Parto dalla frase del video proiettato “acquisto la terra a chilometro e la rivendo a metri”. Oggi quasi tutto nella città è privato: l’edificato può appartenere a un singolo, a fondi di investimento, a immobiliari, a banche e assicurazioni. Ma soprattutto quasi tutto il suolo è di proprietà privata. Nella città, nelle sue forme e nelle sue progressive progettazioni e sistemazioni, prendono corpo le relazioni di potere, i movimenti della popolazione, la divisione sociale dello spazio e la sua gestione da parte del sistema politico e amministrativo, la possibilità di accesso all’esercizio del governo cittadino. La città è, in ultima analisi, la rappresentazione formale e spaziale di un preciso progetto sociale. Una logica ferrea ne disegna i contorni, poiché l’uso dello spazio riproduce la dinamica dello scontro di classe e di genere. Questo fin dall’inizio.
Infatti, con l’avvento del vivere consorziale in città intorno a 5500 anni fa, nasce l’economia di accaparramento delle risorse naturali trasformando la relazione fra gli esseri umani e natura. L’economia nacque in quanto economia urbana centrata sul lavoro dei contadini, come dice Jacobs (in “L’economia della città”, Garzanti 1971).
Studiando le prime città del mondo o visitandone i resti, ci accorgiamo sia della monumentalità sacrale e regale, sia della pressoché assenza di tracce delle abitazioni contadine, fatto questo che ci fa capire come fin dall’inizio la città è un coabitare di singoli individui sulla base di una stratificazione piramidale, dove il tempo si deposita in cose, in oggetti, in manufatti che testimoniano dei rapporti di forza da cui la realtà appare perpetuamente vestita e travestita.
La città è specchio delle relazioni sociali e di potere, rimanda alle forme della politica, del mercato, dell’uso e del dominio del tempo e dello spazio. Ad esempio prima della rivoluzione industriale tutte le città avevano in comune la caratteristica di essere invariabilmente una proiezione del potere di un re, di un principe, papa o vescovo o di una compatta oligarchia di mercanti.
Dopo la Rivoluzione Francese il monopolio del suolo passò alla proprietà privata e fu un bene commerciabile. La terra divenne una fonte di ricchezza sempre più abbondante: la rendita fondiaria, un plus-valore allo stato puro. Nella città patriarcale della rivoluzione industriale la terra sarà anche stata considerata dono di dio, ma quanto più la città cresceva e si popolava, tanto più il terreno fruttava una rendita fondata sul diritto di proprietà. A questa “rendita assoluta” che deriva dal fatto che il terreno edificabile è più conveniente rispetto all'utilizzazione agricola, si è aggiunta la “rendita differenziale” (o rendita edilizia) che agisce su ogni singolo terreno o unità immobiliare per le caratteristiche distintive rispetto ad altre unità, diversamente localizzate. L’insieme dell’una e dell’altra è chiamata rendita immobiliare.
Lo speculatore assume il controllo della città
La città è il rispecchiamento della realtà esterna e dei suoi processi e il soggetto abita dove può permettersi di pagare la rendita immobiliare. Nasce così l’urbanistica della città del welfare. Infatti, qualche decennio fa l’obiettivo della riduzione del peso della rendita era condiviso da un ampio arco di forze politiche, sociali e culturali. Oggi questo obiettivo è scomparso da quasi tutti i versanti dello schieramento politico. (Salzano, p. XIV). Fino a metà degli anni Ottanta per i più, occorreva contenere la rendita immobiliare poiché la rendita urbana e le disfunzioni conseguenti premevano sul profitto dell’impresa e poteva costituire un vantaggio frenarla. Come sostiene Bernardo Secchi l’idea principale del secolo XX è che la costruzione della città possa far parte di un più vasto progetto di edificazione di una nuova società: i programmi di edilizia economica e popolare, ad esempio, in questo periodo cercano di costruire una “città pubblica” opponendosi, anche sul piano della quantità, a quella privata. [1]
Poi cominciarono a risuonare gli slogan “privato è bello”, “meno Stato più mercato” nell'area della destra e tali suoni divennero popolari anche in quella della sinistra. Con il liberismo il privato ha il sopravvento e tutto deve essere reso disponibile al capitale[2]. In questo quadro anche i sistemi politici locali devono preparare il terreno per attirare investimenti.
Così Firenze e le altre città si trovano nel post-fordismo con una cultura diffusa che intende l’Ente locale con i caratteri del neo-principe, collettore di tributi e committente pubblico per privatissimi utili. E i sindaci-podesta diventano funzionali all’idea padronale che si ha della città. Il mercato pianifica il territorio urbano e le politiche pubbliche realizzano l’obiettivo. L’insieme della storia della nostra crisi ambientale, dimostra che l’Ente Locale è stato ed è uno dei punti deboli del sistema di resistenza alla degradazione del territorio[3]. Il modello portato in palmo di mano è quello di mettere insieme pubblico e affari. È possibile formulare questo come "scambio tra città e decisore economico strategico privato”.[4]
La mente ottenebrata dell’idiota globale, pensando che il destino della città possa essere solo cemento e turismo, continua a non comprendere che la produzione di città organizza il potere sul corpo sociale tramite l’azione sui corpi e sulle menti umani da parte dello spazio costruito. Le patologie che colpiscono la città derivano da quell’accaparramento attraverso un pieno di cemento che svuota i corpi, toglie il respiro, rende l’essere vulnerabile in una privazione strutturale di potere. Anna Biffoli diceva: forse nessun’altra città ha piazze più belle della nostra, ma sono piazze perdute alla vista e al cuore, piazze vendute insieme alla città.
MERCE-CITTA’
Il termine “merce”, nei dizionari con qualche variazione, è così definito: ogni bene economico, in genere prodotto del lavoro umano, in quanto oggetto di contrattazione e di scambio. Di fronte alla definizione lessicale devo inevitabilmente fare una breve incursione nel “Capitale” di Marx.
Ogni singola merce è contemporaneamente mezzo per la soddisfazione di un bisogno e oggetto che viene scambiato sul mercato. Quindi ha un valore d’uso e un valore di scambio; un’esistenza naturale e un’esistenza sociale. Il valore d’uso ha a che fare con le caratteristiche qualitative della merce (un abito, un paio di scarpe sono qualitativamente differenti e pertanto possono soddisfare bisogni differenti). Al contrario il valore di scambio prescinde dalle differenze qualitative perché nello scambio, una merce si rapporta all’altra solo in relazione alla quantità: un abito si scambia con due paia di scarpe o con del denaro che è la forma in cui tutte le merci si paragonano. Lo scambio quindi presuppone un’astrazione dalle caratteristiche fisiche della merce: il valore. Ma da che cosa si produce?
Quale che sia il rapporto di scambio fra due merci, è riducibile a una terza cosa che le accomuna ed è data dal lavoro contenuto nella merce e misurato con il tempo. Il tempo pagato diventa salario. Dunque il capitalista compra lavoro con del denaro. Ma ciò che in realtà il lavoratore vende al capitalista per vivere, è la sua forza-lavoro, cioè la sua capacità produttiva. Quindi la forza-lavoro è una merce come le altre. Il capitalista compra la materia prima, il macchinario e il lavoratore prima di iniziare la produzione: si tratta di un investimento e di un costo di produzione. E’ nel tempo di lavoro comprato che si estorce capacità lavorativa per produrre più merci, ossia più valore di scambio in modo tale che il loro valore superi il costo del lavoratore. Quindi il plusvalore ha la sua origine nella sfera della produzione.
Nel mondo moderno tutto il valore proviene dalla forza-lavoro ma la prima cosa che si dimentica è proprio questo processo. Una volta che un oggetto è uscito dalle mani di chi l’ha prodotto, esso assume quella che Marx chiama una “spettrale oggettività” (p. 70). La merce diventa un’astrazione. Lukács “Storia e coscienza di classe” sosteneva che il processo di produzione capitalista è costituito dalla perdita della memoria del processo stesso attraverso il quale essa si sviluppa.
L’oblio è parte integrante anche del processo di produzione capitalistica degli spazi in cui viviamo. Nel flusso delle merci si deve dimenticare il corpo di chi le produce. Analogamente si devono dimenticare sia i corpi che abitano la città, sia i processi lavorativi coinvolti nella produzione dei luoghi così come li vediamo oggi.[5]
Si è avuta una continua e costante espansione della logica economica e aziendalistica all’intero spettro dell’organizzazione sociale, culturale e politica. Abbiamo avuto la vendita d’imprese pubbliche che sono passate ai privati, dall’Enel alle farmacie comunali; abbiamo avuto l’esternalizzazione di servizi e funzioni dei Comuni affidati ad una gestione privata creando un’oscura catena clientelare; abbiamo avuto la svendita del patrimonio immobiliare pubblico con le cartolarizzazioni (anche Bush ha fatto shopping edilizio a Roma); avviamo avuto la straformazione dell’IACP in società per azioni; sono passati ai privati servizi essenziali a domanda rigida come l’acqua e l’energia; abbiamo Piani strutturali che sono delle vere e proprie offerte di suolo alle immobiliari; abbiamo i saloni immobiliari come il Mipim di Cannes dove gli amministratori e ministri si trasformano in piazzisti, mostrando le opportunità d’investimento nelle città.
In sintesi, nel postfordismo la città deve fare reddito in varie forme.
1 - Nella città del welfare - travolta dalla riduzione degli impianti produttivi e dalla delocalizzazione - siti industriali e commerciali si svuotano ma sono prontamente riconsegnati alla speculazione immobiliare e il Comune diventa una sorta di ufficio del catasto che registra le trasformazioni contrattate[6].
2 - L’assetto urbano postfordista si caratterizza per l'apertura della competizione diretta tra sistemi urbani. Sulla base di posizioni ispirate dalla mondializzazione, le città grandi o piccole, tendono sia ad adottare modalità di gestione ricalcate sul modello della società per azioni sia a rapportarsi fra loro come imprese private in concorrenza, offrendo il possibile e l'impossibile per la transnazionale o l'immobiliare di turno. In questa realtà l’Ente locale, sempre più liberista sul terreno sociale, diventa fervente interventista sul piano dei mercati, anche attraverso nuovi Piani strutturali, vere e proprie "offerte" al mercato di aree edificabili.
In questo contesto si ha un ulteriore passaggio: non si vende più solo una casa, o parti della città, o un’area edificabile, ma si vende la città nel suo complesso. Tutta la ricchezza dello sviluppo storico e il valore prodotto dalla forza-lavoro che si materializzano nella città, sono usati per la valorizzazione fondiaria. Quindi è una ricchezza collettiva di cui si impossessa la proprietà privata. Questo può avvenire trasformando ad esempio il nome “Firenze” in un marchio, come se si trattasse della Cirio. La città viene sussunta come capitale fisso da parte di un’azienda, che è, secondo i manuali di ragioneria, l’insieme dei beni economici a disposizione del soggetto aziendale in un dato momento: fabbricati, impianti ecc.
Così quando pronunciamo il nome “Firenze” si ha una sorta di sineddoche cognitiva (il tutto per la parte), non ci si riferisce alla totalità ma alla pregiata ditta Giotto - Botticelli, o alla ditta Gucci, ossia a parti della sua storia sia pure incommensurabili. Con la città ridotta a marchio si attirano i clienti (turisti, acquirenti d’immobili o fondi commerciali)[7]. Ma quando il marchio Missoni apre un punto vendita a Firenze quella griffe si troverà in varie città del mondo, ma non saranno le città ad essere valorizzate da Missoni ma viceversa. Le conseguenze negative saranno sia la tensione sul mercato degli affitti sia la scomparsa conseguente di altre attività commerciali e artigianali. Al di là che il negozio griffato venda poco o tanto, l’importante è che Missoni possa vantare di avere filiali a Parigi, Firenze, Tokio, ecc, tante etichette, città-adesivo, uno spot pubblicitario per il prodotto globale del consumatore globale.
Quindi, ha ragione Francesco Indovina (19 marzo 2010 a Firenze), quando dice che la città è un progetto privato gestito pubblicamente. Ne segue che non è un bene comune, poiché è il luogo dei conflitti e degli interessi privati. È proprio questo carattere essenzialmente privato della città che va scomposto.
Se la città è solo privata, allora anche i corpi che la abitano sono figure totalmente assorbite dallo spazio merce che li contiene, come bolle che si muovono all’interno della bolla della speculazione. Le relazioni - figure e azioni - prodotte dallo stesso spazio mercificato, sono il risultato di una delle tante possibili opzioni spazio-temporali che la merce può assumere. In tale paesaggio si hanno solo fluttuazioni di corpi = fluttuazioni di merci, dove i corpi non possono essere visti nelle loro diversità e nelle continue modificazioni fisiche e mentali. Nello spazio privatizzato della città, l’esclusione sistematica è il prezzo che viene pagato da chi è senza proprietà, per cui la sua esistenza è negata: è un clandestino.
Liana Borghi e Fanny Di Cara in momenti diversi durante le iniziative di Ipazia si chiedevano: cosa conta per un corpo nella città e nella strada? Il che comporta un’altra domanda: come trasformare ciò che è essenzialmente privato in pubblico? Come estendere, strappare sempre più zone di pubblico? Come modificare lo spazio sostanzialmente plasmato dal potere e dalla speculazione, in luoghi che accolgano corpi ed esistenza, desideri e bisogni di chi considera l’economia un semplice mezzo della vita umana e non il suo fine ultimo? Come liberarsi dalle colate di cemento?
Se si legge la città nella sua storicità e intertestualità, s’incontrano il sociale e il politico; se invece si separa l’atto del costruire dalla vita dei corpi, si recide il corpo dal luogo. Per questo la riforma della convivenza dovrebbe passare attraverso la riforma del “fare città”. In tale cornice almeno due cose vanno perseguito contemporaneamente: 1) la ristrutturazione fisica della città che richiede, non tanto risorse finanziarie quanto cultura politica; 2) la creazione di reti di relazioni sociali completamente diverse da quelle del passato e del presente per ritrovare l’affettivo nella città di De Certeau.
Ecco perché a mio parere la politica dovrebbe dedicare ai corpi la stessa attenzione che gli impressionisti dedicavano alla continua variazione del soggetto immerso nelle vibrazioni della luce. Con Cézanne, Monet ed altri, la pittura sembra rendersi conto che i nostri rapporti con lo spazio non sono quelli di un puro soggetto disincarnato, senza corpo, pura intelligenza davanti ad un oggetto più o meno lontano, bensì quelli di un abitante dello spazio con il suo ambiente familiare (Merleau-Ponty, Conversazioni, p. 28).
Cezanne diceva che si deve poter dipingere l’odore degli alberi. Questo significa per me che le cose non sono davanti a noi come semplici oggetti neutri da contemplare. Ogni cosa parla al nostro corpo e alla nostra vita. Gli oggetti come dice Merleau-Ponty, prendendo spunto da Breton, sono il luogo in cui il desiderio si manifesta o si cristallizza (Merleau-Ponty, Conversazioni, p. 39).
La via impressionista alla luce tende a produrre la fisicità e i volumi dei soggetti trattati, non tanto per cogliere l’attimo, bensì la realtà più solida, quella struggente e suggestiva dei paesaggi nella luce e nell’ombra, il trionfo dei verdi, la magia dei riflessi, il respiro degli alberi, dei corpi nella loro infinita ricchezza, complessità e mutevolezza. Attraverso piccoli tasselli di colore che frammentano i contorni, sfaccettando le superfici, le vibrazioni cromatiche suggeriscono che l’intima realtà della polifonia dei corpi non può essere colta per via diretta come realtà oggettiva, statica. Elaborando il dato visivo con un’infinità di sfumature coloristiche siamo costretti ad entrare nel soggetto, nella sua complessa interiorità vibrante. Il colore è il luogo dove s’incontrano il nostro cervello e l’universo dice Cézanne, quindi per Merleau-Ponty la visione del pittore non è più una mera relazione fisico-ottica col mondo ma perfora la pelle delle cose per mostrare come le cose si fanno tali e il mondo mondo (Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito).
Conclusione
Posso dire che Firenze mi è stata donata dal caso, uscita dalla lotteria tra tre città che mia madre indicava all’amministrazione statale come possibili destinazioni per continuare il suo lavoro di dipendente dei monopoli di Stato. Qui ho passato tutta la vita transitando da una città di mare sull’altra sponda dell’Adriatico, ad una città di terra, uno dei simboli dall’apogeo della ricchezza economica e culturale della civiltà dell’Umanesimo e del Rinascimento. Ma il paesaggio urbano non è più quello scandito dal respiro dell’Umanesimo dell’Alberti trasfigurato nella facciata di S.M. Novella, frutto anche scenografico dell’opulenza economica, finanziaria e culturale di una città come Firenze, bensì segnato dal furore edificatorio, dove spesso una mano che chiede elemosina, una fontana, una panchina, un’area verde sono vissuti solo come possibile fonte di degrado e insicurezza.
Firenze è prigioniera di tre retoriche: quella della decadenza, quella del passato come prigione, quella della modernizzazione, tutte però funzionali alla logica dell’affare. La nuova città di tutte le soggettività può porsi come catalizzatore della cultura del passato, del presente e del futuro, solo se evita sia la vuota celebrazione di un passato sostanzialmente incompreso da chi si autodefinisce classe dirigente, sia la retorica del fare che si presenta fenomenologicamente negli orrendi frattali delle colate di cemento.
E’ condivisile l’accento che si pone sulla necessità di limitare il consumo di suolo, stabilendo limiti all’invadenza patologica dell’urbanizzazione a bassa densità. Come pure è condivisibile il tentativo di affrontare l’inurbamento epocale invocando termini quali inclusione, mobilità sostenibile, tolleranza, disponibilità di spazi pubblici. Ma, se si vuole andare oltre l’elenco, bisogna riconoscere che solo un processo dialettico di lungo periodo realizzerà questo, che solo una scelta politico-culturale radicale potrà dare delle soluzioni a tutto ciò.
Per tornare a vedere la policromia umana è preliminare aprire il piano urbanistico all'arcipelago complesso dei corpi che abitano lo spazio, così da intrecciarlo con il piano regolatore sociale che distribuisca qualità della vita. Il piano urbanistico (o strumenti equivalenti) dovrebbe prendere atto del conflitto tra crescita economica e qualità della vita, della crisi del liberismo, definendo strategie e strumenti per il controllo pubblico degli operatori economici; dovrebbe subordinare qualsiasi ipotesi di nuova edificazione ad un'approfondita verifica dei reali bisogni dei diversi strati sociali; dovrebbe adottare processi decisionali e soluzioni inclusive.
Per questo non basta cambiare un governo nazionale o un sindaco: è necessario abbandonare ogni delirio di onnipotenza, ogni vertigine narcisistica; è necessaria un'altra concezione della vita e della morte, un'altra concezione della ricchezza e della povertà, un'altra concezione dello spazio, sono necessari altri rapporti tra sessi, in un’impostazione che tenga insieme le tematiche sociali, di genere, e ambientali la cui separazione è stata troppo a lungo accettata.
Forse per questo vedo in chi s’indigna e si ribella in tutto il mondo quelle vibrazioni di luce che rischiarano la notte della democrazia e dell’urbanistica.
[1] Esattamente il contrario di quanto emerse nel Convegno sulla rendita fondiaria promosso dalla commissione urbanistica nel gennaio del 2007, dove Riccardo Bartoloni, allora presidente dell’ordine degli architetti e Galassino dell’Inu, affermavano che la rendita è un fatto oggettivo ineliminabile.
[2] Ricordando che pur essendo in presenza di un capitale monetario, il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale.
[3] Come è noto, in migliaia di casi le strutture locali hanno ceduto all’onda travolgente delle occasioni. È però assurdo spiegare questo soltanto con colpevoli fattori socio-ambientali. L’importanza del fenomeno induce a pensare, piuttosto, ad una debolezza oggettiva, sistematica, dell’Ente Locale. D’altronde si sono visti molte marce capeggiate da sindaci e consigli comunali, ma non si sono viste marce analoghe contro la speculazione edilizia.
[4] In questo scambio, abbiamo avuto due modelli di trasformazione urbana: uno caratterizzato da un ritorno al "Centro" degli investimenti immobiliari e dei servizi pregiati; l'altro il tentativo di ampliare il mercato urbano portando investimenti e attività in zone periferiche. Questo modello in estrema sintesi cercava di distribuire non solo nelle aree centrali, la crescita dei valori fondiari. Si giustificava tale modello argomentando che aumentare l'offerta avrebbe evitato tensioni eccessive dei valori al centro che si ripercuoterebbero negativamente anche sulle aree periferiche e ridurre, contemporaneamente, la congestione del traffico che deriva da forme troppo esclusive di zonizzazione. Sembrava la quadratura del cerchio.: avere il vantaggio di un mercato immobiliare meno teso e più competitivo e un ambiente urbano meno congestionato dal traffico con una distribuzione delle attività su un’area più vasta.
[5] Ciò che viene dimenticato è qualcosa di profondo: la dimensione umana della città. Il territorio non è solo una struttura economica, ma è anche società e tessuto di relazioni. Occorre sostituire al territorio-fabbrica il territorio-società, ed alla cultura fattore di potenza, la cultura fattore di convivenza non competitiva: un’inversione necessaria, altrimenti alcuni territori potranno anche essere o diventare “regioni economiche” ma saranno gigantesche borgate colonizzate deprivate di senso, di storie.
[6] Ogni città ha il suo “Lingotto” in cerca di seconda utilizzazione. E ogni città italiana è tesa ad indagare o inventare la sua vocazione terziaria, a ricercare modi e strumenti e occasioni mediante le quali garantire la presenza di quote crescenti di attività di servizio, possibilmente di “libello superiore”, mentre si ha la finanziarizzazione dell’economia.
[7] L’industria del turismo porta centinaia di milioni, spesso esentasse, ma quanti di questi soldi sono portati altrove? E quanti reinvestiti nella città e per la sua cura?