrazia ha molto a che vedere con questo stare acriticamente in un mondo già tutto dato, in cui le informazioni e i saperi, per il fatto stesso che sono trasmessi, assumono verità e credibilità. Sempre più il potere sta nelle mani di chi riesce a manipolare e governare l’universo dei simboli e delle merci.

Una ricostruzione dei saperi condotta in cooperazione critica con gli altri, in una rete che si alimenta di dubbi e di domande è l’unico antidoto a una tendenza che ci fa apparentemente più istruiti ma in verità più fragili nella conoscenza e nella capacità d’interpretazione della realtà. Anche il bisogno di trovare un’identità nel sacro e nella trascendenza è un segno di un indebolimento generale della conoscenza critica e dell’opprimente mercificazione del sapere. Quanto lo è l’asservimento della scienza al mercato.

Così, nel declino della curiosità e dell’indagine critica, viene a mancare alla società una possibilità fondamentale di liberazione e autodeterminazione.

Il sistema delle informazioni ci modella come battellieri eterodiretti e segna l’insuccesso facilmente registrabile dei sistemi formativi, istituzioni elefantiache quanto impotenti a realizzare uguaglianza e sviluppare differenze. La società dei consumi, non solo quelli acquisiti materialmente, ma anche quelli solo desiderati, modella il nostro contesto di vita. Ci rende liberi di essere uniformi. Liberi di scegliere in un orizzonte ferreo e insuperabile. Cerchiamo l’individualità adattandoci alla massificazione, delle mode, dei comportamenti, dei valori, delle aspirazioni. Siamo eccentrici, ma sempre più simili e uniformi.

La scuola potrebbe essere un antidoto, ma non ci riesce, anzi spesso consolida e rafforza questo sistema simbolico. La rivoluzione restauratrici della destra ha ampiamente consolidato questo processo di formazione del senso comune e antropologicamente ha prodotto un profilo di individui liberamente differenti e però sempre più omologati.

La formazione scolastica può risultare uno strumento adatto ad esaltare il plus, il valore aggiunto dell’apprendimento critico rispetto all’amplificazione analogica del senso comune operata dai mass-media.

Essa può offrire lo spazio per la potenziale commutazione innovativa dei valori, creando così le condizioni per un’esperienza conoscitiva produttiva di significati nuovi e creativi.

A questo scopo si può attingere copiosamente all’esperienza pedagogica del movimento della cooperazione educativa, originale esperienza europea sviluppatasi sulle orme di Freinet. La cooperazione educativa va al di là di una ricetta per una buona pratica educativa, essa riposiziona il rapporto tra formazione e tecnologie comunicative disponibili e soprattutto riconosce alla cooperazione un primato di efficienza, oltre e contro la competizione. Tema oggi largamente comprovato dalla diffusione del movimento per il freesoftware, esempio importante di produzione di saperi e tecniche efficaci capaci di imporsi come nuovo parametro industriale.

Noi e la scuola non sappiamo decostruire questo scenario e questo credo debba essere il progetto che ci deve guidare.

Propria qui sta il rapporto tra “un’ontologia” ugualitaria e le storie personali che liberano le differenze e ci rendono unici e creativi nello stare al mondo.

Per realizzare questa torsione antropologica bisogna agire più in profondità di quanto sappia fare la politica, anche quando consapevolmente volesse prendersi questo impegno.

Nella scuola le idee hanno bisogno di didattiche, di tecniche e processi concreti.

Ho accennato al metodo della decostruzione come progetto culturale. Questo mi sembra un primo utile passo. In uno scenario in cui la non cultura e l’analfabetismo è risultato di eccedenza informativa, considerare la scuola come luogo esclusivo di apprendimento di “altri” saperi oltre quelli posseduti, non funziona. Decostruzione mette in luce l’idea di un cultura che prima di offrire altro sapere, smonta i saperi, i valori, il senso delle cose già posseduto. Sembra solo un lavoro al negativo, in verità decostruire significa riordinare il mondo simbolico, rimetterlo a disposizione delle costruzioni culturali individuali.

Decostruire significa anche introdurre un’altra tecnica didattica potente, la pratica della genealogia. Ogni sapere ha un suo percorso di generazione. Conoscerlo significa controllare la tenuta e il valore delle conoscenze.

Bisognerebbe inventare pratiche di esercizio della “genealogia”, della memoria e della storia. La scuola è sempre stata ammalata della divisione ideologica tra le due culture, la storicità e la scienza, l’occasionalità della produzione storica e il determinismo dei fatti scientifici. Non si coglie a sufficienza e non si insegna quanto la storia umana, per quanto apparentemente caotica, può essere colta con l’individuazione di strutture profonde, scientificamente rappresentabili e per altro verso come la scienza non si spiega senza il suo costante rapporto con la società e la storia. La didattica della genealogia è un percorso fecondo per correggere questa distorsione tra le “due culture”.

Il terzo terreno di ricerca dovrebbe essere quello che guarda alla globalizzazione come nuova estensione della vita individuale. Già Marx aveva previsto che lo viluppo del capitale avrebbe distrutto i localismi e “l’idiotismo”. Questa previsione si è fatta realtà, ma si è accompagnata ad una torsione verso un nuovo idiotismo e comunitarismo. Il presente globale cerca l’identità nella razza, nella terra, nell’appartenenza, si scopre costretta in una guerra delle civiltà. Questa dimensione catastrofica deve e può essere corretta con un’educazione alla mondialità, alla cittadinanza universale, che non è mai data  come dimensione innata e che quindi deve essere appresa e insegnata.

Infine dobbiamo pensare a come si insegna e si apprende la pratica dell’immaginazione, del progetto di futuro. L’analfabetismo da eccedenza ci amputa del passato e del futuro e distorce l’esperienza del presente. L’eclisse della politica ha qui le sue radici, ti convince dell’immutabilità della situazione presente e la durezza rocciosa della realtà contribuisce ad oscurare la speranza del mutamento.