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UNITÀ TEMATICA N. 2
ANIMALI

Quattro prospettive etiche: animalismo ambientalista, animalismo animalista, animalismo umanista, animalismo spirituale. Traduzioni giuridiche

Autore

Luigi Lombardi Vallauri

ANIMALI - ISTRUZIONI PER IL NON USO

Le ragioni etiche fondamentali

 

Inviato il 15/05/2019

Vengono sviluppati ampiamente i principii che fondano i quattro maggiori animalismi, in particolare il principio religioso e razionale della ahimsa, della nonviolenza, come complessiva visione del mondo che orienta il cammino dell'umanità. Viene attentamente valutato, in quest'ottica, lo scenario vita degna - morte indolore, che risulta preferibile alla barbarie attuale ma non aproblematico. Vengono discusse l'alimentazione carnivora e la vivisezione. La ricerca si conclude con un decalogo in dodici punti proposto non solo ai militanti, ma a tutti i desiderosi di ridurre almeno un po' la sofferenza e il danno inflitti agli animali.

 




da Luigi Lombardi Vallauri, Scritti animali, Capitolo VI, Gesualdo Edizioni, Gesualdo 2018.

 

1. Il principio meraviglia

Cominciamo con l’inchinarci al mistero continuo e contiguo del «parlare capendoci»: suoni materiali vengono trasformati in significati intellettuali coscientemente capiti. Tra la materia e l’intelligibile, tra la materia e la coscienza, tra questi ordini di realtà completamente eterogenei fanno da interfaccia quei piccoli-immensi “cavolfiori” di carne speciale maturati da centinaia di milioni di anni di evoluzione biologica che sono i nostri cervelli; e nessuno – nessun cervello umano finora – sa spiegare come. Dobbiamo realizzarlo con venerazione, questo fatto inspiegato: è il fondamento universale dei diritti dell’uomo come uomo, contro tutte le discriminazioni razziali, sessuali, religiose, ideologiche; è il fondamento universale della solidarietà umana. Ma dobbiamo anche accorgerci che proprio questa fenomenale capacità di trasformare i sensibili in intelligibili è stata usata, purtroppo, come giustificazione di una signoria sempre più spietata dell’uomo sui corpi degli animali non umani. Segnatamente il cristianesimo ufficiale, con il suo spiritualismo alla rovescia, ha legittimato l’assenza di ogni limite di pietà e di giustizia nelle pratiche della scienza vivisettrice e dell’industria della macellazione. Ha fatto della nobiltà ontologica dell’uomo non un maggiore impegno (noblesse oblige), ma un privilegio. La meraviglia comunque resta, e deve accompagnarci durante tutta questa nostra comunicazione. Meraviglia sull’uomo, meraviglia su quei capolavori estetici e ontologici che sono gli altri esseri senzienti. Nella mente sapienziale meraviglia e compassione, meraviglia e sentimento di giustizia non si escludono; contro Levinas, è proprio il thaumázein (stupore) ontologico a fondare il riconoscimento dell’altro, l’accoglimento dell’appello non schivabile che ci rivolge.

 

2. Il fondamento dei diritti

Il punto decisivo, per riconoscere diritti agli animali, è accertare quale esperienza cosciente o soggettività hanno le diverse specie. Lo si accerta in base a due parametri: lo sviluppo del sistema nervoso e il comportamento. Ciò permette di distinguere, molto grossolanamente, animali “superiori” e “inferiori”. I primi uniscono, a un notevole sviluppo del cervello, un comportamento non solo istintivo, grande flessibilità e “libertà” nel reagire all’ambiente, spesso grande espressività. Sono dotati dei sensi esterni, dei sensi interni (sensus communis, immaginazione come rappresentazione di oggetti materiali assenti, memoria) e di forme interessanti di apprendimento intelligente. A queste facoltà cognitive si affiancano le corrispondenti facoltà appetitive-affettive: alla sensazione i piaceri e i dolori sensibili, all’immaginazione i piaceri e i dolori più “sentimentali”. Ma tra animali “superiori” e “inferiori” – come tra gli animali e gli uomini – non c’è, soprattutto quanto al sentire, un baratro invalicabile; c’è, piuttosto, continuità. Dovendo distinguere, un criterio abbastanza semplice e ben fondato è quello degli occhi: possiamo chiamare “superiori” gli animali dotati di occhi, in base alla considerazione che in genere occhi e cervello provengono, morfogeneticamente, dallo stesso foglietto embrionale, l’ectoderma, per cui la presenza di occhi fa indurre l’esistenza di un cervello. Ora, il cervello è la sede principale dei fenomeni mentali coscienti; quindi la presenza di occhi fa presumere un livello superiore di sofferenza/piacere cosciente e di capacità cognitive. Una cozza, priva di occhi e di cervello, dovrebbe soffrire coscientemente, tolta dall’acqua, molto meno di un pesce, o non soffrire affatto; bollire viva una cozza è molto meno problematico che bollire viva un’aragosta; una buona regola può essere: nel dubbio, astieniti.

 

3. Il dovere di vegetarianismo

Per chi ritiene che gli animali da noi mangiati soffrano, si pone il problema del vegetarianismo. Nelle condizioni attuali, il vegetarianismo sembra un dovere di pietà e di giustizia: basta leggere, su come vengono trattati gli animali da macello, la norma che “mitiga” le pratiche di trasferimento, stabulazione, immobilizzazione, stordimento, macellazione o abbattimento. Cito il d.l. n. 333 del 1998 (la magna charta in proposito):

Durante le operazioni di scarico gli animali non devono essere spaventati, eccitati o maltrattati e occorre evitare che essi possano capovolgersi. Gli animali non devono essere sollevati per la testa, le corna, le orecchie, le zampe, la coda o il vello in una maniera che causi loro dolori o sofferenze inutili... Non devono essere percossi, né subire pressioni su qualsiasi parte sensibile del corpo. In particolare, non si deve loro schiacciare, torcere o rompere la coda, né afferrare gli occhi. È vietato colpire o prendere a calci gli animali.

Un’altra lettura obbligatoria per chi mangia carne è Rifkin, Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne, che illustra la brutalità perfetta della prima razionalizzazione industriale delle catene statunitensi di macellazione e gli effetti devastanti che il culto tipicamente angloamericano della bistecca bovina ha avuto in passato – e certo avrà in futuro – se si estende sull’ambiente naturale. Un bilancio critico dell’attuale stile euro-americano di alimentazione carnivora intensiva – bilancio in termini esclusivamente economici, ecologici e igienico-sanitari umani, senz’alcuna considerazione etica in termini di benessere animale – può trovarsi nell’equilibrato, documentatissimo studio di Smil, Eating meat: Evolution, Patterns and Consequences, da cui risulta che quello stile è una delle catastrofi del nostro tempo in termini di sviluppo sostenibile. Per come stanno le cose oggi, il vegetarianismo sembra quindi un dovere etico di pietà e di giustizia dell’uomo verso gli animali; mentre una drastica riduzione del consumo di carne, segnatamente bovina, sembra comunque un dovere economico, ecologico, igienico-sanitario dell’uomo verso se stesso.

 

4. Lo scenario vita-degna, morte-indolore

Ma supponiamo che le cose cambino, o facciamo comunque l’esperimento mentale di immaginare che una meno barbara umanità futura riservi agli animali da macello una vita degna e una morte indolore: per esempio, assicuri ai bovini una libera crescita in pascoli sereni, un’improvvisa anestesia totale come quella praticata agli orsi nei parchi nazionali (con l’avvertenza di addormentare l’intero gruppo simultaneamente, in modo da risparmiare agli animali la sofferenza e l’inquietudine sociobiologica ingenerata dalla sparizione inspiegabile dei loro congiunti) e una macellazione in mattatoi abbastanza lontani dai pascoli perché gli animali non abbiano il minimo sospetto della loro esistenza. In questo scenario «vita-degna morte-indolore», in cui l’allevamento e la mattazione non causerebbero agli animali, per ipotesi, alcuna sofferenza, posto che il dovere di vegetarianismo sia fondato, eticamente, solo sul dovere di non far soffrire, il dovere etico di vegetarianismo cadrebbe. E al tempo stesso i danni collaterali di natura economica, ecologica, igienico-sanitaria connessi con la cultura della carne si ridurrebbero drasticamente, perché uno stile di allevamento e di uccisione come quello previsto dallo scenario comporterebbe, rispetto agli attuali metodi industriali, una riduzione drastica del numero di animali da macello disponibili. Tuttavia, lo scenario è più chiaroscurale di quanto sembra a prima vista. In bioetica è utile distinguere dolore e danno. Ci può essere dolore senza danno, addirittura con vantaggio (per esempio, in una terapia dolorosa che salva la vita) e danno senza dolore. Se essere privati della vita degna è un danno, e se anche recare danno è eticamente un male, allora anche nello scenario «vita-degna morte-indolore» sussisterebbe il dovere di vegetarianismo. Anzi: in quello scenario il vegetarianismo sarebbe meno doveroso dal punto di vista del dolore, ma forse più doveroso dal punto di vista del danno. Infatti, essere privati di una vita futura degna è danno più grave dell’essere privati di una vita futura non degna. E questo rende problematico lo scenario non solo eticamente, ma anche psicologicamente. Infatti, togliere la vita a un gruppo di bovini che esprimono pienamente se stessi, anche affettivamente, tra i larici e i rododendri di un pascolo alpino, fa molto più impressione che prelevare vitelli dall’universo concentrazionario di un allevamento intensivo: ucciderli può quasi sembrare un’eutanasia, se non fosse per l’atmosfera di brutalità e di angoscia delle catene di macellazione industriale del mattatoio. Un responsabile di lager nazista, Stangl, alla domanda: «Ma perché li trattavate così male?», ha risposto: «Per poterli uccidere». Uccidere un’ebrea elegante, profumata, attiva è più difficile che abbattere un’ebrea scheletro vivente in pigiama concentrazionario a strisce. Più o meno lo stesso succede con gli animali da affezione: se li vedi star bene, se li vedi vivere a modo loro, l’idea che vengano uccisi per mangiarli fa orrore. Se stabilisco un rapporto, non riesco a uccidere. Migliaia di milioni di uomini vivono la schizofrenia di considerare come entità del tutto separate gli animali e la carne: gli animali in sé (quelli dei documentari) sono adorabili, gli animali da affezione sono persone di famiglia, gli animali da macello non sono animali e la carne è una sostanza che si forma al supermercato. Accettare solo un’alimentazione carnivora tutta a base di animali felici sarebbe certamente preferibile, dal punto di vista degli interessi animali, all’attuale barbarie, ma potrebbe sembrare, in un certo senso, ancora più mostruoso. L’operazione di far vivere bene per uccidere con meno rimorsi è eticamente e psicologicamente problematica.

 

 

5. Il vegetarianismo umanista: tutela del carnefice

Tutto questo è ben noto agli animalisti. Vorrei allora mettere in maggior rilievo gli aspetti per cui il vegetarianismo è motivabile, oltre che come tutela delle vittime, anche come tutela del carnefice: gli aspetti umanistici – in senso propriamente etico, non economico o ecologico o igienico-sanitario – del vegetarianismo. Non è propizio all’umanità organizzare industrialmente la mattazione e la macellazione. È nell’interesse dell’umanità di ogni singolo uomo non essere uno il cui «sviluppo della persona» (Cost. it., art. 3, comma 2) consista nella professione di immobilizzare, appendere, sgozzare, decapitare, spellare, sviscerare, segare in due metà longitudinali, fare a pezzi corpi di animali, sia pure vissuti degnamente e morti senza dolore. E infatti nella tradizione filosofica c’è una linea di pensiero che critica il carnivorismo anche (se il filosofo è animalista) o soltanto (se il filosofo non è animalista) per i suoi effetti negativi sull’animo umano. Un esempio del primo tipo è Plutarco, uno del secondo è san Tommaso, capofila di una serie di teologi morali cattolici che condannano la crudeltà verso gli animali perché può rendere più crudeli, più brutali verso gli esseri umani.

Qui un breve excursus. Per i filosofi aristotelizzanti come san Tommaso e seguaci, la crudeltà verso gli animali è vera crudeltà, perché gli animali da macello non sono macchine cartesiane, bensì esseri dotati sia dei sensi esterni che dei sensi interni e dei piaceri e dolori a essi correlati. Ci si chiede allora quale possa essere la coerenza di Siwek, principe degli ontopsicologi tomisti, che nella sua Psychologia metaphysica (1965, pp. 178-179, corsivi dell’autore) prima dimostra con dovizia di argomenti che gli animali sono dotati della sensazione esterna (la quale trascende «omnes vires physico-chimicas» e può dunque procedere solo da un principio essenzialmente diverso dalla materia, l’anima sensitiva), dei quattro sensi interni (il «sensus communis» organizzatore dell’oggetto, la fantasia, l’istinto come «iudicium naturale» finalistico e la «memoria propriedicta») e dell’appetizione sensitiva con il piacere e il dolore connessi, poi, per confutare l’obiezione che ripugna alla bontà divina far soffrire gli animali, tira fuori in poche righe una legittimazione dell’uso degli animali che prescinde totalmente dalla loro soggettività:

Sicut tota natura animalium indicat illa esse tantum instrumenta eius, qui scit eis uti (i.e. hominis), ita etiam patiuntur mala tamquam instrumenta hominis; ac pereunt tamquam res, quae ad nullum usum sunt amplius utiles.

Esempio insigne di falsa coscienza, da avvicinare alle giustificazioni teologico-filosofiche della schiavitù, che lette oggi suonano così incredibili da sembrare falsi storici. Chiuso l’excursus.

Dicevo che anche i filosofi animalisti, come Plutarco, si avvalgono, sia pure in subordine, dell’argomento umanista: infliggere sofferenza, danneggiare, uccidere, fa male non solo alla vittima, fa male anche al carnefice. Dentro il nostro esperimento di pensiero utopico gli animali non soffrono; ma l’uccisione (sia pure di bestie anestetizzate) e la successiva macellazione sono atti non gentili, non belli, nel senso platonico in cui bellezza e bruttura sono categorie unitariamente estetiche ed etiche. Il vegetarianismo tutelerebbe l’uomo carnefice (carne-fice) da questa residua brutalità-bruttura. Mangiare la carne ignorandone la sostanza e la provenienza è bello, perché cucinata bene è squisita e socializzante, ma produrla non lo è; non mi sembra equo dividere l’umanità in buongustai spensierati e boia di professione. Forse il principio costituzionale di uguaglianza esigerebbe che una legge imponesse a tutti i carnivori umani di uccidere personalmente almeno un proprio cane o gatto e un certo numero di esemplari di ogni specie animale che mangiano; se proprio non se la sentono, come minimo di assistere alle loro uccisioni in un mattatoio. Spero di avere chiarito abbastanza questo punto della tutela dell’uomo dalla carneficina: il vegetarianismo è anche un’esigenza etica umanista; esattamente come il pacifismo, proscrivendo la guerra, serve anche a tutelare i militari dall’organizzare lo sterminio e dall’uccidere; o l’abolizione della pena di morte serve anche a tutelare i boia dal giustiziare. Uccidere è brutto. Un dilemma terribile, non retorico: preferireste avere un figlio assassinato o un figlio assassino? La terribilità del dilemma prova che anche chi uccide merita tutela. Io chiedo una legge vegetariana misericordiosa per i macellai.

 

6. Etica sapienziale: l’orizzonte nonviolenza

Il discorso etico sulla tutela dell’uomo dalla carneficina attiva può essere inserito con profitto in un contesto più ampio. Io distinguo un’etica “precettistica” e un’etica “sapienziale”. La prima vede la bontà morale dei comportamenti come un valore in sé, ultimo, senza altri fini; la seconda non nega che le azioni sono buone o cattive per la loro stessa natura, intrinsecamente, ma non fa del valore morale il valore ultimo, non fa della conformità alle norme morali il senso o il fine supremo della vita. Il fine è visto in un’esperienza di illuminazione, liberazione, realizzazione sapienziale, più vicina alla mistica che all’etica. Per l’etica sapienziale, invece che “comandamenti” divini o principi fondati sulla ragione, le norme morali sono piuttosto “consigli” fondati sull’esperienza, e i comportamenti negativi vengono visti non tanto come “peccati” quanto come “ostacoli” al raggiungimento del fine supremo.

Faccio un esempio: nell’etica precettistica rubare è peccato o male, nell’etica sapienziale è sconsigliato come atto che nasce dall’avidità, dall’attaccamento, dal prendersi per il centro del mondo, insomma da altrettanti inciampi sul cammino verso la liberazione/illuminazione. Quindi nell’etica sapienziale può essere negativo non solo il rubare, ma anche il conservare e amare la propria legittima ricchezza. L’etica occidentale, sia religiosa che filosofica, è prevalentemente precettistica; l’etica orientale più interessante (quella, per esempio, dello yoga, del buddhismo, del taoismo) è prevalentemente sapienziale. La bioetica animalista comune è di tipo precettistico.

Ma esiste anche un’etica animalista che chiamerei appunto sapienziale, ed è quella che inserisce il vegetarianismo nel contesto più ampio della nonviolenza (ahisā) verso tutti gli esseri senzienti; nonviolenza motivata anzitutto con l’interesse spirituale, autorealizzativo, del nonviolento.

È vistoso il contrasto tra la nonviolenza e le religioni. Tutte le religioni istituzionali (il vedismo, l’ebraismo, il cristianesimo di tutte le confessioni, l’islamismo) hanno come minimo legittimato, più spesso sacralizzato o direttamente predicato e promosso, la violenza mortale sugli uomini e sugli animali: in particolare il cattolicesimo romano (ognuno guardi «la trave che è nel suo occhio») ha al proprio attivo una “storia criminale” (Kriminalgeschichte) di guerra (santa e non santa), pena di morte, tortura giudiziaria, repressione del pensiero, genocidio, schiavizzazione, carneficina di animali – il tutto sul piano non solo fattuale, ma anche proprio dottrinale, teologico – che ne fa uno dei soggetti culturali più violenti della storia.

Nell’alveo cruento delle religioni e delle civiltà, la nonviolenza è come un filo di acqua sterile che non si confonde al fiume di sangue; forse è più un appello che un precetto; ma un appello in sintonia con una razionalità profonda, capace di far realizzare la demenzialità saputa, attrezzata, vincente, delle ragioni di clero, di Stato, di mercato, assolutamente maggioritarie nella vicenda geo-biologicamente brevissima dell’umanità evoluta. È strano che i principii della nonviolenza risultino oggi corroborati da discipline così poco ascetiche come l’economia, la geopolitica, il diritto ambientale, la lotta contro il crimine o la dietetica; ma è segno, appunto, della sintonia tra ascesi e razionalità profonda (voglio dire, anche: non-cinica, non-storicista, non-machiavellica, non-hegeliana).

Non è possibile svolgere qui adeguatamente la tematica della nonviolenza, che non si riduce alla semplice omissione degli atti violenti (anche “giusti” o “sacri” o “legali”: la guerra, la pena di morte, la pena non educativa in genere, il sacrificio religioso di uomini o animali, l’alimentazione carnivora), ma costituisce una dimensione spirituale così profonda, così ramificata nei suoi presupposti teorici, nelle sue motivazioni, nelle sue applicazioni, da potersi considerare ancora, e non solo a livello di senso comune, in gran parte inesplorata.

Forse è una complessiva visione del mondo, che orienta, magari con altri nomi, il cammino dell’umanità.

Filosofi contemporanei come Buber, Levinas, Capitini hanno indagato in parole occidentali quella che per millenni è stata una pratica panindiana di “rinuncianti” (śramaa induisti, monaci buddhisti, giainisti) con occasionali, ma grandiose estrinsecazioni in politica (Aśoka, Gandhi).

Capitini la definisce «attenzioni e affetto per ogni singolo essere proprio nel suo esser lui e non un altro, per la sua esistenza, libertà e sviluppo». «È, dunque, un dire un tu ad un essere concreto e individuato; è avere [...] gioia che esso esista, che sia nato, e se non fosse nato, gli daremmo noi la nascita: assumiamo su di noi l’atto del suo trovarsi nel mondo, siamo come madri». «La nonviolenza non è la sostituzione di certi mezzi ad altri, fermo restando tutto il resto, [...] la nonviolenza [...] introduce una dimensione nuova, anticipa una realtà diversa». È una «sospensione di attivismo che è attivissima moltiplicazione d’attenzione [...], potenziamento della vita interiore proprio mediante questo collegamento in atto di tutto il reale nelle sue innumerevoli individuazioni con l’intimo nostro»: dalle semplici «cose» agli «esseri subumani» anche «di minima vita, microrganismi e microbi», alle «individualità con cui è possibile stabilire un rapporto complesso», piante, fiori, e naturalmente animali. «Il vegetarianesimo, per esempio [...], questa sospensione introdotta nella leggerezza sterminatrice e nella freddezza utilitaria, si riflette in accrescimento di valore interiore»; ma è solo un luogo, sia pure cruciale, della dimensione, dell’orizzonte, nonviolenza. La nonviolenza è, per Capitini, lasciate alle spalle le religioni istituzionali dogmatiche entrare nella «religione aperta», «entrare per sempre nella compresenza» dalla quale nulla e nessuno può essere arbitrariamente escluso. La nonviolenza è un’iniziativa assoluta e senza ritorno, ma quotidianamente da reinventare: «È come la musica, la poesia, e si può sempre fare nuova musica, nuova poesia»; «come nessuno può desiderare di ascoltare e comporre la musica, tutta la musica [...]; così nessuno abbraccia l’astratta “nonviolenza”, ma compie atti particolari di nonviolenza, in situazioni concrete»; al tempo stesso «noi viviamo per ogni essere, in occasione del suo incontro, l’unità»: «La nonviolenza fa vivere l’Uno-Tutti» (Capitini, 2004, pp. 73-74, 60, 57-58, 42-43).

Io vorrei dire con parole mie che la nonviolenza è un generalizzato in-punta-di-piedi, una sempre rinnovata sosta ammirante che ti trattiene dal passo deciso, dallo sfondamento, dal calpestamento.

È sempre imperfetta, perché è l’iniziativa di un vivente e la vita è per definizione l’autoasserzione di un sistema a spese dei sistemi circostanti; tuttavia la sua coscienza di imperfezione la consuma e affina.

È individuale e universale: parte da singole individualità amate intuitivamente e irresistibilmente, diciamo pure ingiustamente, per ampliarsi, nell’intenzione e secondo giustizia ontologica, a ogni essere pensato e a ogni incontro: cercando di riportare su “tutti” proprio l’ingiustizia di quell’amore iniziale.

È astorica? Temo di sì. C’è troppa complicità storia-forza, storia-potere, storia-violenza. Ahisā (se posso per un attimo personificarla) ti fa sceglierti debolezza; ti fa entrare nella storia uscendone, prendere parte dando le spalle. Eppure, a ben guardare fa lei ultimamente la vera storia, quella per cui si può parlare di progresso.

È triste? Temo di sì. Perché toglie alla vita il gusto del trionfo; perché è non-godereccia, non-grasso-che-cola; perché in nessun modo ti nasconde la precarietà dell’essere degli esseri. È triste perché è un dare commiato a una quantità di “soddisfazioni”. Sì, rispetto a molte festosità della compagnia comune la nonviolenza è un commiato.

Eppure, a suo modo triste è gioiosa: perché introduce alle gioie lievi dell’agio etico.

È ascetica?

È nemica del principio del piacere? Non so. Temo di sì. Spero di no. Gli inauguratori antichissimi erano rinuncianti, facevano voto inscindibile di nonviolenza e non voluttà. Grandiosi epigoni e rinnovatori, come Gandhi, sono stati austeri; Gandhi ha fatto e – si dice – osservato il voto di castità coniugale. D’altra parte, l’emblema stesso della nonviolenza positiva è il bodhisattva del buddhismo mahāyāna, l’essere di illuminazione la cui mente è desiderio di «rendere felici tutti gli esseri senza eccezione», «desiderio che ognuno di loro realizzi illimitate qualità positive»; o, almeno, desiderio di diventare questo desiderio (Śāntideva, Bodhicaryāvatāra). I bodhisattva non puntano – “egoisticamente” – alla sola illuminazione personale. Essi guardano compassionevolmente alle creature e questa tranquilla città del nirvāa la considerano né più né meno che una casa di ferro rovente e fiammeggiante e, come tale, se ne discostano il più possibile. La causa del nirvāa senza base non è dunque altro che la grande compassione. La «grande compassione», mahākaruā, è un altro nome per la nonviolenza positiva, per lo «stato di Buddha caratterizzato dalla compassione senza appoggio» che «si adopera per il bene del mondo». Ora, nel centro stesso del buddhismo mahāyāna, quale ci è pervenuto, troviamo un filone che associa la grande compassione alla «grande concupiscenza» (mahārāga) vissuta nell’unione sessuale, al punto che «non esiste peccato maggiore della mancanza di concupiscenza, non esiste merito maggiore del piacere», e «la compassione è caratterizzata da un aumento di concupiscenza» (Nāropā, pp. 34, 357, 344).

Mi è precluso cercare di chiarire qui, anzitutto a me stesso, insegnamenti che s’indovinano psicologicamente penetranti quanto suscettibili di interpretazioni molteplici; m’interessa, trovo prezioso, che l’amore universale sia stato, almeno in uno dei filoni della spiritualità nonviolenta, congiunto vitalmente all’esaltazione erotica, disgiunto dall’ascetismo sessuale e dal dolorismo. L’essenziale da tenere presente (da tenere, direi, continuamente presente) è che il vegetarianismo profondo non può stare da solo, s’iscrive nell’orizzonte globale della visione nonviolenta del mondo, quindi esige un terribile disancoramento di tutta la vita, di tutti gli habitus, dall’attitudine della “prepotenza”, biologicamente e soprattutto culturalmente così connaturata all’uomo da sembrare quasi shakespeariana libbra di carne «vicinissima al cuore». Forse non siamo più sulle rive della terraferma dell’etica precettistica, siamo sul mare alto dell’etica vocazionale o sapienziale.

 

7. La vivisezione

Ho parlato finora di carnivorismo e non di vivisezione perché il primo è molto più diffuso nella popolazione umana e costituisce un rapporto molto più immediato, più visibile, con i corpi animali, e anche perché immagino (mi mancano dati precisi) che il numero di corpi animali fatti soffrire dal carnivorismo sia molte volte quello dei fatti soffrire dalla vivisezione. Smil informa che la specie umana consuma 200 milioni di tonnellate di carne e 130 milioni di tonnellate di pesce – cioè 330 milioni di tonnellate di corpi di animali con occhi – all’anno. Non so calcolare se non congetturalmente il peso medio di questi animali, che vanno dai bovini sulla mezza tonnellata ai polli e ai piccoli pesci; supponendo, per comodità, un peso medio di 3,3 chilogrammi, sarebbero 100 miliardi di animali sacrificati all’anno. Mi mancano le cifre della vivisezione; posto che siano anche molto minori, si può comunque temere che le torture inflitte fino a poco tempo fa dai vivisettori operanti senza anestesia superassero in sofisticata efferatezza la grossolana barbarie degli allevatori e macellatori, così che moltiplicando numero di animali per intensità di dolore il prodotto non fosse poi tanto diverso. In ogni modo il discorso sulla vivisezione o sperimentazioni in animali vivi è troppo complesso perché io possa svolgerlo qui; rimando, su un aspetto molto particolare, ma di grande portata teorico-giuridica, al mio contributo L’obiezione di coscienza legale alla sperimentazione animale. Do per scontato un ampio consenso, anche tra i non vegetariani e non animalisti, sul punto che qualunque cosa si faccia degli animali è meglio farli soffrire il meno possibile; e termino quindi con un perfezionabilissimo, integrabilissimo decalogo derivabile da qualcosa come un imperativo kantiano: «Agisci in modo da considerare l’animale (anche) come fine e non (solo) come mezzo».

 

8. Decalogo

Nel decalogo non distinguo tra atti che considero doverosi e atti che considero preferibili, consigliabili. Ometto le azioni legislative e parlamentari e i comportamenti propriamente militanti, pur necessari, perché mi rivolgo al gruppo, molto più vasto, dei solo desiderosi di ridurre almeno un po’ la sofferenza e il danno inflitti agli animali.

a) Resisti alla persuasione mediatica in generale, alla pubblicità commerciale in generale. Esse propagandano stili di vita e di consumo oggettivamente nemici del benessere animale, per di più mostrando sempre e soltanto i risultati desiderabili e mai i metodi con cui vengono ottenuti; mostrando opulenti, gioiosi banchetti familiari a base di carni animali e non i relativi mattatoi, farmaci miracolosi e non i relativi test su cavie da laboratorio.

b) Resisti, specificamente, alla pubblicità delle ditte carnefici e delle ditte farmaceutiche e cosmetiche.

c) Resisti alle pretese di autorevolezza etica delle religioni e segnatamente della chiesa cattolica, legittimatrice storica di tutte le forme di violenza sugli uomini e sugli animali. Pensa con la tua testa e in base ad argomenti.

d) Leggi testi (di scienza, di poesia) che evidenziano realisticamente la bellezza e il rango ontologico degli animali non umani, la continuità tra corpo-mente umano e corpo-mente degli altri animali, l’onnipresenza della componente animale nel comportamento e nella psiche umana, l’onnipresenza dei simboli animali nella cultura umana.

e) Leggi testi sulla nonviolenza come opzione spirituale fondamentale e come tecnica politica.

f) Informati sull’alta cucina vegetariana e sugli stili ascetici di alimentazione.

g) Cerca di passare al vegetarianismo, o almeno a una drastica riduzione del consumo di carne.

h) Esercita il consumo critico selezionando i prodotti alimentari animali diversi dalla carne (latte, formaggi, uova) ottenuti con metodi il meno possibile lesivi del benessere degli animali sfruttati. Esigi, per esempio, uova di galline nutrite con mangime sano e allevate a terra con sufficiente spazio per muoversi.

i) Esercita il consumo critico, se non sei vegetariano, selezionando le carni ottenute con metodi (allevamento, mattazione) il meno possibile lesivi del benessere degli animali sacrificati.

l) Boicotta i prodotti animali di ogni genere ottenuti con metodi brutali o crudeli. Questo punto è molto importante. Nella società dei consumi il boicottaggio è l’arma assoluta, forse più incisiva del voto politico. Le multinazionali sono sensibili al minimo calo dei profitti, molte campagne di boicottaggio o di consumo etico (per esempio, nei confronti di McDonald’s, la più formidabile azienda di macellazione e preparazione carni dell’umanità) hanno avuto un qualche, ancora insufficiente, ma pur sempre significativo, successo. Informati sui prodotti cruelty-free.

m) Riduci l’uso di farmaci, cosmetici e comunque oggetti o sostanze testati su animali. Anche questo punto è molto importante. Non solo i farmaci, ma una miriade di cose vengono messe in commercio, per legge, solo testate su animali. Ora, molte di queste cose sono inutili. Non solo inutili nel senso ovvio di non rispondenti allo scopo (farmaci che non curano), ma inutili anche nel senso, meno ovvio, che rispondono a scopi resi necessari dall’insipienza umana. All’origine di molto dolore animale da test c’è un vivere sbagliato dell’uomo. Sbagliato strutturale: ambiente non splendido e sano, anzi brutto, mortificante, malsano; forma di lavoro non pacificante, gratificante, socializzante, anzi stressante, isolante; ritmo di vita non musicale, anzi a scatti, a stasi forzate, disarmonico; rapporti umani, ecc. Sbagliato morale: preferisco un regime nocivo con farmaci a un regime giovevole senza farmaci, quando sto male non mi chiedo cosa c’è nella mia vita che non va ma che farmaco posso prendere; blandisco, in me e nei miei figli, appetizione di consumi, simboli di status, gadgets futiloidi d’ogni genere, quelli che gli antichi chiamavano beni esterni, invece di coltivare il desiderio per i beni del corpo, della mente, della relazione, che sono i beni corrispondenti alla struttura ontologica dell’uomo. Un’economia, una politica, una cultura, un diritto più sapienziali, diciamo pure semplicemente più filosofici; scelte individuali più ispirate al buon gusto etico-estetico, a un progetto nonviolento di poeticizzazione dell’esistenza, ai postulati ecologici; insomma una diversa impostazione strutturale e morale del vivere dell’uomo avrebbe conseguenze benefiche indirette anche per gli animali.

n) Affronta, con un po’ di tempo a disposizione, il seguente kōan: «È più etico mangiare la carne di un uomo vissuto degnamente e morto di morte naturale o accidentale, o la carne di un animale allevato e ucciso crudelmente per mangiarlo»? Se rispondi subito e con ira: «Ma certo mangiare l’animale! In nome della dignità dell’uomo!», rifletti se è più rispettoso della dignità dell’uomo farlo mangiare dagli uomini o dai vermi.

 

9. Ancora il principio meraviglia

Il mio decalogo ha raggiunto i dodici punti; è tempo di terminare. Termino tornando all’inizio: alla meraviglia realizzante da esercitare sullo splendore degli esseri viventi e senzienti. om mani padme hum: «M’inchino a te, gioiello della mente senziente che risplendi nel fiore di loto del corpo cosmico». Il fondamento della pietà e della giustizia è la meraviglia.