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UNITÀ TEMATICA N. 1
IL CORPO DANZANTE

come strumento di coscienza di sé nel mondo

Autrice

Eugenia Casini Ropa

DANZA URBANA

o della resilienza dello spirito della danza

 

Inviato il 2/04/2019




in AA.VV., Movimenti urbani. La danza nei luoghi del quotidiano in Italia, a cura di M. Carosi, E & S, Roma 2011, pp. 99-106.

 

Si vede, ormai da anni, la danza contemporanea uscire dalle sale teatrali e dai loro rassicuranti rituali di comunicazione, per insinuarsi o irrompere negli spazi della vita quotidiana delle città e dei suoi abitanti, visitando senza invito i luoghi e le architetture proprie di altri rituali civili o culturali: i luoghi delle partenze e degli arrivi, del vendere e del comprare, del riposo e del lavoro, della contemplazione estetica o della memoria storica, persino della preghiera. Stazioni ferroviarie, centri commerciali e sociali, fabbriche attive o dismesse, chiese, musei, gallerie e monumenti, strade e piazze vengono affrontate dagli artisti della danza, che con loro e i loro distratti frequentatori si misurano in una curiosa sfida incruenta, talvolta, all’apparenza, persino imbarazzante o insensata. Viene dunque spontaneamente da chiedersi che cosa abbia spinto la danza a mettersi a rischio, ad abbandonare la relativa sicurezza di luoghi tradizionali in cui il rapporto con il suo pubblico era collaudato da secoli, dove veniva in fondo scelta e visitata con rispetto e dove la stessa convenzione discorsiva pareva incanalare flussi controllati di senso e di emozione, per esporsi alla casualità, al disagio, al disinteresse diffuso della vita di strada. Se nei teatri, infatti, la danza era l’ospitante e il pubblico tenuto a osservare le sue regole di fruizione e di comunicazione (rassicuranti per l’una e per l’altro), negli spazi non deputati della città si fa ospite inattesa dei suoi spesso ignari spettatori, violando con poca creanza le norme relazionali dell’ospitante.

  

Molte cause concomitanti di questo fenomeno sono già state individuate ed esposte da più parti e non molto rimane da dire: l’inadeguatezza crescente dei vecchi o antichi spazi teatrali alle performance della danza contemporanea, bisognose di un nuovo rapporto di vicinanza e complicità cinesica ed empatica con lo spettatore; l’inquietudine di fronte alla crisi generale della comunicazione teatrale; la tendenza postmoderna alla decostruzione dei linguaggi, degli stilemi e delle convenzioni comunicazionali dell’arte per avvicinarli alle modalità della vita, con il conseguente bisogno di ripensamento identitario, tecnico, estetico ed etico della danza anche attraverso un confronto più diretto e destabilizzante con la realtà quotidiana urbana; la volontà politica di una forma d’arte troppo frequentemente trascurata dagli addetti alla cultura di affermare la propria esistenza, dandole una inedita visibilità pubblica e “democratica”; la ricerca di un nuovo pubblico per la danza, più allargato e differenziato, curioso, disponibile al coinvolgimento in sperimentazioni di confine; e così via… E il confronto con la città e le sue strutture urbanistiche e sociali, inizialmente semi-improvvisato e avventuroso, ha effettivamente dato origine, forma e sviluppo nel tempo a modi nuovi d’incontro e di manifestazione della danza stessa, fino a creare un nuovo “genere” multiforme, la Danza urbana appunto, comprendente ormai varie tendenze stilistiche e specializzazioni (danza/architettura, danza di strada, verticale, aerea, itinerante, break dance, danza parcour, danza/circo, a cui possono forse aggiungersi le forme - dal diverso processo di sviluppo ma ugualmente condividenti gli spazi urbani - delle danze interculturali della community dance[1]).

  

Già da queste denominazioni appare evidente, quasi un comune denominatore nella varietà formale, come la contaminazione delle tecniche e delle pratiche di movimento, tra danza contemporanea, ginnastica, arti marziali, acrobatica, discipline circensi, cultura hip hop, danze popolari ed etniche, sia il crogiuolo e il procedimento creativo più intensamente frequentato dagli artisti della danza urbana (in linea con le tendenze fusionistiche odierne delle arti dello spettacolo e adeguato ai caratteri di attrazione e visibilità necessari in spazi aperti e dispersivi). Insieme, naturalmente, al confronto costante, vigile e differenziato con l’architettura e l’assetto urbano della città[2], con i suoi edifici e i suoi percorsi, con l’eterogeneità dei suoi spazi e delle loro caratteristiche più o meno ospitali, con i sui luoghi più in vista e quelli più segreti da abitare con la danza.

  

Qui il corpo danzante, strumento vivo dell’arte del movimento, si propone come il fattore alchemico che propizia l’incontro, che attiva il ri-svelamento e la ri-significazione delle parti in gioco. La plasticità statica degli edifici cittadini, con i loro volumi immobili, le loro tensioni e i loro ritmi architettonici congelati nella pietra e nel cemento si confronta con quella vivente, dinamica e incessantemente metamorfica dei corpi che danzano e che sfrontatamente o amorosamente o indifferentemente la penetrano sfidandone la solidità semantica. Nel nuovo contesto si originano così a tratti percezioni straniate e spiazzanti tanto per i danzatori quanto per gli spettatori. Lo straniamento della funzione fisica e sociale dei luoghi e degli edifici tende a creare un senso di disorientamento e di allerta nei sensi di chi agisce e di chi assiste, rendendoli più acuti e percettivi, mentre l’assurda ritualità ludica dei corpi danzanti pone di per sé domande imbarazzanti alla frenetica attività utilitaristica e finalizzata che li circonda. La sfida prossemica dei corpi e ai corpi che danzano innesta così impreviste derive di senso[3] e, nuove interpretazioni metaforiche e creative del mondo circostante.

  

Se questa iniziativa di fuga della danza dai teatri in cerca altrove di nuova linfa nutritiva può a qualcuno apparire sconcertante, vale la pena ricordare che non è questa la prima volta. In epoca contemporanea, già un secolo fa un nuovo pensiero sull’uomo e sul corpo dava impulso alla fuoriuscita della danza dai teatri e al suo effondersi in spazi diversi del vissuto per una dirompente sperimentazione pratica. Una diversa ansia epocale di liberazione la spingeva allora alla fuga dalle istituzioni teatrali in cui era rimasta annidata per secoli a perpetuare le ritualità elitarie, laiche e spettacolari di quelle antiche società, verso il recupero di apparentemente dimenticate valenze antropologiche e alla ricerca di una riqualificazione artistica, che superasse gli artifici del virtuosismo codificato e si radicasse nelle potenzialità espressive di ogni essere umano, insite nel suo stesso corpo e allora ansiose di manifestarsi.

  

Le generazioni di danzatori tra Otto e Novecento riscoprirono però il senso della corporeità e le potenzialità espressive del movimento fuggendo non solo dai teatri ma anche dalle città ormai in crescita irrefrenabile, vissute ai tempi come minaccia alienante per la riconquista della libertà psicofisica dell'uomo[4]. Era invece nel contatto con la natura incontaminata dal progresso tecnologico e dalla sua crescente oppressività che s’intendeva rigenerare, attraverso una nuova arte della danza fondata sulle leggi naturali del movimento, quella perfetta macchina biologica pensante - capace di tener testa alle macchine tecnologiche - che si scopriva allora essere l’unitario corpo-mente dell'essere umano. Nel vento trascinante di un antropologico "ritorno alle origini", si fuggiva dunque dalla città, golem urbanistico fagocitante e spersonalizzante, per affermare la peculiarità creativa individuale e di gruppo e scoprire, nella libera manifestazione ritmica ed espressiva del corpo, nuove fonti vitali per la danza (e, utopicamente, per l’uomo nuovo e la società futura).

  

E proprio di quella reinvenzione delle pratiche e del senso del corpo danzante, originatesi nel confronto con i luoghi e le leggi della natura, sono figlie le forme e le tecniche innovatrici della danza moderna del novecento, ben presto rientrata tuttavia tra le scene dello spettacolo.

  

Ai giorni nostri invece, l’inquietudine identitaria e creativa che muove la tracimazione e il deflusso della danza dai luoghi chiusi della professione mostra necessariamente un segno diverso. Oggi la città non è più, per le giovani generazioni, il meccanismo alienante che spaventava gli avi inducendoli ad abbandonarsi fideisticamente alla natura per la rigenerazione armonica dei propri corpi: è ambiente quotidiano di vita, habitat naturale, partner del vissuto personale e sociale. Urbanizzazione, metropolizzazione e meccanizzazione hanno vinto la loro facile battaglia contro le utopiche nostalgie originarie e il corpo non è più una realtà sconosciuta da scoprire con lo stupore di una rivelazione quasi profetica: è ormai una perfezionata, pur se sempre ancora perfettibile, macchina biologica, di cui ci si vanta di possedere i meccanismi più segreti. Ora il corpo danzante può ambire a misurarsi dialetticamente con la città, e addirittura penetrare, risvegliare e animare con la sua vitalità fisiologica le strutture architettoniche, tradurle in segni corporei, dialogare con i volumi e le superfici, provocare l’inorganico, il permanente e il funzionale con l’organicità e con l’effimera, imprevedibile improduttività simbolica del gesto artistico: può mutare l’apparentemente immutabile.

     

I prodromi più significativi di questa inversione di rotta vengono solitamente individuati, a un livello artistico e a uno sociologico, in fenomeni originati si nella cultura americana metropolitana tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: da un lato la sperimentazione eversiva elitaria della post-modern dance e dall’altro lo sviluppo e la diffusione popolare della street (poi break) dance, parte integrante nella cultura hip hop. Nel primo caso[5], giovani artisti d’avanguardia, nel loro impeto decostruttivo e “democratizzante” del linguaggio e della fruizione della danza (in America ormai codificata e istituzionalizzata nella modern dance), agivano le loro performance in spazi non convenzionali e propri di altre manifestazioni dell’arte e del quotidiano: gallerie, musei, chiese sconsacrate, soffitte, garage, pontili, parchi, cortili e strade, arrivando, nei casi più estremi, a sperimentare i tetti e le pareti degli edifici, praticati con l’uso di imbracature che sovvertivano la percezione gravitaria e prospettica di performer e spettatori e destabilizzavano ludicamente il rapporto con l’ambiente calandolo in un contraddittorio non-sense[6]. Nel secondo caso, i giovani afro- americani dei quartieri-ghetto adottavano in crescente misura i modi della danza di strada, da sempre patrimonio antropologico della cultura nera trapiantata, perfezionandone le tecniche corporee con l’innesto di elementi dinamici spuri, spesso virtuosamente acrobatici, inventati o ripresi dalle danze d’Africa o carpiti da altre discipline a larga diffusione popolare come gli sport, la ginnastica o le arti marziali, facendone il nuovo terreno privilegiato e incruento di competizione tra gruppi antagonisti e istituendo norme comportamentali ritualizzanti di svolgimento delle sfide[7]. In entrambi i casi, il corpo danzante si dimostra sicuro di sé e orgoglioso del suo presenzialismo e protagonismo negli spazi urbani, che conferiscono a lui inedita ed efficace visibilità e a quelli un ruolo di comprimari inconsapevoli, ma organici e necessari agli accadimenti.

  

Diffusi in Europa e in altre aree metropolitane del mondo, questi stimoli lavorano palesemente o sotterraneamente, sommandosi agli esempi di fusione linguistica già sperimentati dal teatro, ai problemi logistici ed economici, alle inquietudini rivendicative e alle impasses creative, agli impulsi provocatori e alle tendenze interculturali e socialmente orientate di una parte della danza contemporanea locale. Così, di nuovo tra due secoli, il corpo danzante si lascia alle spalle i teatri per avventurarsi all’esterno e l’arte della danza si misura su nuove sfide.

  

Se quel che si è detto fin qui - e che riassume in buona parte le interpretazioni date finora della genesi del fenomeno - è vero, allora la danza urbana dei nostri giorni potrebbe avere anch’essa, come quella libera di un secolo fa, un sotteso versante utopico: l’aspirazione, cioè, a una fusione provocatoria e fertilizzante con la città, i suoi spazi e le sue funzioni, nell’intento di rivitalizzare creativamente l’ambiente urbano, mutandone la significazione e le convenzioni relazionali. Come attraverso la danza si voleva un tempo trasformare l’uomo, ora si vorrebbe forse con la danza trasformare il suo habitat urbano, renderlo reattivo alla presenza nel suo grembo di un’arte vivente. In entrambi i casi l’impatto si rivelerebbe antropologico ancor prima che sociale o artistico e la fiducia nelle potenzialità trasformative della realtà e della sua percezione intrinseche alla danza ne verrebbe esaltata.

  

Ma, nei fatti, il fenomeno odierno è più complesso e ambiguo. Nella danza urbana si intrecciano infatti inestricabilmente provocazione antropologica e accettazione sociale; si vorrebbe sfidare criticamente quella qualità della vita a cui, tuttavia, implicitamente si accetta di appartenere e di adeguarsi in pieno. Idealmente è un tentativo di sabotaggio dall’interno di alcuni meccanismi autoregolatori della macchina-città, ma al tempo stesso è un cercare nel suo ventre capiente rifugio protettivo per attività espressive che languiscono nel chiuso o nel rifiuto di teatri inospitali. Si tratta di reale volontà di un ruolo urbano eversivo dell’arte della danza o di acquiescenza all’effimero permanente e decorativo che domina la civiltà dello spettacolo? È autentica ricerca di nuove modalità espressive e relazionali ispirate dal genius loci o mero trasferimento in altro contesto di produzioni coreografiche nate altrove? È sovvertimento o adattamento?

  

Al di là delle possibili interpretazioni di un fenomeno ancora in espansione e in definizione, c’è comunque da osservare concretamente come la danza urbana, nelle sue diverse forme, abbia creato un circuito di festival e rassegne nazionali e internazionali di varia entità, come gli artisti possano scambiarsi tecniche e progetti e collaborare nelle realizzazioni spettacolari e come ciò che era nato come esplosione spontanea, urgenza di spazio vitale per la sopravvivenza di alcuni artisti contemporanei, si sia in effetti dimostrato un pungolo spesso davvero efficace per l’immaginazione, la creatività coreografica e l’incontro delle diverse arti del corpo. Più difficile rimane giudicare l’impatto della sollecitazione sugli spazi e soprattutto sul pubblico, la qualità e l’incisività del suo disorientamento e dell’alterazione percettiva sinestetica e relazionale, o quanto l’incontro urbano abbia contribuito a familiarizzarlo con la danza.

  

C’è da chiedersi del resto, al fondo, se la danza, nella sua genetica aleatorietà, possa davvero incidere o soltanto sfiorare per un attimo l’impari persistenza urbana, se possa davvero lasciare tracce durevoli o soltanto lanciare “segnali segreti dell’avvenire”[8]

  

In conclusione, mi piace rileggere metaforicamente l’intera vicenda dell’ultimo secolo della danza, con le sue ripetute fuoriuscite dai luoghi e dai vincoli della tradizione precedente e gli altrettanto ripetuti rientri nei nuovi ordini della cultura vigente, alla luce della sua riaffermata essenza antropologica e del suo conseguente istinto di adattamento all’ambiente. Come un organismo vivente, lo spirito vitale della danza, innato nell’essere umano, cerca e trova le opportunità e le forme per la sua sopravvivenza, subendo o inducendo alterazioni e mutazioni atte a mantenerlo in vita in mutate condizioni ambientali. Per farlo, deve rinforzarsi, contrastare le forze ostili, ma anche modificare comportamenti, fonti di nutrimento e relazioni, deve sapersi adeguare e sfruttare al meglio le risorse disponibili, per quanto scarse e inadeguate possano apparire, intervenire sui propri strumenti e sull’ambiente corroborando i propri indici di resilienza, ossia di esistenza e resistenza in vita.

  

La danza urbana di oggi, sarebbe dunque, in questa prospettiva, solo l’ultima delle ripetute manifestazioni di resilienza dello spirito immortale della danza, mai davvero sconfitto anche se sofferente, e capace ogni volta di rigenerarsi nutrendosi dell’aria del tempo.


 

[1] Cfr. An Introduction to Community Dance Practice, a cura di D. Amans, Palgrave-Macmillan, New York, NY, 2008.

[2] Per l’evoluzione di un pensiero generale su danza e architettura rimane fondamentale il numero 42/43, dell’estate 2000, della rivista “Nouvelles de danse”, dedicato appunto a Danse et architecture.

[3] Un’interessante sguardo semiotico ai caratteri comunicativi della danza urbana si trova in: Maria Cecilia Bizzarri, La danza e la città. Esperienze di danza urbana, in “E/C”, serie speciale, anno II, n. 2, 2008, pp. 33-37.

[4] Cfr. Alle origini della danza moderna, a cura di E. Casini Ropa, il Mulino, Bologna 1990.

[5] Sulla post-modern dance americana si veda, in italiano, il basico: Sally Banes, Tersicore in scarpe da tennis, Ephemeria, Macerata 1993 e il recentissimo: Rossella Mazzaglia, Judson Dance Theater. Danza e controcultura nell’America degli anni Sessanta, Ephemeria, Macerata 2010.

[6] Nell’ambito di questo genere di sperimentazioni è da ricordare particolarmente il lavoro di Trisha Brown con i suoi equipement pieces (cfr. Rossella Mazzaglia, Trisha Brown, L’Epos, Palermo 2007) e Lucinda Childs con la sua Street Dance (cfr. il già citato: Sally Banes, Tersicore in scarpe da tennis, pp. 144-155).

[7] Si vedano i numerosi testi sulla cultura hip hop, che ne trattano anche il versante della danza. In particolare sulle problematiche spaziali in questo ambito, si veda: Hélène Brunaux, Espace architectural et danse urbaine. Les formes corporelles du hip-hop, in Arts, sciences et technologies, Actes du rencontres internationales, 22, 23 et 24 novembre 2000, Université de La Rochelle, Maison des Sciences de l’Homme et de la Société, 2000, pp. 155-160.

[8] L’espressione è di Walter Benjamin, che la usa felicemente negli anni Venti a proposito della sottile efficacia sociale del teatro dei bambini. Cfr. Walter Benjamin, Programma di un teatro proletario dei bambini, in Asja Lacis, Professione: rivoluzionaria, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 83-89.