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UNITÀ TEMATICA N. 4
POLITICHE URBANE
E DIFFERENZA DI GENERE

Autore

Aldo Ceccoli

LA CASA UN DIRITTO UMANO

 

Inviato il 7/04/2019




Introduzione all'incontro su "Edilizia residenziale pubblica e abitare collaborativo". Giardino dei Ciliegi – Ipazia, 24 novembre 2018. (*)


Il contesto.  Desideriamo precisare che il problema della casa per tutti/e non può essere separato dal tipo di città che vogliamo e che questo è a sua volta collegato al tipo di società che intendiamo contribuire a costruire. Per noi diritti umani e diritti urbani sono interconnessi.

Vorrei accennare brevemente al contesto nel quale si svolge questa giornata di riflessione. Va ricordato che negli ultimi decenni si realizza, con le privatizzazioni, il più grande trasferimento di ricchezza nella storia del Paese. La privatizzazione del sistema bancario fa da apripista alla privatizzazione del sistema industriale pubblico. La managerialità pubblica è così dispersa al vento e lo Stato perde ogni capacità di visione strategica. La grande ritirata dello Stato coinvolge anche il governo delle città consegnandole al potere degli immobiliaristi, determinandone la privatizzazione totale. Dalle ceneri del pubblico nasce l’urbanistica dell’esclusione  e si ha una pletora di amministratori locali che ragionano da privati speculatori. E il diritto alla casa scompare come tanti altri diritti.

Nel corso di questi anni abbiamo avuto lo svuotamento del governo locale attraverso le politiche di austerità e il dominio della rendita. Si sono tagliati i fondi ai Comuni, centinaia sono in crisi finanziarie. Inoltre si dimentica che in 174 Comuni risultano ancora attivi 342 contratti derivati per un valore di oltre 17 miliardi. Si sono imposte severe misure di rientro, propedeutiche alla dismissione del patrimonio pubblico oltre ai tagli del personale, alla spesa sociale, agli aumenti delle tariffe, e alla privatizzazione dei servizi. A nessuno è venuto in mente – come ha scritto di recente Marco Bersani - di proporre ai Comuni di diluire i propri debiti in comode rate mensili chiudendo la partita in 81 anni, come si è fatto per i 49 milioni di euro che il partito della Lega deve restituire allo Stato.

 

La rendita immobiliare non è un concetto astratto, ma esprime un blocco d’interessi che lega proprietari fondiari, imprese di costruzione e banche, che ha decretato la fine dell’edilizia economica e popolare, contribuendo a falcidiare il reddito delle famiglie per i crescenti costi dell’abitare[1]. Dunque i Comuni andrebbero liberati dal debito e dalla rendita.

Sul piano economico siamo sempre dentro una sostanziale stagnazione, mentre torna a salire il tasso di disoccupazione (tornato ai primi di novembre 2018 sopra il 10%) e cresce il lavoro instabile. Diminuisce il potere di acquisto di stipendi, salari e pensioni, abbiamo 5 milioni di poveri assoluti e 18 milioni a rischio povertà. Né il taglio delle tasse alle imprese - comprese le società di capitali-  né il cosiddetto reddito di cittadinanza sono strumenti capaci di sanare la piaga della crescente povertà e della disoccupazione[2]. La retorica del cambiamento a tinte nazionaliste, il decreto sicurezza, i condoni fiscali ed edilizi, il DDL Pillon, mostrano chiaramente – a mio parere -  dove conducono i partiti post-ideologici che si dichiarano né di destra né di sinistra.

 

Dunque la casa come diritto umano va contro le dinamiche sociali, politiche, economiche, istituzionali, culturali che caratterizzano l’attuale sociale-storico. Malgrado ciò  l’Alessandria multietnica di Ipazia, città del Mediterraneo, dove tre continenti si affacciano, continua a parlarci di città da ridisegnare, di una democrazia da rifondare, di un cammino di civilizzazione da riprendere.

 

Per questo torniamo allo sciopero del 1969.

Il 19 novembre 1969 si svolse in tutta Italia, per iniziativa delle tre confederazioni sindacali nazionali, lo sciopero generale per la casa. La piattaforma poneva per la prima volta la questione degli alloggi pubblici e delle città al centro dell’iniziativa sindacale. Da allora mai più! Nel 1971 venne approvata dal Parlamento la legge sulla Casa n. 865. Nel 1977 la Legge Bucalossi[3] facilitava il governo pubblico delle città; nel 1978 si ha il piano decennale sulla casa, ed è dell’agosto dello stesso anno la legge sull’equo canone. Sono passati 50 anni  e tutta l’architettura  che tendeva a dare una risposta ai bisogni delle fasce popolari, pezzo dopo pezzo, è stata demolita. E la parte più disagiata della società è stata letteralmente abbandonata a se stessa[4]. I vari piani casa, che si sono succeduti da Berlusconi a Renzi, sono piani per i costruttori, non sono politiche abitative[5].

Fino al 1990 venivano costruite in media 18.000 case popolari all’anno. Negli anni Novanta si scende a 10.000. Nel decennio 2000-2010 si supera di poco le 5 mila. A Roma, ad esempio,  l’amministrazione assegna 490 case popolari all’anno: a questo ritmo ci vorrebbe circa 35 anni per smaltire l’attuale lista di richiedenti che risulta di 16.000 nuclei. Quali le ragioni di questo stallo?

I dati ufficiali del censimento Istat del 2011 parlano di un fabbisogno di circa 1 milione di case di edilizia pubblica; si è invece costruito 1,5 milioni di case al solo uso e consumo della speculazione immobiliare e della rendita. Nello stesso periodo dal 2001 al 2011 abbiamo avuto 400 mila famiglie sfrattate e 600.000 in graduatoria. La società privata “Nomisma”[6] dice che ci sono 1,6 milioni di famiglie a rischio o in disagio abitativo per mancanza di intervento pubblico e nessuno sembra tenerne conto.

 

Sappiamo che il 90% degli sfratti in Italia è per morosità ed è nelle città medie come Modena Barletta Pescara Imperia Prato Savona Cosenza Taranto Rimini Bergamo, Brescia. Siamo quindi di fronte al problema che affligge quel 20% di esclusi dalla corsa alla proprietà. Per il popolo degli affitti la casa è un problema serio: immigranti, richiedenti asilo, rom, abitanti di baraccopoli, i senza fissa dimora definiscono l’area estrema della marginalità urbana. A questi vanno aggiunti lavoratori precari, lavoratori-poveri, famiglie a basso reddito, copie che si creano o che si lasciano, coloro che si muovono da una città all’altra per lunghi periodi, come ad esempio gli studenti, i medici o coloro che si spostano, in maggioranza da Sud a Nord per cercare lavoro. Tutta questa varia umanità si scontra con il mercato delle locazioni insufficiente e con costi irrigiditi verso l’alto[7]. È questa molteplicità che permetterebbe di reimpostare i termini della questione del welfare abitativo e porre in discussione il primato della logica proprietaria. Ed è questo stesso variegato universo che consentirebbe anche di porre fine ai quartieri monoclasse che per Vittorio Emiliani erano una vergogna da cancellare, come scriveva nel lontano 1970 sul quotidiano Il Giorno[8].

Va considerato dunque che la casa non è un problema emergenziale, ma si tratta di una questione strutturale, con forti implicazioni sul reddito, sullo sviluppo, sull’ambiente, sulla qualità urbana, sui rapporti sociali. Per affrontare il disagio abitativo e le nuove domande abitative, la chiave di volta è uno spostamento del baricentro delle politiche abitative dalla proprietà all’affitto.

 

Le politiche abitative devono rispondere  alle esigenze di tutti i segmenti della precarietà e le città devono migliorare la qualità della vita senza aspettare la distribuzione del reddito (Alejandro Aravena)[9].

Vi è o no bisogno di un piano-casa nazionale e comunale come iniziativa prioritaria?

Come si affronta il progressivo impoverimento della società e la precarietà del lavoro, che rendono pressoché impossibile acquistare casa ma non accedere all’edilizia sociale e popolare?

Serve rivedere il mercato delle locazioni, compresa la loro tassazione?

E’ possibile una collaborazione tra l’edilizia pubblica e l’housing sociale in modo da calmierare un mercato che è in mano al privato soprattutto nel settore degli affitti?[10]

Ascolteremo con attenzione tutto ciò che emergerà da questa giornata anche perché vorremmo elaborare un documento sulla casa come diritto umano da inviare ad alcuni partiti e al pulviscolo della Sinistra. E invitiamo tutte/i, compresi i relatore, ad aiutarci in questo intento.

 

 

 

[1] Il blocco edilizio conserva vigorosamente il suo dominio che neppure la crisi in cui siamo immersi da dieci anni ha intaccato. A Roma, probabilmente con maggiore chiarezza che in altre realtà, il “blocco edilizio”, ha determinato in modo esclusivo le modalità e i tempi di espansione della città. Non ha caso in occasione della vicenda della nuova giunta Raggi, Vezio De Lucia sosteneva che a Roma non si è mai rotto il patto tra amministratori e lobby del mattone.

[2] A questo proposito recenti studi dell’Ocse hanno evidenziato che negli ultimi vent’anni, in paesi come l’Italia, la crescita economica sarebbe stata di 6-9 punti in più se non fosse aumentata la disparità tra i redditi. Vi sarebbe quindi bisogno di più salario, più lavoro stabile, più investimenti pubblici, più progressività fiscale rompendo con il sistema fiscale liberista e tornando a quello previsto dalla nostra Carta Costituzionale.

[3] Il 24 luglio 1982 il quotidiano La Repubblica a pag. 29 da notizia che la Cassazione – in base alla legge Bucalossi – ha definitivamente stabilità che è reato cambiare l’uso di un immobile  in violazione della legge urbanistica e senza l’assenso della pubblica amministrazione. Nelle motivazioni della sentenza la Cassazione mette in evidenza come da tutto il complesso della legislazione urbanistica ed edilizia entrata in vigore nell’ultimo quarantennio, si può ricavare la regola che è lo strumento normativo quello che decide, fra tutte le possibilità, la destinazione d’uso dei suoli e degli edifici di tutto il territorio comunale. Quindi, il mutamento di destinazione d’uso dell’immobile senza autorizzazione da parte dell’autorità comunale deve ritenersi inammissibile, proprio perché altera il complessivo assetto del territorio che tale autorità è tenuta a mettere a punto attraverso gli strumenti urbanistici. Con ampi riferimenti a tutta la legislazione urbanistica vigente la Cassazione ricorda che “in tutti i Comuni devono essere osservati rapporti massimi fra spazi riservati destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio. In base a queste direttive l’organizzazione del territorio comunale si attua con il coordinamento delle varie destinazioni d’uso, in tutte le loro possibili relazioni, e con l’assegnazione ad ogni singola destinazione d’uso di determinate qualità e quantità di servizi”. Quindi secondo la sentenza, sono perciò da considerarsi reato tutte quelle trasformazioni urbanistiche ed edilizie che “incidendo negativamente sull’organizzazione dei servizi predisposti in relazione alle destinazioni d’uso, modifichino queste ultime”. Va ricordato che l’obbligo della licenza edilizia per le costruzioni comprese nei centri abitati e fuori dai centri abitati è resa obbligatoria con la legge n. 765 del 1967.

[4] Mentre i tecnici inventavano il neologismo dell’hausing sociale, e cioè case da destinare a famiglie che potevano permettersi di accede ad un mutuo fondiario.

[5] Ora la parola magica è “rigenerazione urbana”. È sufficiente considerare degradati edifici o pezzi di città per abbatterli e sostituirli con nuove costruzioni. Con l’alibi della limitazione di consumo di suolo si decreta la morte dell’urbanistica e del governo del territorio. Tra le pieghe della rigenerazione urbana si nascondono pratiche assai diverse: opere di demolizione e ricostruzione di singoli edifici con annesso premio di cubatura o della superficie utile esistente, fino ad interventi che riguardano aree dismesse e abbandonate, che è possibile realizzare con un semplice accordo tra privati e Comune in deroga agli strumenti urbanistici vigenti; giustificando tali procedure si fa riferimento alla presunta rigidità degli strumenti urbanistici e rilanciare il settore dell’edilizia per far ripartire il Paese. L’espressione “rigenerazione urbana viene introdotta nell’ambito del Piano Casa, più precisamente nella “Intesa tra Stato e Regioni” nell’aprile 2009 in pieno governo Berlusconi.

[6] Nomisma S.p.A. è una società di consulenza fondata nel 1981 a Bologna da un gruppo di economisti, tra cui Romano Prodi, con il sostegno di alcune banche o grandi organismi economici [1]. Oggi gli azionisticomprendono istituzioni finanziarie e gruppi imprenditoriali italiani ed esteri.

[7] Già nel 2009 Il Sunia-CGIL evidenziava come negli ultimi dieci anni il canone di locazione in Italia era aumentato in media del 130%. Gli esperti dicevano che l’unica via era quella di mettere sul mercato nuovi alloggi in affitto, possibilmente a canone sociale.

[8] Il Giorno voluto da Enrico Mattei appare nelle edicole il 21 aprile 1956 e raggiunse nel 1959 una vendita di 150.000 copie che nel 1971 una vendita media di 244.000. La proprietà era detenuta per il 49% dall’Eni, 49% dall’Iri e il 2% da Ministero delle Partecipazioni Statali: era dunque un quotidiano di proprietà dello Stato in concorrenza con il dominio del Corriere della Sera.

[9] L’architetto cileno Alejandro Aravena, al Festival “Urbania” di Bologna 29-31 gennaio del 2009. Aravena è direttore di Elemental Chile, una società che si occupa di edilizia popolare con l’obiettivo di rimodellare le città e soprattutto l’edilizia destinata ai più poveri. Intervista curata da Lucia Tozzi (Il manifesto del 31 gennaio 2009).

[10] Con il 20% del patrimonio abitativo complessivo in affitto,l’Italia ha la quota più bassa d’Europa: nei Paesi Bassi il 60% del costruito è in locazione, in Germania è il 57%, in Francia il 43, in Gb il 31.

 

 

(*) Questa giornata coincide con l’importante manifestazione a Roma di “Non una di meno” che come Giardino e Ipazia condividiamo e sosteniamo, tuttavia per esigenze organizzative non potevamo fare altrimenti.