da Luigi Lombardi Vallauri, Scritti animali, Capitolo XI, Gesualdo Edizioni, Gesualdo 2018.
1. Una quasi esplosione storico-culturale e normativa
La questione animale, fino a poco tempo fa periferica e sollevata quasi solo da animalisti militanti, occupa ormai spazi sempre più ampi e centrali, anzitutto in etica, ma anche in filosofia della mente, in antropologia, nelle agende ecologica, economica, di “giustizia alimentare internazionale”, medica (per le critiche sempre più forti alla scientificità della sperimentazione animale), dietetica e perfino gastronomica: diciamo in molti e rilevanti campi del pregiuridico. Inoltre, e in conseguenza, gli ultimi decenni hanno propiziato un’espansione impressionante della questione animale proprio in campo giuridico: chi confronti, operando due sezioni sincroniche, il diritto animale del 1990 e il diritto animale del 2014 in Italia e in Europa non può non constatare, diacronicamente, una fruttificazione forse superiore a quella di ogni altro ramo dell’albero del diritto. Ovviamente il pregiuridico è necessario al giurista per segnalargli almeno alcuni dei moventi culturali profondi dell’evoluzione normativa: moventi che in quanto recepiti dal diritto possono fornire all’interprete valide rationes da soppesare quando la littera si presenti o semanticamente ambigua o casisticamente vaga.
Il corpus iuris animale è ormai così articolato e complesso da meritare, a mio giudizio, l’istituzione di cattedre apposite, un po’ come è accaduto per la bioetica e il diritto dell’ambiente: si tratta di un insieme normativo al tempo stesso specifico, non ricomprensibile senza forzature in sovrainsiemi troppo generici, e ramificato in quasi tutti i settori del pensiero giuridico: dal diritto costituzionale al diritto civile, dal diritto penale al diritto amministrativo, dalla scienza della legislazione al diritto comparato e alla filosofia del diritto. Senza contare la stratificazione per livelli: Unione Europea, Stati nazionali, regioni, province, comuni, ognuno dotato di autonoma competenza normativa. Non direi che l’istituzione di cattedre universitarie di diritto animale sia, anche in questi tempi di penuria, un multiplicare entia sine necessitate. In attesa di cattedre stabili, ritengo proponibile fin d’ora l’istituzione di corsi universitari di diritto animale. Interesserebbero studenti di più dipartimenti: Giurisprudenza, Scienze politiche, Economia, Lettere e Filosofia, Medicina, Scienze naturali e Biologia, Agraria, Veterinaria. Il loro argomento concerne anche: a) professionisti operanti a vario titolo nel settore (agricoltori, piccoli allevatori; gestori di allevamenti/trasporti/impianti di macellazione industriali; ristoranti e alberghi; imprese di abbigliamento a base animale; laboratori di ricerca e allevamenti di cavie per i medesimi); b) cacciatori, pescatori; c) addetti ai controlli (le guardie zoofile, il corpo forestale e di vigilanza ambientale, la polizia stradale e giudiziaria, i carabinieri, i sorveglianti di parchi e aree protette); d) le associazioni animaliste, gli insegnanti di scuole elementari e medie responsabili dell’educazione etica e ambientale; e) almeno indirettamente tutti i cittadini, a cominciare dai milioni di proprietari di animali da compagnia. Ritengo che un corso di diritto animale, per il suo carattere al tempo stesso plausibile e innovativo, costituirebbe un fiore all’occhiello dell’ateneo che osasse, saggiamente, istituirlo.
2. Le ragioni, etiche in senso lato, dell’animalismo
Gli animali sono meritevoli di tutela in base a due criteri: il valore e la soggettività. Il loro valore è quello di bioarchitetture meravigliose per ingegneria transrobotica, grazia, mistero, sconfinata fantasia; vivificano con la propria presenza i paesaggi e gli ecosistemi, ispirano potentemente, in tutte le culture, l’autocomprensione dell’uomo. La tutela in base al valore, che riconosce loro lo status di beni comparabili ad altri beni ambientali o ai beni culturali tipo chiesetta romanica, s’iscrive nel quadro più ampio della tutela della biodiversità: difendere contro l’invasione antropocentrica moderna la bellezza/ricchezza immemoriale del mondo! L’uomo sempre più autorecluso in geometrie urbane di asfalto/cemento/vetro, sempre più avvinto ai tre fatali video-audio vitreometallici TV/computer/telefonino onnipotente, non realizza quello che perde invadendo di sé e desertificando l’innumerevole, miliardario in anni, lascito della natura. Gli animali meritano curiosità, celebrazione, ammirazione; ci sono tanti mondi quante le specie animali.
La soggettività si accerta attraverso lo studio dei sistemi nervosi centrali e dei comportamenti (biologia, neurologia, etologia). Segnatamente i vertebrati sono esseri senzienti, comunicanti, in grado di soffrire, godere, apprendere, provare affetti, emozioni, sviluppare capacità: doti che in condizioni favorevoli si manifestano pienamente ma che subiscono una mortificazione quasi totale nella dismisura della violenza cui le vittime sono sottoposte dentro gli allevamenti intensivi, gli impianti di macellazione, i laboratori di sperimentazione/vivisezione.
Di fronte all’attuale barbarie sarebbe comunque preferibile uno scenario vita degna-morte indolore; preferibile ma non aproblematico, in quanto la privazione di una vita degna massimizza il danno. Un responsabile di lager nazista, Stangl, alla domanda: “Ma perché li trattavate così male?” ha risposto: “Per poterli uccidere”. Uccidere un’ebrea elegante, profumata, che studia fisica teorica e la sera ha un appuntamento amoroso è più difficile che abbattere un’ebrea scheletro vivente in pigiama concentrazionario a strisce. In un allevamento intensivo, come in un lager, la messa a morte può somigliare a un’eutanasia.
All’animalismo ambientalista (del valore) e all’animalismo animalista (della soggettività) è importante affiancare un animalismo umanista, in difesa dell’onore dell’uomo. L’uomo è disonorato dal modo in cui tratta gli animali. Non è propizio all’umanità organizzare industrialmente la macellazione. Non è “sviluppo della persona” (art. 3, comma 2 della Costituzione italiana) confinare in contenitori invivibili, sgozzare, decapitare, spellare, eviscerare, fare a pezzi corpi di animali, servirsi per cibo, vestito, dei loro corpi reificati. L’imperativo di pietà e giustizia si estende anche sul carnefice, non solo sulla vittima. Nel Gorgia di Platone, alla domanda se sia peggio subire ingiustizia o commetterla, Socrate (vincendo come sempre sul contraddittore) risponde che è peggio commetterla, perché la vittima è incolpevole. Noblesse oblige: la nobiltà crea doveri, non privilegi. I due animalismi sono sinergici: più è vero, darwinianamente, che gli animali sono senzienti e intelligenti, più sono gravi i doveri dell’uomo nei loro confronti; più è vero che l’uomo supera gli animali non umani in razionalità e spiritualità (nessun animale avrebbe potuto scrivere il Gorgia), più sono gravi i suoi doveri nei loro confronti. E dunque un animalismo anche di “pietà per il boia”: per l’operaio messicano costretto a lavorare in stivali di gomma nel liquame di merda da stress e di sangue, ma ancor più per il capo della sua azienda macellatrice di decine di milioni di maiali all’anno e inquinatrice di decine di migliaia di chilometri di corsi d’acqua dolce e di ettari di terra. E dunque un animalismo anche di pietà per i cacciatori, pescatori sportivi, allevatori intensivi, macellatori, vivisettori; per i “buongustai” sprofondati nella lettura del menu e per i macellai, salumieri, formaggiai, gastronomi, cuochi al loro servizio; per gli “eleganti” e per i sarti, pellai, pellicciai, calzolai, borsai, stilisti, industriali e commercianti dell’abbigliamento al loro servizio; per gli armaioli, i fabbricanti di arnesi da pesca, i produttori di trappole e altri aggeggi crudeli, di veleni atrocemente dolorosi funzionali alla derattizzazione o all’agricoltura... “Pietà per il boia”, certo, ma anche pietà-severità per noi che mangiando, vestendoci, curandoci a occhi e cuore chiusi rimuoviamo la cognizione del dolore.
Come esperimento letterario proporrei una legge che istituisse, per i carnivori, due settimane all’anno di servizio carnefice obbligatorio: sarebbe consapevolizzante, e poi non mi sembra giusto nel senso di ugualitario dividere l’umanità in buongustai spensierati (nonnini arzilli davanti alla bistecca) e boia di professione.
Il quarto e ultimo animalismo, anch’esso umanista, lo chiamerei animalismo spirituale. Non conosco una tradizione ascetica-mistica che promuova o approvi la “virtù” della violenza. Per limitarmi all’orizzonte indiano (yoga, buddismo, giainismo) nessun uso violento degli animali non necessario, cioè finalizzato principalmente al piacere (kāma) o al guadagno (artha), è “dharmico”, perché il dharma include come elemento essenziale la nonviolenza (ahiṃsā), l’amore-compassione universale (karuṇā). La violenza sugli esseri senzienti, sia quella consapevole e culturalmente/religiosamente legittimata, sia quella non consapevole, perpetrata per abitudine e psicologicamente rimossa, viene ritenuta un ostacolo sulla via verso la liberazione sapienziale (mokṣa), verso la mente dell’illuminazione-beatitudine, che non è concepibile come egoica e priva di partecipe empatia. Nell’alveo cruento delle religioni e delle civiltà, la nonviolenza è come un filo di acqua pura che non si confonde al fiume di sangue della storia. Forse è più un appello che un precetto; ma un appello in sintonia con una razionalità profonda, corroborato, oggi, anche da discipline così poco ascetiche come l’economia, la geopolitica, il diritto ambientale, la lotta contro il crimine, la dietetica. Per Capitini la nonviolenza è “attivissima moltiplicazione d’attenzione [...], potenziamento della vita interiore [...]. Il vegetarianismo, per esempio [...], questa sospensione introdotta nella leggerezza sterminatrice e nella freddezza utilitaria, si riflette in accrescimento di valore interiore”. E sempre imperfetta, perché è l’iniziativa di un vivente e la vita è per definizione l’autoasserzione di un sistema a spese dei sistemi circostanti; tuttavia la sua coscienza di imperfezione la consuma e affina. E interessante, ma non può essere sviluppato qui, che almeno in uno dei filoni della spiritualità nonviolenta la “grande compassione” sia stata associata vitalmente all’esaltazione erotica, alla “grande concupiscenza” (mahārāga): la spiritualità non estingue necessariamente la passione per la vita.
Alle quattro ragioni etico-generali dell’animalismo si possono aggiungere alcune ragioni etico-specifiche del veganismo: ragioni ecologiche (ecologico-estetiche, ecologico-igieniche, ecologico-economiche); ragioni economiche in senso tecnico (PIL, esternalità caricate sui beni comuni e conseguente natura fittizia del prezzo apparentemente basso dei prodotti animali industriali); ragioni sociali (più mangiano animali i ricchi, meno hanno da mangiare i poveri; il passaggio dei nuovi ricchi al carnivorismo accresce la fame umana nel mondo); ragioni dietetiche (la dieta vegan fatta bene è la più vicina alla dieta ideale per la salute e la longevità umana); e forse perfino ragioni gastronomiche (il passaggio al vegan complica un po’ il cucinare, ma fa anche scoprire che le piante e le loro combinazioni sono più varie delle carni e delle loro combinazioni). Decisivo - “categorico” nel senso kantiano - è comunque l’argomento etico.
3. Testimonianze, tendenze, tensioni del diritto animale vigente
Considero il diritto un “intellettuale pesante”, lento nel muoversi ma che quando si muove non è affetto dalla graziosa “légèreté”, tipica di molti mobilissimi intellettuali medi. Ora questo intellettuale probante sembra, nel nostro campo, addirittura anticipare i mores, forse più vicino alle avanguardie coscienti che alla massa inerziale della popolazione.
Tengo presente soprattutto l’ordinamento italiano, che d’altra parte è rappresentativo del diritto comune europeo perché nasce quasi tutto dalla recezione di testi formulati in sede di Consiglio d’Europa o di Unione. E nel diritto italiano privilegio le norme concernenti gli animali in quanto esseri senzienti, tutelati in base alla soggettività, rispetto a quelle concernenti le specie minacciate di estinzione, tutelate in base al valore biodiversità o come componenti di ecosistemi pregiati oggetto di tutela appunto sistemica e dunque indifferente alla sorte, fisica e psicologica, dell’animale singolo. Privilegio insomma il diritto animale animalista rispetto al diritto animale ambientalista.
All’interno di questo corpus normativo compirò due operazioni principali. Anzitutto selezionerò i passi che valgono come testimonianze rese dall’intellettuale Diritto a favore della coscienza/sensibilità/intelligenza animale, suddividendole in implicite ed esplicite: le prime si desumono da termini (come “protezione”) e da disposizioni strutturali il cui senso, nel contesto, è chiaramente quello di tutelare non solo il corpo, ma anche la soggettività animale; le seconde consistono in aperti riconoscimenti della soggettività animale stessa. Metterò poi in cruda luce le tensioni, se non contraddizioni, tra queste testimonianze, che possono valere come principii generali dell’ordinamento giuridico, e le norme che legittimano la reificazione violenta degli animali.
3.1. Testimonianze implicite
Praticamente tutte le norme concernenti: 1) gli animali selvatici, 2) l’allevamento, il trasporto, la macellazione, la sottoposizione a sperimentazione/vivisezione degli animali domestici, 3) il rapporto con gli animali da compagnia/affezione, usano il termine “protezione” a indicare lo scopo o la ratio delle norme stesse. Un esempio tra i tanti: è intitolato “Protezione degli animali negli allevamenti” il d.l. 26.3.2001/146 che può considerarsi la Magna Carta in materia, di cui sono applicazioni alle diverse specie i decreti sulla protezione dei vitelli (1992), delle galline ovaiole (2003), dei suini (2004) e la direttiva sulla protezione dei polli da carne (2007). Quasi sempre il legislatore parla di norme “minime” di protezione, lasciando aperta la possibilità di tecniche di maggior tutela.
Ma più ancora della terminologia “protezione” conta, tra le testimonianze implicite, quella che chiamerei la struttura probante oggettiva delle disposizioni la cui ratio evidente è appunto garantire un minimo di protezione, un minimo di benessere specie-specifico agli animali utilizzati. Penso a cose come il divieto di “usare a fini di richiamo uccelli vivi accecati o mutilati”, di “usare esche o bocconi avvelenati, [...] trappole, reti, tagliole”, di “esercitare in qualunque forma il tiro a volo su uccelli”; l’obbligo di “accurata ispezione” dello stato di salute dell’animale “almeno una volta al giorno nel caso di animali tenuti nei moderni sistemi di allevamento intensivo”; l’obbligo di individuare “metodi alternativi all’alimentazione forzata per anatre e oche”; il divieto della “bruciatura dei tendini e del taglio di ali per i volatili e di code per i bovini”; il divieto “della spiumatura di volatili vivi”; l’esigenza che il taglio del becco delle galline ovaiole, consentito al fine di “prevenire plumofagia e cannibalismo”, sia effettuato da “personale qualificato su pulcini di età inferiore a dieci giorni”; l’esigenza che la castrazione e il mozzamento della coda dopo il settimo giorno di vita dei suini siano “effettuati unicamente da parte di un veterinario sotto anestesia e con somministrazione prolungata di analgesici”; l’obbligo fatto agli Stati membri dell’Unione Europea di garantire “che la densità massima (dei polli da carne) [...] non superi in alcun momento 33 kg/mq”. Il Regolamento (CE) n. 1/2005 (Protezione degli animali durante il trasporto e le operazioni correlate), di gran lunga il testo più ampio sulla protezione degli animali, tratta in dettaglio ogni aspetto concernente durata dei trasporti, qualificazione dei trasportatori, spazi, temperatura, ventilazione, acqua, alimenti, riposo, ispezioni e controlli veterinari, eventuale abbattimento in modo umanitario o eutanasia, divieto di azioni brutali e antietologiche. Altre norme limitano in qualche misura la sofferenza degli animali macellati prescrivendo lo stordimento previo mediante pistola a proiettile captivo e l’uccisione per dissanguamento “rapido, profuso e completo”. Osservazioni analoghe possono farsi sulla struttura probante dei testi normativi in materia di sperimentazione/vivisezione e di trattamento dei pet da compagnia.
3.2. Testimonianze esplicite
Sono impressionanti per quantità e per articolata precisione e multilateralità. Mi limito a elencare, in ordine alfabetico, una parte dei termini che fanno inequivoco riferimento alla soggettività/senzienza degli animali: analgesici, anestesia, angoscia; benessere, bisogni fisiologici ed etologici; conoscenza, coscienza, crudeltà; disagio, dolore; esigenze, esseri senzienti, eutanasia; lavori insopportabili; maltrattamento; sensibilità, sevizie, sofferenza, sofferenza fisica e psicologica, gravi sofferenze, sofferenze fisiche e morali, spavento, strazio, stress; timore; uccisione eutanasica.
Qui la norma più esplicita è il d.l. n. 116/1992 (Protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali o ad altri fini scientifici), che usa correntemente la formula “dolore, sofferenza, angoscia” e le sue componenti (“angoscia” ricorre almeno dieci volte) e che è particolarmente probante perché il contesto di riferimento, ben più della caccia e della macellazione, è rigorosamente scientifico. La triade “dolore, sofferenza, angoscia” ricorre decine di volte nella Direttiva UE n. 63/2010 sulla sperimentazione con animali.
3.3. Il “principio generale” ancipite
Le norme di protezione sono una delle tre radici normative che alimentano il “principio generale” (nel senso dato al termine dall’articolo 12 delle preleggi al codice civile) “agisci in modo da non causare agli animali dolore/danno non utile/non necessario”. L’evidenza è schiacciante. Per il diritto positivo europeo, questo intellettuale pesante che rappresenta centinaia di milioni di cittadini uniti nel più grandioso crogiolo politico della storia, a) sul piano del fatto, o della ragione teoretica, gli animali sono esseri dotati di soggettività senziente, capaci di provare benessere e malessere, dolore anche grave o atroce, ripugnanze e preferenze coscienti; b) sul piano del valore, o della ragione pratica, i dominatori umani sono tenuti come minimo a non causare loro sofferenze inutili o evitabili, a garantirgli, in positivo, tutto il benessere compatibile con la loro sorte di schiavi o di strumenti.
Le altre due radici del principio sono il titolo IX-bis del libro II del codice penale (Dei delitti contro il sentimento per gli animali) entrato in vigore nel 2004, e l’articolo 13 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, entrato in vigore nel 2009. Il primo punisce col carcere e con pene pecuniarie chi uccide o maltratta animali senza necessità, il secondo stabilisce che in tutte le loro attività “l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti” (enfasi mie). Dato il rango paracostituzionale del trattato di Lisbona, l’articolo impone al giurista europeo un’interpretazione costituzionalmente orientata di tutto il diritto animale, sia comunitario che nazionale e regionale/locale.
Il principio è ancipite: vieta di causare dolore inutile/innecessario, autorizza a causare dolore utile/necessario. L’utilità/necessità in questione è nella stragrande maggioranza dei casi umana. Se l’animale, per riprendere la formula kantiana, va trattato “anche come fine, non solo come mezzo”, il trattamento “anche come fine” consiste quasi solo nell’esigenza che l’animale sia trattato solo come mezzo, non peggio ancora di un mezzo. Il dolore inutile/innecessario sembra essere quello inflitto ulteriormente alla dose che ne serve per l’uso corretto, funzionale, del mezzo in quanto mezzo.
3.4. Le tensioni/contraddizioni/antinomie
È chiaro che le tensioni, se non contraddizioni, si manifestano già all’interno del principio stesso in quanto appunto ancipite: si confrontano, si affrontano, i due valori antitetici soggettività animale e utilità/necessità umana. Ma ognuna delle leggi positive da noi menzionate è affetta dallo stesso genere di problema: i polli da carne vanno “protetti” in quanto esseri senzienti che sono esseri da carne e da profitto. E ovviamente c’è tensione fortissima tra il principio nella sua facies animalista e le norme che autorizzano l’inflizione di sofferenza e danno agli animali, tanto da suggerire l’ipotesi (se con norme “eccezionali” ai sensi dell’articolo 14 delle preleggi al codice civile s’intendono le norme contrarie a un principio generale) che le stesse norme cosiddette di protezione siano “eccezionali” nella loro facies antropocentrica.
La contraddizione più palesemente stridente del sistema è quella tra le norme del titolo IX-bis del codice penale, che sanzionano, anche col carcere, l’uccisione e il maltrattamento di animali “senza necessità”, e l’articolo 19-ter delle disposizioni di coordinamento del medesimo codice, ai sensi del quale “le disposizioni del titolo IX-bis del libro II del codice penale non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, di pesca, di allevamento, di trasporto, di macellazione degli animali, di sperimentazione scientifica sugli stessi”. La legge, faciens candida de nigris (Ovidio), trasforma la quasi totalità delle uccisioni ontologiche e dei maltrattamenti ontologici in non uccisioni giuridiche e in non maltrattamenti giuridici: la caccia non è uccisione né maltrattamento, la pesca idem, gli allevamenti intensivi non sono maltrattamenti, la macellazione non è né maltrattamento né uccisione, la vivisezione idem. C’è scontro frontale tra diritto e ontologia. E anche tra diritto e ragionevolezza: tutti gli interventi distruttivi sugli animali devono, in quanto previsti dalle leggi speciali, presumersi aureolati di “necessità”.
Attraverso il 19-ter l’eccezione diventa enormemente più regolare della regola! Una così massiccia deroga della legge speciale alla legge generale (che comprende anche il paracostituzionale articolo 13 del Trattato di Lisbona) rappresenta un’anomalia sistemica difficilmente tollerabile. Sembrano essere colpite le piccole brutalità/crudeltà artigianali, eccettuate le immense strutture industriali della carneficina/sevizia legittima, speciale, “necessaria”. Qui la tensione è vicina alla contraddizione o all’antinomia.
Menziono ancora qualche tensione minore. La prima riguarda i selvatici. Il diritto opera una discriminazione radicale tra i selvatici rari e i selvatici comuni: i primi sono protetti, sulla carta, con grande sollecitudine, i secondi possono essere uccisi a volontà e sottoposti a piani ufficiali di decimazione. Il fondamento della tutela dei primi non è il rispetto della soggettività animale, ma – come abbiamo visto – l’interesse estetico-ecologico per la biodiversità, per la bio-ricchezza dei sistemi naturali. I selvatici rari sono tutelati non in quanto soggetti ma in quanto beni, più o meno come vengono tutelati i beni ambientali non senzienti (paesaggi, pietre, piante) e i beni culturali (chiesette romaniche). Questa vistosa discriminazione a favore dei selvatici rari non si concilia col fatto della pari soggettività di rari e comuni: l’agonia di un cinghiale non è meno letale e dolorosa di quella di una tartaruga delle Galapagos o di un panda a rischio di estinzione. La caccia e la pesca “sportive”, questi due passatempi giuridicamente permessi, sono un crudele cagionare la morte senza necessità che è difficile conciliare con l’articolo 13 del Trattato di Lisbona e con il 544-bis del codice penale italiano.
Una seconda tensione o contraddizione, ben più grave, riguarda gli animali domestici. Il diritto positivo opera una discriminazione radicale tra animali da compagnia/affezione e animali da reddito/macellazione. Basta confrontare il regime previsto, per i primi, dalla l. n. 281/1991 e dal nuovo articolo 727 del codice penale sull’abbandono di animali domestici e la detenzione dei medesimi in condizioni incompatibili con la loro natura, al regime giuridico degli allevamenti intensivi e della macellazione. La sollecitudine per gli animali da compagnia/affezione (che siano tali in quanto specie, come i cani e i gatti, o in base al rapporto individualmente instaurato con padroni umani) scava un abisso tra loro e la popolazione dei mattatoi, sanziona un razzismo smisurato tra animali di famiglia, di casa, e animali da reddito, che non ha fondamento ontologico ed etologico e che dunque, ancora una volta, è difficile conciliare non solo con il principio giuridico positivo del rispetto degli esseri senzienti, ma anche con l’esigenza diceologica generale dell’uguale trattamento degli uguali.
I profili quantitativi abnormi, moltiplicati per la brutalità complessiva estrema del trattamento anche quando conforme alle norme di protezione, fanno del processo allevamenti intensivi-trasporti-macellazione (ivi compreso il circuito della produzione, comunque violenta e cruenta, di uova e latticini) il luogo di massima tensione o contraddizione del diritto animale: i principi giuridici positivi che affermano la meritevolezza di tutela degli esseri senzienti si scontrano frontalmente con quello che io chiamo il macigno macellazione.
3.5. Suggerimenti ermeneutici
Di fronte al reperto testuale antinomico si pone il problema dell’interpretazione sistematica. Proprio il diritto animale mi ha suggerito di introdurre nella panoplia dell’argomentazione giuridica un’interpretazione che chiamerei diacronica. Essa consisterebbe, discernendo la tendenza del diritto lungo il tempo, nel dare un ragionevole maggior peso al valore che mostri, per così dire, di guadagnare terreno. Si tratta, nella terminologia che sono solito adottare, di una species del genus interpretazione evolutiva sistematica secondo la ratio. All’interno del genus, l’interpretazione diacronica sarebbe specificata appunto dalla considerazione del divenire. La species più comune dell’interpretazione evolutiva sistematica è sincronica, riporta tutte le norme, considerandole contemporanee, al momento dell’interpretazione. La species diacronica aggiunge, in base all’osservazione del passato, la considerazione della tendenza vincente e per ciò stesso del probabile avvenire. Sotto quest’ultimo profilo la si può iscrivere nel quadro della versione secondo me più convincente del realismo giuridico.
Ora non ci sono dubbi, come abbiamo visto, che la tendenza del diritto negli ultimi decenni è stata, univoca, verso un accresciuto riconoscimento della soggettività animale. E se la coscienza sociale ha rilievo per l’interpretazione delle norme giuridiche, l’interprete non può non tenere conto di una chiara tendenza nello stesso senso dell’etica pubblica o largamente condivisa. Il diritto e l’ethos storico-positivi sono entrambi, diacronicamente, sempre più animalisti.
Questo dato potrebbe suggerire addirittura l’ipotesi, cui ho già accennato, che le norme autorizzatrici della violenza stiano diventando “eccezionali” ai sensi dell’articolo 14 delle preleggi al codice civile e quindi non suscettibili di applicazione, estensiva o analogica, oltre i casi e i tempi in esse considerati; o che eventuali norme nuove aggravanti la dolorosità delle condizioni riservate agli animali debbano ritenersi non valide e da non applicarsi perché antinomiche al diritto risultante dall’interpretazione sistematica diacronica.
Ma a parte queste ipotesi un po’ osées, risulta con certezza, da tutto il discorso fin qui condotto, che nei casi dubbi il “bilanciamento” tra i valori “soggettività animale” e “utilità umana” deve essere effettuato a favore della soggettività animale. L’osservazione diacronica della giurisprudenza italiana in materia di diritto animale ne dà conferma.
In attesa di ulteriori, necessari interventi legislativi, l’assedio ermeneutico del giurista alla scandalosa eccezione-regola delle leggi speciali può farsi più stringente avvicinando per quanto possibile il regime normativo dei discriminati a quello dei privilegiati, e comunque denunciando con vigile assiduità quelli che io chiamo (con riferimento all’articolo 544-ter del codice penale) i maltrattamenti compiuti all’interno degli pseudo-nonmaltrattamenti: i maltrattamenti dei cacciatori non consistenti nel solo cacciare, i maltrattamenti dei pescatori non consistenti nel solo pescare, i maltrattamenti degli allevatori intensivi non consistenti nel solo intensivo allevare, i maltrattamenti dei macellatori non consistenti nel solo macellare, i maltrattamenti degli sperimentatori/vivisettori non consistenti nel solo sperimentare/vivisezionare. La violenza può essere asintoticamente ridotta erodendo, in base ai principi generali, i margini dei maltrattamenti permessi dalle leggi speciali.
Al filosofo il travaglio della legislazione animale può forse ispirare una sorrisa meditazione sul diritto, questa flessibile essenza.
Inviato il 17/05/2019