Funzione non realizzata
Scaricato dall'indirizzo: https://www.sismasapiens.it/articolo/130in data: 18/05/2025
UNITÀ TEMATICA N. 2
ANIMALI

Quattro prospettive etiche: animalismo ambientalista, animalismo animalista, animalismo umanista, animalismo spirituale. Traduzioni giuridiche

Autore

Luigi Lombardi Vallauri

AUTOBIOGRAFIA BIOETICA

Il rapporto uomo-animali

 

Inviato il 14/05/2019

Etica del rapporto uomo-animali.

Dopo una breve storia della mia conversione all'animalismo negli anni 80, condenso la mia posizione attuale in 12 punti, di cui evidenzio qui i principali.

a) Collisione con la tradizione religiosa.

b) Le ragioni etiche del rispetto degli animali: quattro animalismi diversi ma convergenti ("ambientalista", fondato sul valore; "animalista", fondato sulla soggettività senziente; "umanista", fondato sull'onore dell'uomo; "spirituale", fondato sul principio universale della nonviolenza.

c) Il problema vegetarianismo/veganismo.

d) Il problema sperimentazione/vivisezione.

e) Il problema della traduzione dell'etica in diritto.

 




da Luigi Lombardi Vallauri, Scritti animali, Capitolo I, Gesualdo Edizioni, Gesualdo 2018.

 

Il secondo capitolo della mia autobiografia bioetica s’intitola Animali. Per completezza: gli animali vengono terzi in una serie di meritevoli di tutela che vede primi, già alla fine degli anni Sessanta, i candidati all’esclusione sociale (anziani, omosessuali, portatori di stigma, handicappati fisici/psichici/sensoriali, malati cronici, disadattati/devianti, malati mentali, delinquenti, emigrati, abitanti di periferie/di ghetti, analfabeti, portatori di subculture egemonizzate)[1] e secondi, più o meno dal 1974, i candidati all’uccisione prenatale. Evidentemente sono portato a difendere con particolare sollecitudine i deboli non compresi tra le vittime del potere economico (categoria delegata, per così dire, al socialismo) o del potere politico (categoria delegata al liberalismo, allo Stato di diritto, al costituzionalismo, al pacifismo, alla religione civile e al diritto internazionale dei diritti umani). Dunque, dagli anni Sessanta, esclusi, embrioni, animali nell’ordine. Veniamo agli animali.

 

Confesso che fino ai primi anni Ottanta io ero innocente e nocivo come un leone; come un sereno, cristiano, leone. Mangiavo con animo puro il cappone natalizio, il cotechino e lo zampone di capodanno, l’agnello pasquale, il pesce dei venerdì e della quaresima; concelebravo coscienzioso le grandi carneficine liturgiche. Trovavo normale che il Gesù dei Vangeli moltiplicasse pesci (vivi?) destinati a saziare discepoli, raccontasse un figliol prodigo festeggiato mediante immolazione di vitello grasso, frequentasse preferenzialmente pescatori e da risorto propiziasse loro catture pesantissime, miracolose. Devo farmi forza per dire cos’altro mangiavo: il prosciutto il salame la salsiccia la porchetta; la testina la tartara la fiorentina il filetto bleu con sopra una cappella di porcino ai ferri il brasato al barolo; il pollo decapitato e privato di zampe il tacchino; il pesce spada comprato di primo mattino al rientro delle barche dal mare e orate triglie seppie polpi aragoste bollite vive temoli salmoni trote rane lumache; senza escludere selvatici come pernice cinghiale camoscio. Ero una ferocia illimitatamente versatile che escludeva solo il pâté di fegato d’oca di Strasburgo. “Grigliata” era per me sinonimo di ghiotta sociale allegria. Mi sfuggiva del tutto (a me sollecito di esclusi, di embrioni, di ultimi, di vittime dell’umana ingiustizia), mi sfuggiva del tutto l’immenso continente sommerso del dolore animale, della smisurata violenza antropocentrica sugli organismi animali.

Nell’82 inizia la Kehre. Mentre, in ambito umano, passavo dal problema aborto al problema delle manipolazioni operabili sull’embrione in vitro, una studentessa, Maria Chiara Giardini, mi sorprende chiedendomi la tesi sui diritti animali. Poco dopo, nel 1985, Silvana Castignone mi manda il suo indispensabile, per l’Italia impressionantemente bahnbrechend, apripista, I diritti degli animali[2], e nel 1986 m’invita al convegno nazionale del Centro di bioetica di Genova sui diritti degli animali[3], dove presento un breve confronto teorico tra gli “zoofili abortisti” e i “cattolici vivisezionisti” (utilitaristi i primi, metafisici i secondi), ipotizzando anche un ruolo propizio alla liberazione animale giocato dall’avvento dell’intelligenza artificiale e dei nuovi schiavi informatici. Nell’anno accademico ‘88-‘89 un’altra mia studentessa, Rossella Brambilla, si laurea, per sua richiesta, sui diritti degli animali. Altri importanti impulsi mi vengono da Luisella Battaglia e Anna Mannucci. Tengo a dire (ha portata anche teorica) che sono stato svegliato all’animalismo principalmente da donne.

Trovo curioso, oggi, che il mio primo lavoro un po’ ampio sia stato un impegnatissimo Teodicea e condizione animale: da bravo para-teologo mi preoccupavo, con logica e struggimento, di come conciliare la terribile sorte assegnata alla creatura animale con l’asserita bontà/giustizia infinita dell’onnipotente creatore divino[4]: mi sembrava questo il problema urgente. Ma già nel 1990 passavo a più immanenti considerazioni: usciva, preparato comunque da anni di lavoro in équipe, Il meritevole di tutela[5] dove la mia mega-introduzione “Abitare pleromaticamente la terra” dedicava agli animali, non meno che all’embrione umano, uno spazio di tutto rispetto; assumendo posizioni che ritengo anche oggi condivisibili. Da allora ho proseguito la ricerca fino a fare del rapporto uomo-animali uno dei temi centrali nel mio percorso filosofico e nel mio vissuto[6].

 

 

Il mio animalismo in dodici punti

 

Mi limito a segnalare alcuni punti sui quali mi distinguo, con qualche originalità, nel contesto complessivamente piuttosto concorde della bioetica animale.

1. Date le mie origini cattoliche era inevitabile una rotta di collisione per così dire frontale con la tradizione biblica-evangelica-pontificia. Al Gesù dei Vangeli ho già accennato. Nell’Antico Testamento cose come la preferenza di Yhwh per i sacrifici cruenti di Abele rispetto agli incruenti del mite Caino; il mandato ai discendenti di Noè di essere il terrore di tutti gli animali della terra, del cielo e del mare; il premio ad Abramo per avere inteso sacrificare il suo unico figlio, sostituito comunque con un montone; Salomone che per dedicare solennemente il Tempio immola a Dio 20.000 buoi e 120.000 montoni; la piena legittimazione del carnivorismo e la Pasqua celebrata col sacrificio degli agnelli; e millenni dopo le già menzionate carneficine di massa che accompagnano le feste cristiane o il papa Pio IX che vieta l’insediamento a Roma di un ente per la protezione degli animali; il papa Pio XII che dall’alto della sua cattedra insegna alle maestranze dei mattatoi «non lasciarsi impressionare dai gemiti delle bestie, più che dai colpi di maglio sui metalli roventi»; il fisiologo francescano Padre Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che insegna ai discepoli la “ginnastica del silenzio”, ossia il taglio delle corde vocali delle vittime, perché la gente di fuori “non capisce”… tutto questo s’inseriva in un orizzonte di violenza religiosa sugli uomini, storica ed escatologica, che la causa animale mi rivelava ancora più crudamente contribuendo a farmi “cadere le scaglie dagli occhi” sulla cosiddetta Parola di Dio[7].

2. Semplificando ma non troppo, la totale reificazione antropocentrica degli animali risulta situarsi all’incrocio di tre formanti culturali: lo spiritualismo biblico-cristiano (l’uomo immagine di Dio); il materialismo cartesiano (l’animale macchina, semplice res extensa non cogitans); l’industrialismo-capitalismo (l’organizzazione del dominio tecnologico assoluto sulla natura secondo un’assiologia del profitto per il profitto). Una triade, se mi è permessa un’interiezione valutativa, non particolarmente commendevole.

3. Le ragioni del mio animalismo sono molteplici, diciamo eterogenee ma convergenti.

Gli animali sono meritevoli di tutela in base a due criteri: il valore e la soggettività. Il loro valore è quello di bioarchitetture meravigliose per ingegneria, grazia, mistero, sconfinata fantasia; vivificano con la propria presenza gli ecosistemi, ispirano potentemente, in tutte le culture, l’autocomprensione dell’uomo. La tutela in base al valore, che riconosce loro lo status di beni equiparabili ad altri beni ambientali o ai beni culturali come la chiesetta romanica, s’iscrive nel quadro più ampio della tutela della biodiversità: difendere contro l’invasione antropocentrica moderna la bellezza/ricchezza immemoriale del mondo.

La soggettività si accerta attraverso lo studio dei sistemi nervosi centrali e dei comportamenti. Segnatamente i vertebrati sono esseri senzienti, comunicanti, in grado di soffrire, godere, apprendere, provare affetti, emozioni, sviluppare capacità: doti che in condizioni favorevoli si manifestano pienamente ma che subiscono una mortificazione quasi totale nella dismisura della violenza cui le vittime sono sottoposte dentro gli allevamenti intensivi, gli impianti di macellazione, i laboratori di sperimentazione/vivisezione.

Allanimalismo ambientalista (del valore) e all’animalismo animalista (della soggettività), tra loro fortemente eterogenei, io uso affiancare un animalismo umanista, in difesa dell’onore dell’uomo. L’uomo è disonorato dal modo in cui tratta gli animali. Non è “sviluppo della persona” (art.3.2 della Costituzione italiana) maltrattare e uccidere animali, servirsi per cibo, vestito, dei loro corpi reificati. L’imperativo di pietà e giustizia si estende anche sul carnefice, non solo sulla vittima. Noblesse oblige: la nobiltà crea doveri, non privilegi. I due ultimi animalismi sono sinergici: più è vero che gli animali sono senzienti e intelligenti, più sono gravi i doveri dell’uomo nei loro confronti; più è vero che l’uomo supera gli animali non umani in razionalità e spiritualità, più sono gravi i suoi doveri nei loro confronti. Uno slogan? “Pietà per il boia”, che può risalire al Gorgia di Platone: la vittima è incolpevole, il carnefice no; moralmente parlando merita più compassione il secondo, l’amministratore delegato forse ancora più dell’operaio macellatore. E si deve anche osservare, sociologicamente: la violenza sugli animali e la violenza sugli uomini si nutrono a vicenda.

Alle tre forti ragioni fin qui evocate vorrei aggiungerne una quarta, più selettiva: una ragione spirituale o psicospirituale. Nessun uso violento degli animali non necessario, cioè finalizzato principalmente al piacere (kāma) o al guadagno (artha), è dharmico, perché il dharma include come elemento essenziale la nonviolenza (ahisā), l’amore-compassione universale (karunā). La violenza sugli esseri senzienti, sia quella inconsapevole, perpetrata per abitudine e psicologicamente rimossa, sia più ancora quella consapevole e culturalmente o religiosamente legittimata, non può non costituire un ostacolo sulla via verso la liberazione sapienziale, verso la mente dell’illuminazione-beatitudine, che non è concepibile come egoica e priva di compassione.

4. All’attuale barbarie sarebbe comunque preferibile uno scenario vita degna-morte indolore, in cui l’allevamento e la mattazione non causerebbero agli animali, per ipotesi, alcuna sofferenza (crescita in pascoli sereni, improvvisa anestesia totale lontano dall’inferno dei mattatoi: l’animale vive bene, si addormenta senza sospetti e non si sveglierà). Ma questo scenario preferibile non è aproblematico: minimizzando il dolore massimizza il danno. Essere privati di una vita orribile è quasi eutanasia, essere privati di una vita degna è il massimo danno: si può fare il parallelo con l’uccisione di un’ebrea scheletro vivente ad Auschwitz e di un’ebrea nel pieno di una vita in fiore. Inoltre, più si personalizza il rapporto con l’animale più il pensiero di ucciderlo per mangiarlo diventa mostruoso.

5. Non è equo, non è costituzionalmente corretto dividere l’umanità in buongustai spensierati e boia di professione. Propongo (so che è atto più letterario che politico) un servizio carnefice obbligatorio: i carnivori devono, per legge, lavorare un paio di settimane all’anno in un mattatoio cooperando alle uccisioni di esemplari di ogni specie animale che mangiano e al successivo farli a pezzi. Così vedrebbero anche se è “pieno sviluppo della persona” (ai sensi dell’articolo 3, comma 2, della Costituzione italiana) la vita dei cittadini carnefici.

6. Sulla terminologia “diritti” (animali) o “doveri” (umani) ho preso posizione a favore della prima, con argomenti teorico-giuridici che non sto qui a sviluppare. L’essenziale è il riconoscimento effettivo della meritevolezza di tutela degli animali in base ai criteri sopra enunciati.

7. Sul vegetarianismo ho per qualche anno mantenuto una posizione amletica. Immaginavo un Amleto animale che diceva: to be or not to be: that is the question. Cosa è preferibile: vivere per morire ammazzati o non vivere? Rispondevo: se to be è meglio che not to be, visto che se non venissero uccisi per l’utilità dell’uomo miliardi di animali non sarebbero, è meglio farli nascere per ucciderli; il mangiarli è necessario perché abbiano vita. Così legittimavo il mio animalismo carnivoro, ovviamente postulando lo scenario vita degna-morte indolore. Oggi, tenendo presente che di fatto la loro vita non è degna e la loro morte non è indolore, che se lo fosse subirebbero un massimo di danno (vedi 4.), e che privarli della vita è atto di violenza che danneggia l’uomo uccisore (vedi 5.), ritengo il vegetarianismo doveroso eticamente e preferibile, se non doveroso, ecologicamente. Un punto di vista anch’esso etico, ma forse meno cogente, è quello della giustizia interumana come pari accesso alle risorse alimentari per tutti gli uomini del pianeta: il mangiare carne dei ricchi è un mangiare meno dei poveri.

8. La dicotomia persone-cose, con ascrizione rigida degli esseri umani alle persone e degli animali alle cose, è vantaggiosamente sostituibile con la categoria della soggettività, che non è discreta ma continua; gli animali sono dotati di soggettività (da massimi a minimi), quindi è ontologicamente incongruo classificarli come cose; l’embrione precoce non è dotato di soggettività, quindi è ontologicamente esagerato classificarlo come persona. Ovviamente il diritto può rendere “persone” e “cose” le entità che crede (“persone” le società per azioni e “cose” gli schiavi); ma un eccessivo divario tra ontologia e diritto non è, almeno in biodiritto, auspicabile.

9. La vivisezione (eufemisticamente: la sperimentazione animale) è sotto crescente sospetto di non scientificità. In Italia è consentita per legge l’obiezione di coscienza. Tra i miei contributi considero di notevole portata filosofico-giuridica e giuridico-positiva il commento a questa norma, con critica dell’interpretazione “coscienzialista” e sostegno all’interpretazione “contenutista” .

10. Sempre più mi convinco che l’animalismo guadagna in forza motivante e in fondatezza se iscritto nell’orizzonte più ampio della nonviolenza, la quale non si riduce alla semplice omissione degli atti violenti (anche “giusti” o “sacri” o “legali”: la guerra, la pena di morte e le altre pene crudeli, la caccia, il banchetto carnivoro, il sacrificio cruento di uomini o animali), ma si estende anche alla non-discriminazione (dello schiavo, dello straniero, del razzialmente o religiosamente o ideologicamente diverso, della donna, dell’omosessuale, del deviante, del povero, del foucaultiano anormale, di tutte le categorie di esclusi già ricordate), fino a costituire una dimensione psicospirituale, una complessiva visione del mondo che orienta, magari con altri nomi, il cammino dell’umanità[8].

11. Il bilancio etico-assiologico sulla questione animale mi sembra poter essere meno “dolorosamente perplesso” di quello sull’etica di inizio vita. Quanto alla perplessità, il quadruplice animalismo (ambientalista, animalista, umanista, psicospirituale) è molto fortemente fondato: diversamente dal caso dell’embrione, non ci sono (salvo forse nell’ipotesi di una reale insostituibilità scientifica della sperimentazione animale) due argomentazioni contrapposte di almeno prima facie paragonabile peso. Quanto al dolore, lo vedo tutto dalla parte dell’animale e di chi s’immedesima nella sorte dell’animale; non chiamerei vero e proprio dolore la rinuncia alla predazione venatoria per un passaggio al watching, alla fotografia, al disegno, alla descrizione letteraria, all’interazione incuriosita (da entrambe le parti) con i selvatici; e nemmeno chiamerei vero e proprio dolore il sentimento del gourmet privato dei suoi arrosti e delle sue grigliate o dell’elegante non più abbellito da giacche scarpe stivali borse borsette di pelle.

12. La reale perplessità inizia con la traduzione giuridica dell’etica. Non si possono aggirare i limiti posti dall’ontologia del giuridico e dal principio democratico. Il diritto è una grossa macchina coercitiva, lavora per tipi astratti, deve ricorrere a trucchi tecnici (presunzioni, quantificazioni) che lo rendano praticabile. Il diritto democratico non può imporre se non visioni largamente condivise nel corpo sociale e negli organi rappresentativi. Spesso, se manca un’ampia condivisione sociale o culturale, anche il diritto democraticamente prodotto è formalmente valido ma poco effettivo. Abrogare le leggi che – in contrasto con il divieto anch’esso legale di uccisione senza necessità e di maltrattamento – autorizzano la caccia, la pesca, il degrado ecologico da allevamenti intensivi, la schiavizzazione, la reificazione, il massacro industriale degli animali, incontra la resistenza di abitudini mentali inveterate che rendono difficilmente pensabile nei tempi brevi un diritto valido ed effettivo all’altezza della riflessione etica.

Comunque: sul diritto animale vigente, sulla sua sempre più alta e chiara, negli ultimi decenni, testimonianza a favore del riconoscimento degli animali come esseri meritevoli di tutela; e sulle laceranti tensioni – o vere e proprie contraddizioni – tra questo riconoscimento e la persistente legittimazione di un’estrema brutalità di trattamento riservata agli animali in nome di un’asserita utilità o necessità per l’uomo; sulla situazione insomma di “falsa coscienza” del diritto vigente rinvio, per mancanza di spazio, al volume del Trattato di biodiritto citato in Bibliografia e ‑ qui, infra ­‑ al cap. VIII. Ivi anche un’indicazione delle vie che si aprono all’interprete per affrontare, in direzione doverosamente sempre più animalista, il problema posto dalle tensioni o contraddizioni.

 

 

                                       L’aguglia pescata sul molo di primo mattino,

                             strappata per bocca al diletto del mare argentato.

                     Folgore viva di strappi, nel pugno dell’uomo innocente,

                                                 stolido, solido, un solido fatto di stolido.

                  L’aguglia boccheggia con tutta la lunga bocca sdentata,

                                                                      serpenta nell’aria che arde,

                          serpenta, scatta, s’inarca, posata sul duro del suolo.

                      A lei, non ad altra, è toccata la sorte voluta dall’uomo,

dall’uomo che innesta una nuova insidia serena sul taglio dell’amo.

 

                            (L. Lombardi Vallauri, Le ragioni dei più deboli)

 

 

 

[1] Una panoramica appassionata in Corso di filosofia del diritto, Padova, 1981 (nuova edizione 2012), cap. V, par. 2.3.1 (il testo proviene da “Studi cattolici”, 1977).

[2]Aa.Vv., I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche, a cura di Silvana Castignone, Bologna, 1985.

[3] Atti in Aa.Vv., I diritti degli animali, “Atti del Convegno Nazionale, Genova 1986”, a cura di Silvana Castignone e Luisella Battaglia, Milano, 1991.

[4] Il testo, del 1988, è in Terre, cit., pp. 559 ss. Chiude, come un grido, il volume, e termina con le parole “Mipam si mise a piangere in silenzio”.

[5] Si v. supra, nota 7.

[6] Si v. le opere citate in Bibliografia.

[7] Rimando a La violenza istituzionale cristiana. Storia o essenza?, in Nera Luce, cit., pp. 137 ss.; Sul significato di eventi non accaduti (ragione e Pentateuco-Giosuè), ivi, pp. 151 ss.; I monoteismi e la guerra, in Aa.Vv., Filosofia giuridica della guerra e della pace, “Atti congresso Società italiana di filosofia del diritto 2006”, a cura di Vincenzo Ferrari, Milano, 2008, pp. 217 ss.

[8] Sulla nonviolenza si v. in particolare Animali: istruzioni per il non uso (si v. oltre, cap. VI) con riferimento a Aldo Capitini, al Bodhisattvacaryāvatāra. Guida allo stile di vita del bodhisattva di Śāntideva e alla Iniziazione Kālacakra di Nāropā.