Articolo, 2019.
L’umanità, quindi, sta affrontando, in maniera sparsa, confusa e spesso con scelte contraddittorie, il passaggio aperto dalla crisi del 2008. Manca una consapevolezza politica della fase di transizione e dei cambiamenti del “fare politico” che si impongono durante una fase di transizione.
La forma della dimensione politica che caratterizzò la struttura delle democrazie occidentali, si disgrega per fattori convergenti. Da un lato i processi decisionali indotti dalla economia globalizzata (l’esperienza della seconda guerra mondiale aveva consegnato la consapevolezza che il mantenimento di sistemi economici autarchici avrebbero ricondotto il mondo verso ulteriori guerre sempre più generalizzate. L’impossibilità, infatti, di garantire al processo di accumulazione capitalistico margini di crescita all’interno di un singolo territorio, l’impossibilità per il sistema capitalistico di vivere in equilibrio e l’obbligo alla crescita, fu risolto nella scelta di una economia globale, illudendosi che il territorio “mondo” sarebbe stato sufficientemente grande per garantire aree di privilegio e aree di sfruttamento e aree di crisi “locali” sufficienti a mantenere lo sviluppo in alcune aree del mondo (i paesi del G-5).
(la forza prodotta dalla necessità di organismi in grado di rispondere alle nuove forme di produzione)
; un passaggio in cui alcuni fattori reali e molti prodotti artificialmente proprio sul piano della “costruzione del senso”, si agganciano alle potenti leve della logica della “sopravvivenza”. Accanto a tali processi, stenta ad emergere una leadership che sappia dispiegare una prospettiva “altra” rispetto alla crisi del sistema e che poggi sulla analisi di quadro che i processi reali producono nei corpi sociali.
Questa incapacità è condizionata non solo dalla potenza degli interessi in campo e dalla loro complessità, ma anche dalla confusione generata dall’incapacità di uscire dal quadro ideologico precedente. In particolare, dalla capacità di abbandonare lo schema ideologico della globalizzazione, quello secondo cui fossero possibili scelte “senza interessi di parte”. Una impostazione ideologica del “buon governo” definibile, in via semplicistica, come “buonista”. Era lo schema illusorio e immerso della ideologia dominante, per cui i processi politici e le scelte, anche quelle di tipo amministrativo, erano possibili e giuste in maniera indifferenziata, nell’interesse di tutti. La crisi e la differenza di risposta che le diverse classi sociali di appartenenza garantiscono all’interno della articolata composizione sociale, rendono nuovamente chiaro che ogni atto sia frutto di interessi, addirittura privati e personali, e la percezione dell’esclusione dalle tutele aumenta a dismisura.
Servirebbe, invece, l’emersione di una leadership forte, in grado di iniziare a spiegare che il mondo che pre-esisteva alla crisi non tornerà mai più; che il mondo sta andando di fronte a cambiamenti strutturali; che le scelte effettuate dalla politica sono sempre di parte e se c’è chi guadagna o è garantito da una soluzione, lo è a scapito di altri pezzi di società e persone. Servirebbe iniziare a spiegare che il pianeta sta iniziando a mostrare – con il suo “linguaggio” e ancora timidamente – cosa significa la fine degli equilibri ambientali distrutti da 150 anni di industrializzazione. Servirebbe un gruppo dirigente che sappia prendere in mano il senso del processo di digitalizzazione e virarlo verso una fuoriuscita di tipo “sociale”. Un governo dei processi di innovazione che trasformi gli impatti della “Digital Disruption” in opportunità di cambiamento sistemico del fare umano. Servirebbe una leadership che, per prima cosa, sappia raccontare come siamo caduti, in 100 anni, nel pozzo nero del ricatto della “logica finanziaria” (quella che fa dire, agli “amministratori di turno” della cosa pubblica, cose come: “se non ti/vi comporti/ate in questo modo, chi detiene il controllo della moneta è in grado di strozzarti/ci” per poi tentare di spacciare come soluzioni che salvifiche, scelte che servano solo alle logiche di funzionamento della finanza). Servirebbe una leadership che spieghi la sua idea di dimensione democratica in relazione ai poteri esistenti all’interno degli assetti istituzionali fondanti le democrazie occidentali. Una leadership che espliciti il superamento della tripartizione dei poteri ereditati dalla spinta illuministica e proponga la codifica di un nuovo punto di mediazione tra i poteri reali esistenti.
Senza questo passaggio dovremmo ammettere che la democrazia sia entrata in un’altra fase della storia, quella del suo irrimediabile declino.
Il centro del mio intervento è proprio questo: da più di cento anni la democrazia come l’abbiamo conosciuta e immaginata non è più quella. Il sovranismo e il populismo sono i contraccolpi sistemici di un dimensione complessa che si trova tra l’inganno di un racconto che non tiene più e la realtà di una riduzione di protezione sociale ed economica che non dipendono (solo) da questo inganno.
Detto in altre parole: la risposta sovranista e populista non può essere sconfitta attraverso la perpetuazione di un inganno sulla vera natura delle nostre società (cosa che le sinistre continuano a non vedere e a non comprendere). Ma la crisi sistemica che il mondo sta vivendo non trova risposta nella ricostruzione né di territori sovrani né dalla rottura delle interdipendenze costruite nella rottura dei confini nazionali o tribali degli ultimi due secoli.
Il dibattito dovrebbe essere affrontato attraverso la capacità di far emergere ciò che viene oscurato della realtà. Lo scontro tra governo giallo-verde e istituzioni europee, per restare con un punto di partenza tutto italiano, dovrebbe consentirci di aprire un dibattito sulla natura delle nostre democrazie. Questo non per concessione alla cultura del Sovranismo e non solo per necessità di indicare da che parte “schierarci” nel confronto. Se non si comprende la natura profonda del passaggio che stiamo vivendo, non possiamo affrontare e scegliere le soluzioni utili e necessarie.