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UNITÀ TEMATICA N. 4
POLITICHE URBANE
E DIFFERENZA DI GENERE

Autore

Donald Moerdiyk

L’URBANITÀ

La sua rottura, deformazione, distruzione e necessità della sua rinascita

 

Inviato il 4/04/2019

da Aldo Ceccoli




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Assumiamo la nozione di «urbanità» per cercare di capire lo stato presente della città. È, questa, una nozione trasversale: l’urbanità permette di legare campi e discipline diversi, sia scientifici (geografia, storia, psicologia, ecc.), sia artistici (architettura, letteratura, ecc.), che di solito vengono considerati in base a categorie separate nel discorso, benché siano organicamente interconnesse nella realtà. E di piú: il termine «urbanità» può essere “declinato” in vari modi (suburbanità, sovrurbanità, posturbanità) e permette di identificare varianti storiche, di scoprire forme emergenti (iperurbanità, ipersuburbanità, postsuburbanità) e di esaminare possibilità non ancora in atto.

Ma compiamo prima una dislocazione spaziale e temporale, all’estremità del continente africano. Nel 1976 comincia a Soweto, nel Sudafrica, il progressivo manifestarsi di un’epifania, una rivelazione di nuove possibilità, all’inizio cupe, come quelle della Seconda guerra mondiale (Auschwitz, Hiroshima), ma che via via si illuminano nel procedere della sollevazione: fine del regime di segregazione, inizio della fine della suburbanità. Gli abitanti delle sterminate baraccopoli e misere periferie della piú grande città sudafricana insorgono contro la privazione di urbanità: la forza che vince l’apartheid è quella che si può definire un’urbanità militante, ed è questa che, nel 1994, arriva a porre fine al segregazionismo.

Si cercherà di delineare l’arco storico che si estende dalla disgregazione della città classica fino a questo momento, che segna l’inizio della fine della segregazione urbana, con la comparsa di uno spazio di tipo nuovo[1], che rimanda all’antica urbanità, e riprende e ripropone quella ancora sussistente, ma sempre piú minacciata.

 

L’urbanità e la sua prima rottura

Definiamo che cosa si intende con «urbanità»: un modo di vivere (concepire, trattare, produrre e riprodurre) lo spazio e il tempo. È il modo della città, in contrasto con la rusticità: una convivenza ricca, con frequentazioni e contatti vari, vissuti non solo con interesse, ma anche con serenità.

Il lettore italiano, specie toscano, sa ciò molto bene – per cui ci limiteremo a rilevarne le implicazioni spaziali e temporali –, ossia conosce quel sentimento di solidarietà e quasi di con-naturalità, non solo fra il cittadino e la cittadinanza, ma soprattutto fra questa e il “fabbricato” della città – sentito come corpo materiale, in qualche misura una sorta di “exocorpo”[2], in cui pare vivere la storia della città (come la storia di una famiglia vive nei nonni) –, e il cittadino vive, inoltre, la città come un teatro, e ne vive le vicende e faccende come un dramma.

Tutto questo non è però da idealizzare: fin dall’inizio (ossia dalla ripresa delle città in Italia durante il Medioevo) non mancano contrasti, tutti i cittadini vivono insieme nella città (per esempio, a diversi piani di uno stesso palazzo), ma si distinguono chiaramente – «popolo grasso», «popolo minuto» – e sono socialmente divisi. Il corpo è unito, ma non affatto uniforme, né tantomeno privo di tensioni; tuttavia, nonostante durissime lotte sociali, rimane relativamente compatto nell’opposizione ai signori feudali, che controllano le campagne – e infatti i non pochi cittadini esuli non rinunciano mai alla loro cittadinanza.

Nel paese – il borgo agricolo – tutti si conoscono: spazi e tempi sono ben noti, la “trasparenza” tende a essere totale. È cosí che il paese radica i propri abitanti al proprio suolo (ma senza legarli alla gleba, al contrario della condizione dei servi feudali). La città “ammorbidisce” questo attaccamento, ma senza abolirlo. Nella città, non tutti si conoscono; lo potrebbero, però questa conoscibilità resta potenziale, perché, per il singolo cittadino, gran parte degli spazi e tempi altrui rimane ignota. In questo senso «la città rende liberi», come diceva Hegel: elimina il controllo totale di ognuno da parte di tutti. Tuttavia, poiché una conoscenza adeguata è sempre possibile – benché piú o meno improbabile (a seconda dell’importanza e delle dimensioni della città) –, le radici comuni rimangono. Ebbene, l’urbanità è precisamente questa combinazione di libertà e di radicamento, che mantiene una convivenza civile e sviluppa una civiltà che ricorda quella della città del Mondo antico, greco e romano.

In seguito, questa urbanità si modifica: la città dallo spazio conoscibile diventa, invece, la Parigi labirintica analizzata da Balzac, poi la città “tentacolare”, percorsa dal flaneur Baudelaire, che, trepidante e affascinato, non riesce a staccarsene.

La prima “incrinatura” spaziale avviene con il primo Rinascimento: i mercanti arricchiti si distaccano dalla città, costruendo ville nei dintorni per distanziarsi dai cittadini “comuni” – imitano gli antichi patrizi, sebbene si distinguano chiaramente dai signori feudali, perché, tramite l’introduzione della mezzadria, modificano il modo di produzione. Le ville medicee, forse anche il platonismo, ben esemplificano questa prima fuga fuori della città, alla ricerca di una “tranquillità” lontana da tensioni e tumulti.

Questo spostamento verso le periferie suburbane crea un modello ideale, la villeggiatura, che verrà adottato piú tardi dal ceto medio e che si dispiegherà fino ai giorni nostri, ricoprendo la maggior parte dei paesi sviluppati e delineando un modo di vita che si estende, tendenzialmente, a tutto il pianeta. Ma, perché si determini tale estensione, dovrà subentrare un intervento di tutt’altro genere.

Per svilupparsi, la cultura urbana aveva bisogno di date condizioni sociali, e dunque politiche. Infatti, se la solidarietà sociale era ben lungi dall’essere totale, tuttavia, con la prosperità, si andava sviluppando una certa uguaglianza, tendendo verso un orizzonte ideale, piú o meno presente nella coscienza della cittadinanza. Ed è precisamente tale orizzonte che scompare con la caduta delle repubbliche cittadine (urbane) a seguito dell’intervento delle potenze imperiali (francese e germano-ispanica), le quali sostituiscono a esse dei principati. Le ultime libertà repubblicane scompaiono dall’Italia durante la prima metà del Cinquecento; nell’altro focolare di urbanità, i Paesi Bassi, le libertà vengono salvaguardate, ma al duro prezzo della trasformazione delle città libere in uno Stato imperiale.

 

La suburbanità

Nel nuovo contesto, la vita urbana viene a essere alterata. In primo luogo, il principe si circonda di uno spazio vuoto, instaurando uno iato fra sé e il popolo. Questa trasformazione si legge chiaramente, per esempio, a Firenze, andando a Palazzo Pitti, che si erge, autoritario e intimidente, con il suo massiccio bugnato, fra una vasta piazza e un rigido giardino formale; oppure a Siena, dove la fortezza medicea sta attaccata come una possente mina ai fianchi della città. Le angosce di questa trasformazione si scorgono nelle opere dei massimi toscani dell’epoca: da Machiavelli – che si applica a pensare sia la vecchia repubblica, sia il nuovo principato – all’irrequieto Michelangelo – che avverte balenare un eroismo, che si dissolve, poi, in un incubo.

La cultura mira ormai a mitificare il primus alle spese dei pares, identificando il principe con gli eroi antichi, fondatori della città e simboli del genio urbano: la pittura del Vasari, artista di Stato, ne è l’espressione piú evidente. La città scompare dietro i fasti della Corte; l’urbanità viene riconfigurata come cortesia. Dopo Machiavelli verrà il Castiglione: il nucleo dell’urbanità si traduce in una maniera, che si verrà riducendo a complimenti e modi distinti. A questa prima fase manierista succede quella barocca dell’Assolutismo: ciò che conta, in Italia e ovunque, non è piú il pincipe, ma l’imperatore, il papa, il re. Roma, sotto Sisto I, e Parigi, sotto Luigi XIV, vengono riconfigurate in modo radicale: la città intera è ristrutturata come teatro della potenza, attraversata da prospettive che mettono in scena i monumenti, simboleggiando lo splendore sovrumano del sovrano, quale rappresentante non piú della comunità urbana – come in qualche modo lo furono pur sempre i primi Medici, per esempio –, ma di Dio stesso. Questo “megateatro” viene riassunto nel “microteatro”, il nuovo teatro all’italiana, che costituirà, fino al Novecento, il modello della visibilità, della visione, e dell’intelligibilità europea. In questo tipo di teatro si formalizza il senso politico della prospettiva (pertanto della nuova scienza ottica e, implicitamente, della scienza nel suo complesso): solo dal palco reale si può percepire l’intero palcoscenico; da ogni altro posto, angoli morti impediscono una visione completa. Solo lo sguardo del sovrano si estende al mondo e avvolge tutto; soltanto da questo centro si possono capire integralmente tutte le dimensioni dell’azione, l’insieme dei fatti e gesti dell’umanità.

Cosí si compie la rottura della città, della sua unità materiale, sociale e culturale. Con questa spaccatura si distacca dalla cittadinanza una «classe dirigente», con interessi propri, distinti da quelli del resto della città e sempre piú opposti.

In Inghilterra, paese dove l’urbanità, anche in precedenza, non era mai stata molto sviluppata – perché l’aristocrazia terriera aveva conservato non solo il primato politico, ma anche quello culturale –, questa «classe dirigente» si colloca a un distacco tale che le permette di imporre le durissime condizioni dell’industrializzazione. E questa separazione si generalizzerà nel mondo, fino ai nostri tempi, per accentuarsi nel rallentamento, fino all’odierno arresto, dello sviluppo della democrazia.

 

La sovrurbanità

Verso la fine del Settecento, l’espansione dell’economia inglese porta all’addensamento della popolazione dei lavoratori nella zona portuale, la piú importante del mondo nell’epoca, all’Est della città di Londra. Le condizioni di vita si degradano e la situazione sanitaria finisce per diventare catastrofica. E si crede che le malattie si trasmettano per «via miasmatica». Perciò, le famiglie benestanti, impaurite, fuggono dai purulenti quartieri dell’Est di Londra, ritirandosi verso l’Ovest, dove l’aria fresca arriva dall’oceano e dal contado rurale, senza passare per le zone “infette”. Trovano, in ciò, un referente culturale nell’abitudine della nobiltà di passare gran parte dell’anno nei possedimenti di campagna, da un lato, e, dall’altro, nella ricordata «villeggiatura» italiana, e ne compongono un modello, adottandolo con le modificazioni necessarie: i ceti medi emergenti trasformano il trasloco stagionale in movimento pendolare quotidiano – peraltro, questo sistema era già stato “collaudato” dagli olandesi in Indonesia e dagli inglesi nelle colonie indiane. Con delle differenze: non reagiscono, come i patrizi toscani, al chiasso, all’agitazione e ai tumulti della città, ma lo fanno contro l’avvento dell’industria e contro l’emersione di una “massa” inquietante, che non conoscono né riconoscono, tanto è diversa della folla urbana dei tempi passati.

Che fare di fronte a questa “massa”? Tornare all’epoca preindustriale! Ma conservando i vantaggi dei tempi nuovi. Cosí questi ceti cercano di ricostruire, o meglio di costruire, una campagna pastorale mai esistita – un po’ come aveva fatto, mezzo secolo prima, Marie Antoinette a Versailles, e come farà, un secolo dopo, Disney negli Usa. Qui si consacrano all’orticoltura e all’allevamento di animali domestici, adottano anche certi divertimenti in voga a Corte, traducendoli però in modo di vivere che si vorrebbe semplicissimo, e occupano il tempo libero in giochi piú o meno rustici – quelli che, nel tempo, diventeranno gli odierni sport: calcio, golf, tennis, cricket, e cosi via.

L’ozio è importante: diventa un’ossessione. Né basta goderselo: bisogna dimostrarlo. E precisamente questo è fondamentale, perché la città, da cui si scappa, è infetta: è la città del lavoro, e il lavoro sporca, contamina, fa ammalare. E ognuno deve preservare la propria stirpe, la propria famiglia, da ogni contatto inquinante. Il pater familias parte la mattina per la città, quale moderno paladino (siamo in piena età romantica), mettendo a rischio la salute, anzi la vita; la sera torna da moglie e figli preservati, grazie al suo sacrificio, da ogni contatto con la «classe laboriosa» – ogni rapporto sul piano della frequentazione; per il resto, sono i dislivelli nella gerarchia a neutralizzare in gran parte la possibile “infezione”. Servi, artigiani e commercianti devono utilizzare porte e scale “di servizio”; gli incontri diretti sono ridotti al minimo indispensabile; un’etichetta complessa e ferrea mantiene le distanze convenute – proprio come a Corte, dove il simbolismo è basilare, e occulta le contradizioni.

Il lavoro è indispensabile, ma resta inaccettabile, ed è del tutto insensato nella residenza pastorale, anzi è osceno, ragion per cui deve essere tenuto nascosto. E a ciò serve l’adatta dislocazione spaziale, che permette di godere dei frutti del lavoro senza sforzo percepibile e senza inquietudine eccessiva: ecco i suburbia, dove si ritrova la tranquilla produttività della vita coloniale, in apparenza miracolosa.

Eppure non si riesce a stabilizzare questa Arcadia. Primo, perché l’emigrazione è individuale: staccandosi dai lavoratori, le famiglie benestanti non rompono solo l’unità organica della città, ma si dividono anche fra loro. Secondo, perché perfino lo scambio – il commercio, origine sospetta del benessere di questa classe – finisce per essere bandito, in quanto non è decoroso vivere in una strada di bottegai, e tantomeno ammucchiati con altre famiglie.

Questa condizione di dissociazione viene denominata privacy. E non ce n’è mai abbastanza. La casa diventa un santuario, una riserva, una fortezza. La famiglia vi si contrae. Fuori, vi sono soltanto altri spazi privati e poi un deserto residuale, il demanio pubblico, pericoloso per definizione. Nel privato non vi sono che famiglie, membri di famiglie, debitamente documentati; ogni altro individuo, uomo o cane che sia, è un randagio, una minaccia per la sicurezza.

Crescita dei consumi, proprietà immobiliare, aumento della mobilità: fattori e forze del successivo dispiegamento del modo di produzione. Si può vedere già il delinearsi, poco dopo l’inizio dello sviluppo dell’industrialismo, dei settori dell’espansione cosiddetta “postindustriale”, e le pulsioni che la pervaderanno: l’amnesia e la distrazione; la fuga e il turismo; la paura e la ricerca impossibile di una sicurezza sempre piú … sicura[3]. E si può osservare che il postindustrialismo sarà rilanciato da due entità che si presumevano obsolete e che si riteneva fossero progressivamente superate dall’industrializzazione: la famiglia come entità chiusa e contrapposta alla società, e la rendita fondiaria. Per comprendere tutto ciò occorre rendersi conto che la causa fondamentale dell’inconsistenza del sogno pastorale è l’incubo che l’accompagna, in uno spazio separato, accuratamente escluso dalla stessa vista, e visitato solo da qualche giornalista (per esempio, Engels ai suoi tempi), i cui interventi nessuno legge in questi buoni suburbi.

L’Est di Londra continua a marcire, generando le «classi pericolose». Quando (a dispetto del vento prevalente che soffia dall’Ovest all’Est), le condizioni di vita minacciano dovunque la salute pubblica e l’ordine civile, si provvede applicando il rimedio già collaudato: la deurbanizzazione. Certo, con apposite modalità, dati gli umili ceti da trattare, e con molto ritardo (il processo viene portato a termine dal governo laburista dopo la seconda guerra mondiale). Ai bei suburbi dell’Ovest vengono a corrispondere, dunque, i brutti suburbi dell’Est di Londra: dei “suburbacci”, opposti ai “suburbelli” e ai proliferanti “suburbellini” dei ceti medi, che si vogliono «ascendenti». Potere politico e potere economico si associano per tutelare, e gestire, la vita quotidiana delle classi popolari, al fine di imporre un minimo di sicurezza e, in seguito, di applicare i principi dell’economia politica – promossa nel frattempo a scienza ufficiale, confusa con l’igiene. Per i poveri si fa il minimo necessario onde rendere stabile la riproduzione della manodopera, costruendo quella sorta di “batterie di allevamento” che perdureranno fino ai tempi odierni, sia disposte orizzontalmente (come a Soweto), sia verticalmente (come nelle periferie delle maggiori città europee), a seconda del valore a metro quadro del suolo. Nello stesso tempo, si incoraggia di volta in volta una cultura delle oppiacee (nell’Inghilterra dell’Ottocento, addirittura l’oppio stesso), dello sport e di altri antidoti e surrogati ai problemi sociali. Nei “suburbelli”, per contrasto, fiorisce un’alienazione simmetricamente opposta: una cultura dell’illusione e della dimenticanza (è altrettanto importante, a casa, chiudere gli occhi davanti al lavoro, quanto tenerlo ben d’occhio in fabbrica), quella che diventerà la cultura del consumo dei nostri tempi[4].

I suburbia si definiscono meno in termini di uso del suolo che in termini di stile di vita, con la cultura del consumo, dell’ozio ostentato e ostentatorio, e di privilegi protetti. Oggi, anche nelle città le piú venerabili, piú distinte, piú raffinate, come Amsterdam o Parigi, ancora esempio di urbanità alla vigilia della Prima guerra mondiale, si rinuncia all’urbanità per consacrarsi a un’insensata “suburbanalità”. Fra le repubbliche urbane di un tempo, culla dell’urbanità occidentale, Firenze sta venendo travolta in questo processo; e Siena non è anch’essa esposta a simili pericoli, da cui occorre pensare a tutelarsi? Perché la direttrice dell’estensione dei suburbi è globale, e i suburbi diventano ormai globali – insieme ai “suburbacci”. Ma, prima di seguire la dialettica dei due suburbia, occorre seguire ancora un po’ il dispiegamento della logica culturale.

 

La logica dei suburbi

Come si è detto, i ceti medi, per distinguersi dalla “massa”, che si moltiplica in una deplorevole promiscuità, si situano il piú possibile in disparte, separandosi igienicamente non solo degli inferiori, ma anche dai loro pari: la privacy non basta mai[5]. Sempre piú isolate, le famiglie dei buoni suburbi diventano compatte e tese: ruoli e rapporti (fra sessi e generazioni) si irrigidiscono. Il che, a sua volta, ha conseguenze spaziali. Chi non ha le «carte (familiari) in regola», chi non è adeguatamente “domestico” (e addomesticato), deve stare fuori, nella strada.

In altri tempi, la strada e la piazza erano luoghi di convivialità e di libera associazione: tutti vi erano «di casa»[6]. Nei suburbi, con le case sempre piú private-privatizzate, strade e piazze diventano “terra di nessuno”: luoghi incerti, carichi di una minaccia informe, in una guerra implicita, che pervade lo spazio intero. La vera patria non è piú la città, ma uno strettissimo rifugio, al di fuori del quale ogni attività è sospetta, ogni individuo indiziato, perfino quelli che si rinchiudono in quelle capsule protettive che servono per trasferirsi da un luogo all’altro[7].

Separate, le famiglie sono anche in concorrenza. Imperversa anche qui la dialettica spaziale. Dato che il suolo è di proprietà privata, è difficile dare una forma generale allo spazio, che si disloca, esattamente come la vita collettiva. Le famiglie devono distinguersi, non solo dagli inferiori, ma anche dai pari: per non essere inferiori, è piú sicuro essere superiori. Tuttavia, non si può mai essere abbastanza superiori. Poiché i ceti medi erano inizialmente privi di un senso di identità collettiva, ogni loro membro si sognava come un signorotto di campagna, oppure, piú modestamente, un contadino – presumibilmente in pensione, poiché in campagna non lavorava (il suo lavoro era in città): ricordi preindustriali, svaniti via via, nel tempo. Ciascuno però, in concorrenza contro tutti gli altri (a diffenza dei signorotti veri e dei veri coltivatori pensionati), si deve distinguere. Esito: una Babele di inette iperboli architettoniche[8]. I “suburbelli” assumono via via aspetti deliranti, ma rimangono pur sempre del tutto conformisti, come permeati da un modello inconscio. Ogni nuovo tipo di spazio riprende elementi di spazi del passato, integrandoli in un insieme che ne modifica funzioni e forme: cosí i bei suburbi mettono insieme elementi dello spazio rurale e della cultura di Corte (ostentazione, culto dell’apparenza e del prestigio).

In compenso, ai brutti suburbi viene imposta una rigida e crescente uniformità: una specie di rigorosa logica di tipo industriale. Allo svago pastorale replica un dispositivo funzionale, concepito da tecnici incaricati di trovare il modo meno dispendioso di sistemare la “gente” addetta a funzioni lavorative subalterne. Ne risulta, per esempio, la distruzione della base sociale dei portuali londinesi[9]: la politica di «sgombero dei bassifondi» londinesi spezza quella fitta rete di amicizie e di collaborazione fra famiglie, che permette ai manovali di organizzare le loro attività precarie, e di sopravvivere. Spartiti in palazzoni periferici, dipendono da un’organizzazione burocratica, che non consente loro di adattarsi rapidamente al mercato del lavoro, molto variabile, del porto[10].

Una situazione contraddittoria si verifica anche nel campo familiare. L’industrializzazione riduce la famiglia e toglie a essa la centralità; i suburbia la restaurano, in un’altra forma. Il lignaggio e la comunità appassiscono, sostituiti da una configurazione monadica di “persone” (personae cioè “maschere”, in senso etimologico), supposte eterne, il Babbo, la Mamma, i Figli, che facilmente si trasformono in altrettante camicie di forza. Un’associazione relativamente spontanea, legata in modo trasparente alla produzione, è trasformata in una simulazione, che occulta i suoi legami con il consumo (nei suburbi belli) e con la produzione (nei suburbi brutti). Da una parte, consumo di tempo («tempo libero») e di merci; dall’altra, produzione di prodotti e servizi da consumare. Famiglia come riparo – famiglia come gabbia.

 

Ideologia e realtà

Il pensiero burocratico è tipico dei ceti medi. Questi ceti vivono, o vorrebbero vivere, nella famiglia riconfigurata, supposta essere l’elemento basilare e “naturale” di una «società moderna». Il termine «moderno» è assunto in senso normativo, non descrittivo: se vi sono classi che non hanno famiglie «moderne», è perché sono «arretrate». Questa è la norma ufficiale. Alla fine, anche la famiglia reale inglese (il lignaggio, per eccellenza) deve conformarsi e (come si vede oggi, fra matrimoni e divorzi “plebei”) piegarsi al suo mediocre destino. La famiglia presidenziale statunitense (lignaggi emergenti) ha attuato ciò da un pezzo[11].

L’età d’oro della famiglia suburbana si può contemplare nell’immagine hollywoodiana di quelli che appaiono, oggi, nostalgicamente, come i vecchi “suburbellini”, con le villette di legno dipinte sempre di fresco, in mezzo al prato senza recinto, anch’esso fresco, verde e ben tosato, con in mezzo l’asta per la bandiera a stelle e strisce: Dad, Mom e i Kids. Somigliano a stars di cinema. Difatti, Hollywood recita i suburbia; in cambio, i suburbia recitano Hollywood[12]. In God We Trust. So Help Me God. Non c’è nemmeno bisogno di un vigile. E questa è sempre la visione canonica dei suburbi “normali”.

L’ingegneria sociale («modernizzazione», consumo e lavoro programmati, manipolazione del pensiero, e cosí via) tende a trattare ogni individuo come membro di una neofamiglia, con bisogni e attese da famiglia “normale”. L’imposizione del modello canonizzato ne esacerba le tensioni interne, restringendo i rapporti fra le “persone” costitutive, o facendoli scoppiare. Ed è la società nel suo complesso che viene lacerata o polverizzata, presa nella morsa di questi modelli – materiali e culturali – di vita, produzione e consumo, che si traducono, si inscrivono, si installano sul piano spaziale, e ne vengono ribaditi.

La “vita pastorale” attuale si copre di un’immagine ben diversa. Le stars si sono trasformate in semplici celebrità, conosciutissime per il fatto di essere … conosciute; le villette sono ammucchiate al riparo di mura sempre piu alte, erte di filo spinato, spesso elettrificato; al cancello, vigili armati; fuori, degli sceriffi, o dei vigilantes privati, che girano con sirene urlanti e gomme stridenti. Sono i nuovi suburbi, quelli delle gated communities, le comunità autoprotette, campi di concentramento per le classi impaurite, monasteri della sicurezza, forma odierna della salvezza: forse “sicurbia” (ma, in inglese, «malato» si dice appunto sick.)

Al posto della santa pace, vi si hanno brividi satanici, soprattutto in tv. Ma si pensa sempre di coltivare qui l’“arte di vivere”, integrando nella cultura del consumo ostentatorio i segni dell’antica urbanità (prodotti Doc, genuinità diventata semplice valore aggiunto, una mera merce in piú): nel discorso, la voce «sofisticazione» denota ormai qualcosa di raffinato[13]. È la civiltà bollata da Marcuse, dopo Brecht[14], di «desublimazione repressiva»: nel godimento di tale status si nasconde la paura, e ciò va a comporre il “motore” della classe media, diventata progressivamente classe dei media. E la noia si intensifica, diventando distruttiva: dopo il consumo, la distruzione come ultimo divertimento[15]?

C’è un’altra, «ultima esperienza urbana»[16], che peraltro tutti conoscono: lo shopping. In “Anglosassonia” la si designa con un eufemismo elegante, retail therapy: terapia dell’acquisto al minuto. Esperienza e terapia dispongono di uno spazio tutto proprio, un recinto quasi sacro: il centro commerciale, dove ufficiano “preti” e “vestali”, eseguendo i riti propiziatori, con ostentato sorriso di rigore. Il centro commerciale può assumere, nei paesi sviluppati, dimensioni imponenti; nell’Inghilterra centrale c’è ne uno che riproduce addirittura il Duomo di Siena, perfino con i marmi nero-bianchi, senza il pavimento intarsiato, certo, però piú in grande. Ammirevole, ma lo si paga in termini di urbanità: l’ipertrofia del commercio al minuto dà una spinta forse decisiva alla smaterializazzione della città, alla scomparsa di quel corpo di pietra e di mattoni di cui, in altri tempi, si faceva parte e che, in certo qual modo, faceva parte di noi.

Il commerciante, in una città disarticolata, come può fare per conoscere il suo cliente? Vede passare una folla a volte compatta, ma sempre informe; come sapere di che cosa avrà bisogno, non solo oggi, ma domani, e la stagione prossima? La clientela non si compone piú di persone conosciute, o meglio di concittadini, ma di unità astratte, che si possono cogliere solo con la statistica. È cosí che la città si trasforma progressivamente in un complesso di reti elettroniche sovrammesse, che permettono di seguire l’acquirente, di accompagnarlo, di tracciarne e, anzi, cartografarne le abitudini, e di piú: di prevederne l’evoluzione. È l’ultima forma dello spazio industriale: il reticolato immateriale.

I piccoli negozi, dove il bottegaio conosceva nome, cognome, luogo di nascita e antenati di ogni suo cliente, chiudono uno dopo l’altro. Al loro posto, si aprono agenzie immobiliari, che lavorano su reti a scala mondiale, drenando clienti da “bacini” situati in ogni parte del pianeta. Lo spazio geografico si dissolve in uno «spazio di controllo». Certo, vi sono sempre state delle reti: quella stradaria, quelle dell’acqua, della luce, ecc. Ma queste sono reti materiali, in numero finito, tracciabili e rintracciabili; quelle nuove, no. Anche il controllo c’è sempre stato, tramite regolamenti, vigili, semafori, e cosí via. E c’è da tempo anche un controllo “morbido”, tramite i mass media, tramite la pubblicità, e ancora piú “morbido” tramite la moda. Ma si tratta pur sempre di controlli visibili, individuabili; il controllo nuovo, no. La forma urbana – il corpo urbano –, che è ciò che plasma la nostra vita, diventa invisibile. Solo qualche tecnico può, forse, conoscere questa forma, ma si tratta sempre, con tutta probabilità, di una conoscenza parziale. La città, dopo questo processo che ne ha portato all’“esplosione”, scompare – e tuttavia, rimane e permane: è sempre lí, ma invisibile.

 

Ipersuburbanità

Urbanizzazione senza città, ma con segni di urbanità.

In seguito verrà – concepita e promossa, per esempio, dall’architetto olandese Rem Koolhaas – un’«urbanizzazione senza urbanità». Lo spazio si smaterializza globalizzandosi, la globalizzazione smaterializza. Lo spazio di controllo ricopre tutta la terra urbanizzata, e senz’altro anche buona parte del resto – resto che, a ogni modo, diminuisce di giorno in giorno. È in questo non-luogo, in questo spazio virtuale, che opera l’economia mondiale. Anche il potere dello Stato segue queste vie, le quali, senza la sua collaborazione, non avrebbero potuto costituirsi. Progressivamente, la classe dirigente dello Stato si fonde, e in qualche misura anche si confonde, con quella dell’economia.

I risultati piú spettacolari si vedono oggi in Cina. Qui sta sorgendo una tale ipertrofia del sistema suburbano, che non si può nemmeno parlare di caricatura. Secondo i progetti per la sistemazione della foce del Fiume delle Perle (conurbazione di Hong Kong)[17], già in corso di esecuzione, il paesaggio sarà completamente riplasmato in campi da golf, e la popolazione – milioni di presunti golfisti – alloggiata in suburbi tanto assurdi quanto modernissimi, fatti di palazzoni di trenta piani, che se ne staranno lí, fitti come le canne in un canneto. L’estetica del golf è stata adottata e rielaborata, tenendo conto dei principi di feng shui – «codificata secondo le procedure della pittura cinese classica» –, e canonizzata come “pastorale” d’obbligo, nuovo paessagio ideale, per costituire, insieme ai “suburbacci” di corollario, una Disneyland alla cinese: Chinese suburbia.

Tali quartieri residenziali non si possono veramente nemmeno descrivere, poiché risulta del tutto inadeguato lo stesso termine di «smisurati». Si tratta di qualcosa di completamente mostruoso, visto con gli occhi di chi trova ancora normali le città occidentali – e ancora piú di chi vive in città storiche, e a maggior ragione di chi vive a Siena. Sono vere e proprie gigantesche “batterie di allevamento” fuorisuolo, “suburbacci” all’ennesima potenza: non si sa come sia possibile afferrarli almeno concettualmente, non si sa a che santo votarsi … E, fuori da questo universo iperconcentrazionistico, sterminati campi da golf. In Golf We Trust, beffeggia l’ambiguo Rem Koolhaas: golf ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette, golf all’interno, golf come cerimonia eclettica mondiale, come “arte di vivere” aggiornata[18] – “batterie” di allevamento e golf.

Questo incubo rischia di essere anche il nostro futuro, o almeno quello dei nostri figli e nipoti. E si può già vedere profilarsi qualche particolare del quadro.

In Cina si combinano un industrialismo sfrenato e un controllo totalitario da parte dello Stato. Sono contradittori, ma questa contradizione, invece di frenare, anzi di bloccare, il processo, serve da acceleratore. Il controllo statale serve, prima, a togliere gli ostacoli alla crescita selvaggia, e, poi, a sterzare alla meglio i «balzi in avanti»; in seguito si rilancia, spingendo di nuovo a fondo l’acceleratore, e ancora si tenta un altro colpo di sterzo. Ne risultano «città delle contradizioni esacerbate» (City of exacerbated contradictions, Coec), «una sostanza urbana interamente nuova»: la città di domani. In tal modo si dovrebbe addirittura giungere a «una condizione urbana liberata dall’urbanità»[19].

Le implicazioni di questa teoria e di questa pratica sono pesantissime. Si tratta, travestito da pianificazione di tipo vetero-sovietico, di un pilotaggio a vista, con piano di volo breve, e del tutto inadeguato rispetto alla velocità del processo che si propone di pilotare. Si improvvisano alla cieca soluzioni locali, cercando di assicurare alla «classe laboriosa» di poter “campare”, ai ceti medi una misurata tranquillità, simboleggiata dal golf, e alla classe dirigente golf e potere. E poi? Poi … si vedrà.

Non ci troviamo di fronte a un pragmatismo radicale, che si situa oltre il pensiero? E di fronte al non-pensare come modo di procedere, anzi, alla “spensieratezza” come regola di vita: l’impensato suburbano come ambito culturale. Ecco che ci si imbatte in un muro, anzi in una muraglia: la cinta della città dell’intelligibile.

 

Tutto ciò è inevitabile?

Il nostro pensiero, i nostri concetti nascono nella culla della città. Lo smembramento di questo spazio protetto toglie al pensiero ogni formazione e protezione – e ciò non è stato pensato. Anche qui da noi siamo andati avanti, finora, con rettifiche locali e temporanee – in qualche modo, “alla cinese”. E cosí si sta arrivando a toccare i limiti dell’efficacia cognitiva e operativa dei concetti fondamentali: scienza, coscienza, azione, e cosí via. Che fare, allora?

Prima possibilità: tiriamo avanti, come si è sempre fatto. Dunque, lasciamo perdere con gli Usa e ci mettiamo al traino dei cinesi? Evviva le differenze esacerbate? Il citato Koolhaas, proveniente da uno dei paesi piú civili e urbani del mondo, sembra propendere per tale sviluppo: poiché lo ritiene inevitabile, crede che vada reso anche desiderabile. Lo pensa davvero? Non è chiaro, ma intanto l’architetto sta facendo una grandiosa carriera. Il nihilismo rende bene: sono questi i tempi.

Seconda possibilità: sforziamoci con saggezza di ottenere per tutti una casa “per bene”, scuola, sanità, ecc. Questo, però, è concepibile e perfino attuabile, benché con tanti, e davvero ardui, ostacoli e difficoltà, in un paese prospero – ma non lo è per il mondo intero, nelle presenti condizioni globali, il che pone dei problemi, che non saranno comunque evitabili.

Terza possibilità: puntiamo sulla tecnologia, che viene proposta in tre versioni:

1) hi-tech: a partire dagli anni cinquanta, con i progetti dell’architetto e ingegnere Buckminster Fuller, si immagina di coprire le città con duomi geodesici trasparenti, fornendo a tutti uguale riparo e climatizzazione[20]; la città diventerebbe una sorta di gigantesca automobile collettiva, che, però, non si muove, ma rende la mobilità indolore, almeno all’interno, come lo spostamento in un campeggio. E all’esterno? Una sorta di trasloco da un campeggio all’altro. Ma ciò implicherebbe problemi ecologici non ben precisati, allo stato attuale delle conoscenze.

2) Lo-tech (o Soweto forever): città orizzontale, estesa per terra, con casette a perdita d’occhio, tutte uguali, di poco costo (in termini europei, quasi di nessun costo); costa invece la mobilità, poiché l’erogazione delle prestazioni lavorative è necessario sia orizzontale (come la distribuzione delle lettere), sia verticale (è raggruppata in centri per forza di cose verticali). E torniamo al punto di partenza: la terra si copre di sconfinati “suburbacci”. Peraltro, li abbiamo già: il “mare” che circonda i centri delle città, mordendoli alle costole.

3) No-tech: la riproposizione della baraccopoli, in base all’ipotesi di una crescità della mobilità. Nasce all’interno degli stessi “suburbacci” come un’ulcera, tuttavia non di rado i suoi abitanti – il «popolo minutissimo» – non vi stanno poi cosí male, si intendono fra sé e si aiutano, in spontanea cooperazione. Ma un humus di questo tipo favorisce il pullulare di organizzazioni criminali di vario genere ...

Non appaiono significative “soluzioni” tecnologiche, anzi è il contrario. È pur vero, che ciò che conta è come si guardano le “cose”, come le si conoscono, e quindi come le si vivono[21] – e sta qui, forse, uno dei punti di ri-partenza per riappropriarsi di uno spazio urbano disgregato e smaterializzato, sul piano globale – anche se da sola questa spinta non basta.

 

Tendenza e processo globali

Occorre ribadire come sia errato credere che il processo generale delineato avanzi solo “altrove”, lasciandoci indenni. Die Welt weltet, il mondo si globalizza, possiamo affermare – ma modificando un po’ il senso di questa famosa affermazione di Heidegger –, e tutti ne facciamo parte. Il problema è, in primo luogo, di arrivare a pensarlo.

E ormai pressoché tutte le città sono suburbanizzate, o in via di suburbanizzazione, o comunque sotto tale minaccia. Anche l’orgogliosa Parigi, consacrata «capitale del XIX secolo» da Walter Benjamin, con la sua “vita parigina”, esaminata senza pietà da tanti scrittori, celebrata da Offenbach, raffigurata da Toulouse-Lautrec: tutto ciò è solo un mito, una serie di miti – la Parigi di Georges Perec[22] è già lontana, quasi come la città cinematografica cantata da Jacques Prévert e ancor piú la città-labirinto che affascinava Baudelaire. Miti, ma instancabilmente riproposti e messi in scena, a uso e consumo del turismo di massa: Parigi come show. Ma questa città-simulacro racchiude e occulta una grande “macchina impastatrice” dei popoli e delle loro condizioni di vita[23]: incastonata sulle reti mondiali del potere, del denaro, dell’informazione e dell’energia, viene mossa dal mercato immobiliare, e gira su stessa sempre piú velocemente, aggravando le segregazioni e via via rimettendo in forma, a tal fine, le diverse funzioni. L’intera città è afferrata da una polimorfica mobilità: le strade sono diventate mere sfilate di vetrine, i viali sono diventati delle autostrade, e lo spazio strappato a fatica alle auto è subito ceduto alle moto, e alle mostre dei commercianti[24].

Riguardo alle città storiche, come quelle della Toscana, come Pistoia e Prato, entrate da tempo nell’orbita della repubblica fiorentina, ma che hanno mantenuto a lungo la loro individualità, come Firenze, la caduta della cui repubblica nel 1530 segna la fine delle libertà cittadine in Italia, come Siena, esempio “classico” del patriottismo cittadino, ultima delle repubbliche cittadine ad arrendersi – tanto che per le sue strade, appena trent’anni fa, si evocava ancora con fierezza la «vecchia repubblica» –, ebbene, inglobate le prime tre in un tessuto urbano che raccoglie in una sola conurbazione, restano solo come residui storici, destinati – in primo luogo Firenze – al turismo, e per il resto, la situazione presenta è tutta da ripensare e affrontare; e Siena e diventata anch’essa una “colonia turistica”, che dedica buona delle proprie energie a mettersi in scena (pur con talento notevole e vera professionalità), quale simulacro di se stessa, di “riconfigurarsi” per rispondere alla domanda di divertimento, mentre è stata inserita in altre reti (finanziarie, universitarie), che, combinandosi con la “turistizzazione”, hanno dissolto quel tessuto sociale di cui il Palio ripete i fasti, mentre anche qui si sviluppa la suburbanizzazione. È la stessa strada in cui si è inoltrata da tempo Firenze – a suo tempo, altro elevato centro dello spirito civico –, dove il cuore della città eroica e storica si va sempre piú svuotando, dove le periferie si moltiplicano, cementate di costruzioni che concentrano e segregano spazialmente, mentre il tessuto urbano ingloba come si è detto, le vicine Prato e Pistoia, nonché una serie di centri storici minori … – e le segregazioni si rafforzano (qui come dovunque), a favore non piú della ricchezza di altri tempi, patrizia o borghese, ma di un capitale astratto senza sede né radicamento territoriale. E siamo giunti da molto, anche in Toscana, alla situazione in cui soltanto l’antica passeggiata celebra ancora il legame d’amore fra il corpo cittadino – il corpo di ogni cittadino – e la città antica …

 

Una teoria necessaria, per un’altra via

Le considerazioni esposte non derivano certamente solo dall’estetica, come si è visto, né a ogni modo solo da essa. Si sta cercando di descrivere il vissuto di uno spazio: la vita quotidiana dei suoi abitanti.

Agli inzi degli anni settanta del secolo scorso, a seguito del grande rivolgimento del ’68, Henri Lefebvre si è impegnato nell’elaborazione di una grande teoria dello spazio[25]: lo spazio umano assume una forma agraria, poi una forma urbana e una forma industriale, e ciascuna di tali forme dissolve quella che la precede, ma riprendendone alcuni aspetti. La città classica emerge nel quadro di uno spazio agrario essenzialmente locale, che essa porta a compimento, concentrando le ricchezze che strappa al controllo dei signori feudali – da cui provvede a liberare la produzione (come si è accennato, per esempio instituendo la mezzadria) – e che trasforma in mezzo di scambio, stabilendo vaste reti. Questo spazio commerciale si viene a sua volta modificando, rendendo possibile quella concentrazione di risorse (lavoro e capitale) che trasforma la stessa produzione. All’inizio, l’industria si sviluppa nello spazio ancora agrario, vicino alle fonti di energia, prima di spostarsi verso la città, avvicinandosi alle riserve di manodopera e ai mercati. L’urbanizzazione dell’industria, a sua volta, trasforma la città e la vita, applicandovi una logica industriale: razionalizzazione, normalizzazione, eliminazione dell’inutile (le «perdite») – tutto deve porsi in conformità con categorie e codici della produzione, e, in seguito, del consumo.

Oggi, ci troviamo sempre in quest’ultimo stadio, in questo universo astratto, regolato dalla produzione e dal potere: l’universo dell’economia politica. Tuttavia, la razionalizzante “caccia alle perdite” nella produzione e nel consumo, se porta a un progressivo perfezionamento della logica industriale, conduce anche al rimpianto per la qualità – o meglio le qualità –, che sfugge alla riduzione alle categorie industriali: sbocca qui la moltiplicazione esponenziale delle forze produttive connessa al compimento dell’industrializzazione. Ne è derivato uno spazio complesso, che rompe con l’uniformità delle economia di scala, per produrre non solo grandi serie uniformi, ma anche delle differenze. E, benché siano risultato dello spazio prodotto, tali differenze tendono a venire poi, a loro volta, respinte, ma, nello stesso tempo, tendono anche a resistere: frutto di una dialettica, non si lasciamo ridurre alla logica.

Lefebvre chiama differenziale lo spazio che ne risulta. È questo lo spazio che adesso lotta per emergere e fatica a farsi riconoscere. Lo spazio differenziale cerca di staccarsi dall’uniformità industriale e dal mondo dell’astrazione. E, in effetti, il conflitto fra l’imposizione del codice industriale e la rivendicazione delle differenze può nascondersi un po’ dovunque, ma, in sostanza, si tratta dell’affrontamento fra la “civiltà dell’economia politica” – che vede solo l’industria come suo orizzonte – e quella che tende a superare tale razionalità limitata.

La suburbanità deriva dall’applicazione della logica industriale alla produzione e riproduzione della città. È potente, perché copre già fisicamente buona parte del globo, mentre gli interessi che la determinano dominano sul resto. Include attualmente il mondo politico “monopolare”, e la sua stessa lingua mondiale, l’inglese – certo, non la lingua del popolo inglese (che, d’altronde, si mantiene come tale solo con molte difficoltà), ma una forma impoverita, prodotta per, e da, l’economia politica, e che restringe tutto quanto designa e chiunque si esprima con essa: è una lingua ormai inseparabile dall’ideologia, che la trasforma progressivamente in newlangue (il Big Brother incombe già da tempo come sorvegliante e controllore). E comprende anche lo spazio virtuale della rete elettronica, un infinito concreto.

La suburbanità: oceano di uniformità e banalità, junk space, come la definisce il ricordato Rem Koolhaas. Secondo il celebre architetto Christian de Portzamparc, per la prima volta in architettura «non c’è piú una dottrina condivisa», cioè non c’è piú nessun modello. Tuttavia, l’apertura di questa libertà totale è stata riempita da una risposta di tipo meccanico, industriale: «i piani di gran parte di quanto è stato costruito nel mondo da una cinquantina d’anni fa a oggi sono stesi da uffici tecnici in cui non si può parlare di architettura in senso proprio [poiché ci si è limitati a riprodurre] da qualche decennio delle formule redditizie»[26].

Ma da questo deserto di indifferenza emergono delle differenze: fibrillano delle aperture, delle possibilità. Cambiando immagine metaforica: nell’universale cappa di cemento emergono delle fessure, dei fori. Se si cerca di enumerali, si finisce per accorgersi che l’apertura può essere enorme, che si trova dovunque una possibile libertà, che, all’orizzonte, appare quasi totale. Internet, che connette il mondo intero in una rete – che possenti interessi si sforzano di porre sotto controllo –, pullula di produzioni incontrollabili, come i blogs, e tende a sfuggire a ogni controllo, aprendo un’utopia concreta di comunicazione universale, le cui implicazioni sono difficili da immaginare. La stessa lingua inglese produce dialetti sovversivi, che, se sono subito “cooptati” e normalizzati dal potere, vengono però rimpiazzati da altri ancora, mentre, nel contempo, lingue “superate” risorgono: dei “modi” sovversivi sostituiscono immediatamente quelli che cadono nel conformismo. E dovunque si assiste al risorgere delle “identità”: se il territorio nazionale riduce la sua consistenza, con le frontiere sempre piú “porose”, dei territori piú piccoli si levano qua e là, come funghi[27]

Lefebvre puntava su una possibile ricostruzione dell’uso dello spazio: dei suoi usi e costumi (l’urbanità: le libertà storiche della città), ora subordinati alle leggi dello Stato e sussunti alla legge del valore di scambio. Questa ricostruzione implica una riappropriazione dello spazio e del tempo, ormai sempre piú inutilmente alienati, fra gli altri fattori, anche dalla privatizzazione sempre piú spinta – che costituisce l’anima stessa della suburbanità. E ciò richiede, a sua volta, un’autogestione dello spazio da parte dei suoi abitanti: senza di ciò, la società (regolata da regole) non può mai tradursi in una comunità (regolata dal costume), la quale determina una dialettica con la società, che trasforma la società stessa. Ma solo attraverso un dialogo di questo tipo si può creare una nuova urbanità, che si estenda progressivamente allo spazio umano – certo, con inevitabili differenze, ma senza quella gerarchia che si è determinata nel corso della storia, ossia superando la sovrurbanità e la suburbanità fuoriuscite dall’urbanità delle città classiche. Questa urbanità pare essere stata rivendicata dalla popolazione di Soweto nel 1976, a nome di tutti i segregati della terra. E questa urbanità può ancora essere compresa e difesa, perpetuata e rilanciata, pur con un’azione certo difficile, ma sempre piú necessaria, e decisiva.

 

(Traduzione dal francese di Mario Monforte)

DONALD MOERDIJK

 

[1] Le lotte vincono in larga misura alla tv, deviando cosí il medium piú potente di controllo della società dello spettacolo (come i «sessantottini», a loro tempo, avevano deviato le nuove emittenti MF), e riappropriandosi dello spazio pubblico, svuotato dalla ripressione e dal terrore.

[2] Una buona metà della letteratura italiana è testimone di questo “attaccamento” profondo, “viscerale”, del corpo individuale e collettivo alla città – dall’Alighieri ai romanzi urbinati di P. Volponi.

[3] Cfr. M. Davis, City of Quartz (1990); Id., Ecology of Fear: Los Angeles and the Imagination of Disaster  (1998).

[4] «L’oppio» – dirà Ennio Flaiano – «è la religione del popolo».

[5] E perciò tutto viene via via privatizzato (gabinetti, bagni, poi, ai nostri tempi, le lavatrici e gli elettrodomestici, che sostituiscono i servi), mentre ogni famiglia aspira a un’autonomia irraggiungibile, poiché illimitata; e questo vale, ai nostri giorni, anche per le piscine e i campi da tennis.

[6] In proposito, il riferimento ormai classico è J. Jacobs, «The Uses of Sidewalks: Contact», in The Death and Life of Great American Cities (1961).

[7] Sono forse diventati questi i veri abitanti di questa zona “fuorimondo”? Un autore canadese, R. Ducharme, propone spiritosamente di ribattezzare «uomilisti» le automobili, che sono diventate le vere padrone della circolazione e hanno ridotto gli uomimi alla condizione di semplici autisti. Cfr. Le Nez qui voque (1967).

[8] Viaggiando nelle Grandi Pianure, Allen Ginsberg descrive il paesaggio americano come «pazzia spaziale».

[9] Compiuta negli anni cinquanta del Novecento da Aneurin Bevan, ministro addetto alla casa e alla sanità, energico esponente dell’ala sinistra del governo laburista.

[10] Vedi Young e Wilmott, Family Life in the East End of London.

[11] Il culto della famiglia presidenziale sembra risalire ai Kennedy, percepiti, piú della famiglia Adams e della famiglia Roosevelt, come una dinastia. Sembra che J. F. K. sia stato eletto meno in quanto capo di una stirpe (peraltro squalificata negli Usa a causa della professione di fede cattolica), che in quanto capo di una famiglia ristretta: Jack e Jackie, Caroline e John. La figliolanza, o pettinata, vestita da piccoli marinai, oppure sbottonata e capelluta, con jeans laceri, beretto da baseball portato alla rovescia, va ormai esibita, per permettere all’elettorato di identificarsi con i suoi sovrani democraticamente eletti.

[12] Vedi N. Gabler, Life, the Movie: How Entertainment Conquered Reality e A Realm of their Own: How the Jews Invented Hollywood.

[13] Si tratta di quello che si può chiamare uno “slittamento” del senso. Tale “slittamento”, almeno nella lingua inglese, risale già ai primi suburbia? Comunque, a proposito di questo valore aggiunto rispetto alla viticoltura, v. l’eccellente documentario di J. Rossiter, Mondovino (2004).

[14] Per esempio, in Mahagonny.

[15] Ipotesi aggacciante, esplorata dal visionario J. G Ballard nel suo ultimo romanzo, Millenium People (2004).

[16] Tema della seconda publicazione urbanistica dell’«Harvard School of Design», R. Koolhaas (a cura di), Guide to Shopping (2001).

[17] Vedi R. Koolhaas (a cura di), Great Leap Forward (2001), prima pubblicazione dell’«Harvard School of Design».

[18] R. Koolhaas, op. cit.

[19] Vedi sempre il lanciatissimo architetto, misto di entusiasmo futurista e di nostalgia, R. Koolhaas, op. cit.

[20] Progetto esposto alla triennale di Milano (1954).

[21] Uno scrittore sudafricano, Z. Mda, nel suo Ways of Dying («Modi di morire»), racconta la storia di un vecchio contadino cacciato dalla campagna verso le città: dorme alla buona, sotto la tettoia di una fermata di autobus; si guadagna la vita piangendo ai funerali – ce ne sono tanti in Sudafrica – e lo fa con professionalità; trova la città interessante, anzi bella – non perché sia una bella città (con qualche eccezione, le città sudafricane sono tutte bruttissime), ma egli non sa che cosa sia una città bella. È felice, quest’uomo, un saggio. Ha capito che ogni cosa è bella: basta guardarla. Senza riconoscerla: si riconosce il concetto, non la cosa; riconoscendola, si riconosce che cosa è questa cosa (una tettoia di autobus, una lamiera, un cartone), cioè la sua funzione, dato che il concetto appunto serve a ri-conoscere. I concetti sono utili, ma rendono tutto astratto. Quindi, non riconosciuta, la cosa può essere conosciuta, indipendentemente della sua utilità. Cosí si ristabilisce la con-naturalità che ci lega al mondo concreto, e soprattutto al nostro mondo, la città.

[22] G. Perec, La Vie, mode d’emploi (1978).

[23] Cfr., per esempio, M. Pinçon e M. Pinçon-Charlot, Paris-mosaïque (2001).

[24] Cinquant’anni fa (chi scrive ne è testimone) molti parigini non avevano mai messo piede fuori dalle mura: «lei non ha voglia di vedere ciò che c’è altrove?» – chiesi una volta a un avvocato, padre di uno dei miei amici. Mi rispose orgogliosamente: «e perché? Ci sarebbe qualcosa altrove?».

[25] H. Lefebvre, La Révolution urbaine (1970); Id., La Pensée marxiste et la ville (1972); Id., La Production de l’espace (1974).

[26] Ch. de Portzamparc, Leçon inaugurale au Collège de France, 02.02.2006 (estratti pubblicati su «Le Monde», 04.02.2006).

[27] B. Antheaume e F. Giraut, Le Territoire est mort, Vive les territoires! (2006).