da Conferenza 22/11/2002, Milano Bicocca, Scienze della formazione.
Il mio intervento intende gettare uno sguardo sul mutamento della concezione del corpo che si è realizzato nel novecento. Perché il corpo, così come lo si intende normalmente all’interno di una cultura, una civiltà o una determinata società, è in realtà la raffigurazione di un concetto, ossia del modo di concepire ciò che il corpo è o deve essere, secondo i principi che quella stessa cultura o quella stessa civiltà si dà in una certa epoca della sua storia.
Parlerò soltanto di danza: userò la danza come campo di osservazione, per evidenziare come essa possa essere un fenomeno efficace per comprendere i mutamenti dell`idea del corpo nella società. La danza è sempre stata, nel corso del tempo e alle diverse latitudini, tanto lo specchio che ha riassunto in sé gli usi del corpo, le abitudini motorie, i tratti del comportamento di una società, quanto, nella sua forma artistica e creativa, il luogo particolare – quasi una sorta di laboratorio sperimentale – in cui quella stessa società, o almeno le sue punte avanzate, la sua parte creativa, ha tentato di costruirsi un’immagine culturalmente coerente del corpo che la rappresentava. Da un lato, infatti, abbiamo la danza popolare, danza in qualche modo “spontanea”, che racchiude in sé la storia del corpo quotidiano, della motilità, degli usi e dei gusti in fatto di funzionalità e di bellezza del corpo di una certa cultura; dall’altro la danza colta o d’arte, che si propone di distillare da questa realtà sociale un corpo elevato a una potenza molto più alta, un corpo estetico, un corpo artistico, un corpo creativo che rappresenti il suo ideale di corpo.
Tutti voi avrete certamente visto degli spettacoli di balletto e sapete che il corpo elaborato attraverso la tecnica del balletto è stato per secoli “il” corpo della danza. Esisteva una sola danza di carattere artistico ed era la danza che noi oggi chiamiamo classica o accademica, perché la sua codificazione è avvenuta nelle accademie seicentesche francesi e si è poi affermata come sola realtà spettacolare e artistica riconosciuta per diversi secoli. Quel corpo nasceva da una cultura elitaria, aristocratica, quella cultura di corte del Rinascimento che era alla ricerca di un corpo distintivo per la classe dominante. Un corpo eretto, nobile, aulico, con caratteristiche distintive ben evidenziate e particolari, dal quale si era poi arrivati a distillare il corpo e le tecniche che confluiscono nel balletto. Nell’ambito virtuosistico dello spettacolo la tecnica era stata via via complicata al massimo, fino a rappresentare perfettamente l’idea di controllo artistico del corpo naturale.
La danza di per sé è sempre stata in altalena tra queste due concezioni, quella della natura e quella della cultura, quella della spontaneità e quella della tecnica, quella della libertà e quella del controllo. Se ci rifacciamo al significato antropologico della danza, che la danza recupera in pieno fin dall’inizio del ventesimo secolo, pensiamo a una danza libera, spontanea, che ci può apparire quasi priva di controllo, una danza come attitudine innata dell’essere umano (già nelle caverne preistoriche si danzava: l’uomo danza per qualcosa che lo spinge dall’interno a muoversi, qualcosa che esiste comunque in lui). Ma a partire da questo istinto primigenio, in questo bisogno innato di modificare il movimento del proprio corpo secondo modalità ritmiche extraquotidiane, cioè al di là dell’uso quotidiano e funzionale che del nostro corpo facciamo abitualmente, si nasconde anche la necessità di organizzazione di un corpo diverso e quindi di controllo del corpo naturale. Ed è qui che il processo di civilizzazione passa anche, e forse soprattutto, attraverso i corpi degli uomini, modellandoli, organizzandoli, controllandoli, fino a portarli a quel tipo di modello che una certa società desidera e riconosce come suo corpo rappresentativo e funzionale.
All’inizio del novecento, dunque, l’idea di corpo propria del balletto, quell’idea di un corpo aulico, rigido e controllato, si è completamente rivoluzionata. Le ragioni sono molte e qui possono solo essere accennate: la classe aristocratica è andata decadendo e quella borghese ha preso ormai saldamente il potere; con l’incremento delle scienze umane -le scienze che studiano l’uomo sia dal punto di vista biologico e fisiologico sia da quello della sua interiorità- le scienze del profondo, la psicologia, la psicanalisi, la psichatria, portano a considerare il corpo non più qualcosa di separato dalla parte spirituale-intellettuale, come era stato per molti secoli, e soprattutto non più in sottordine rispetto alla parte spirituale, ma si comincia a considerarlo “organicamente”, come un tutto coeso. L’essere umano diviene un tutto unico, organico, fatto di una parte materiale, il corpo fisico, e di una parte spirituale-mentale che si chiamava ancora “anima”. “Corpo-anima” diviene un concetto familiare e fondante per i primi decenni del ventesimo secolo. Era una visione dell’uomo molto simile a quella che, con una espressione d’oggi, chiamiamo “olistica”: anche se il significato scientifico non era perfettamente identico, era comunque l’affermazione dell’inseparabilità del corpo dall’anima, e il movimento era così non solo uno strumento del corpo ma anche la manifestazione esteriore di moti interiori, di emozioni, sentimenti, pensieri, che dall’interno spingevano, attraverso impulsi al movimento, ad agire. Ed è attraverso la manipolazione, l’organizzazione di questo meccanismo interno-esterno dell’uomo che anche la danza si fa diversa, si percepisce diversa. Si avvicina alla natura, si proclama naturale, recupera ciò che definisce “originarietà del suo essere”, quindi le leggi naturali del movimento del corpo umano e soprattutto la sua potenzialità espressiva. Non è più solo rappresentazione o esibizione di un bel corpo virtuoso, ma diviene anche espressione dell’interiorità del singolo danzatore.
La danza del novecento nasce dunque come creazione assolutamente intima-individualista, perché si fonda sull’idea che ogni uomo è diverso dall’altro, con un suo corpo e una sua psiche peculiari, e che da se stesso trae la propria danza. Ma, se all’inizio del secolo alcuni iniziatrici, come Isadora Duncan per esempio, agiscono spontaneamente, quasi istintivamente, rivoluzionando l’idea del balletto senza fermarsi a riflettere fino in fondo sulla instaurazione di nuove tecniche corporee sostitutive, ben presto una sistematizzazione diventa necessaria. Quando, negli anni Venti/Trenta, si comincia a pensare a una forma di danza che rappresenti davvero quell’epoca, si utilizza, certo, quel corpo ormai liberato, privo di scarpette, di tutù e di corpetti, con i suoi piedi nudi ben legati alla terra, con un’energia potente da mostrare e soprattutto una forte espressività, ma si ha anche la consapevolezza che l’arte deve avere forma e quindi il corpo rinnovato deve trovare le proprie tecniche, le proprie vie, i propri modi di essere nella danza, salvaguardando le leggi naturali ma trovando adeguate forme dinamiche ed estetiche. Ed ecco che ricomincia così, anche se su basi diverse, un processo di controllo, di necessaria e consapevole organizzazione del movimento: si creano le tecniche, il corpo e la sua dinamica vengono misurati, li si considera nello spazio, nel tempo, si considera l’energia, ecc. Questo modo di vedere il corpo dà origine alla cosiddetta “danza moderna”, intendendo con questa definizione allargata tutta la nuova danza della prima metà del XX secolo.
Un secondo rivolgimento avviene invece subito dopo la seconda guerra mondiale, quando di nuovo la società, seguendo il processo storico in atto, cambia le proprie visioni. A questo punto, dopo la straziante ferita della guerra e con il progresso veramente esponenziale della tecnologia in genere e dei mezzi di comunicazione in particolare, l’idea del corpo assume sfumature ancora diverse. L’angoscia non risolta della radicale fine della seconda guerra mondiale – il lancio di due devastanti bombe atomiche sul Giappone – ha posto di fronte alle coscienze l’idea di una sempre possibile, immediata distruzione della specie umana e di ciascuno di noi come individuo (ora sono qui e, tra un attimo, non c’è più nulla di me). I lunghi decenni della “guerra fredda” si sono consumati nella paura di un nuovo, rovinoso conflitto atomico. Questa coscienza sotterranea alimentava ed era alimentata da una serie di apporti filosofici che proponevano come unica realtà concreta il “qui ed ora”, l’immediato, l’attimo vissuto e, di conseguenza, in termini artistici, la negazione dell’opera d’arte intesa come prodotto duraturo, lo smantellamento dei linguaggi e dei codici estetici e l’esaltazione del puro “gesto” artistico, dell’esperienza condivisa, del “processo”. La relazione/esperienza artistica va creata in presenza e nell’immediato, non si dipingono quadri, non si scolpiscono statue, non si scrivono romanzi per i posteri o l’immortalità; è tutto racchiuso nel gesto, nell’evento presente, nel dichiarare che si sta facendo arte, in un momento di massima visibilità extraquotidiana all’interno di un contesto apparentemente quotidiano.
Così, tutto un movimento degli anni Sessanta/Settanta, movimento tipicamente americano che si chiamerà post-modern dance, propone in sostanza la dissoluzione di ogni precedente linguaggio della danza ed è una sperimentazione sugli elementi di base del movimento: camminare, correre, sdraiarsi, accovacciarsi, rotolarsi, sedere, alzarsi, ecc. Disgrega i codici e le tecniche fin lì creati per arrivare, isolandoli e sperimentandoli come nuovi, a passi, azioni, gesti anche quotidiani, all’evidenza di un corpo – non importa se addestrato – mostrato nella sua dinamica senza abbellimenti teatrali, in una situazione che portava a confondere la vita con l’arte. La vita è anche arte. Il corpo, insolitamente mostrato nella sua concreta evidenza in azioni semplici o addirittura pedestri, risulta straniato dalla quotidianità ed evidenzia una sua diversa realtà.
A questo punto il corpo espressivo, il corpo drammatico della danza dell’anteguerra perde di senso. Il corpo diventa pura evidenza. Non ha piú volontà di rappresentare qualcosa, non vuole narrare, non vuole esprimere sentimenti o emozioni, è semplice corpo nella sua presenza attiva, efficace, di fronte allo spettatore. Cambiano, nella danza, anche le modalità di presentazione del corpo: non ci sono più costumi, calzamaglie o indumenti particolari, c’è la tenuta da ginnastica, la cannottiera, le scarpe da footing, l’abbigliamento casuale del tempo libero. Il corpo, dunque, ricerca un suo linguaggio basico di danza che non è più sentito come utopicamente “naturale” – come avveniva all’inizio del novecento – ma semplicemente come quotidiano. Si ricerca la quotidianità del movimento e i gesti quotidiani entrano nella danza, dove poi pian piano si mescoleranno a nuovi elementi tecnici via via recuperati. Ma il momento iniziale di rottura reclama la quotidianità come arte, come performance di un corpo evidente. L’energia e lo sforzo non vengono più completamente nascosti come nel balletto, o resi morbidi ed espressivi come nella danza moderna, ma posti semplicemente di fronte allo spettatore.
In questo gioca un ruolo piuttosto interessante un altro tipo di opposizione simile a quella tra natura e cultura: la dialettica tra corpo e macchina. Fin dall’inizio del secolo, coloro che propugnano un corpo naturale si pongono in una dimensione di ripulsa/desiderio rispetto alla macchina. È il momento dell’avvento della meccanizzazione: la macchina è veloce, la macchina è precisa, la macchina ha un rendimento sicuro, è assolutamente efficace, mentre il corpo umano è di carne e di sangue, nella sua meravigliosa natura organica è comunque soggetto a disfunzioni e alle passioni, e non garantisce la stessa precisione. Così nascono il pensiero e le tecniche di tipo bio-meccanico. Un grande uomo di teatro, Mejerchol’d, svilupperà la bio-meccanica in un vero e proprio metodo di addestramento dell’attore, ma di una meccanica biologica del corpo umano, di un corpo che conosce a fondo e ottimizza la funzione dei propri meccanismi, così da acquisire l’efficacia della macchina, si continua sotto varie forme teoriche e sperimentali a trattare per tutto il secolo. Tanto che oggi si è giunti in alcuni casi ad una vera e propria aspirazione verso un corpo non più biologico, verso un corpo inorganico, cibernetico, artificiale (si vedano, ad esempio, i recenti esperimenti di innesti di arti artificiali sul corpo di nuovi performer di difficile collocazione). E, accanto all’interesse per il corpo robotico, ora primeggia quello per il corpo virtuale, il corpo disincarnato creato con i nuovi mezzi tecnologici, che può simulare ogni movimento umano o addirittura fare cose che il corpo umano non può fare. Questa nostalgia di un corpo tecnologico è un elemento ben presente nella danza di oggi e trova espressione in numerosi creatori.
Nonostante tutto ciò, la danza continua a essere spettacolo in presenza, con una forte potenzialità comunicativa dovuta proprio – è questo il suo potere, la sua forza metacinetica – al fatto che il corpo danzante trasmette a chi assiste non soltanto il movimento ma anche gli impulsi, le motivazioni che quel movimento hanno generato. Il nostro corpo di spettatori riconosce muscolarmente il movimento e ci riconduce allo stesso genere di emozioni e di sentimenti.
Un’ultima osservazione: se il corpo del balletto, il corpo aulico e rigido, come si è detto, aveva come articolazione determinante il solo snodo delle anche, il corpo della danza moderna compie un primo balzo liberatorio rispetto a questa organizzazione ponendo il fulcro del movimento all’interno del torso. Davanti, dietro, più in alto o più in basso, a seconda degli sperimentatori, ma la nuova consapevolezza è che il centro motore dell’energia sia situato nel centro del corpo. Questo permette di mobilizzare completamente tanto la parte inferiore quanto la parte superiore del corpo e scioglie le precedenti rigidezze, poiché il corpo articolato al suo centro può compiere qualunque tipo di movimento. L’ultimo passaggio, quello attuato nella seconda metà del secolo, va addirittura verso un policentrismo del corpo. Non esiste più un solo centro, né una gerarchizzazione delle parti del corpo, ma il movimento può partire da qualsiasi articolazione delle membra, come in una fantastica marionetta che venga mossa da fili.
Se tutte queste diverse concezioni e usi differenti del corpo risentono dell’aspirazione a una macchina biologica perfettibile secondo modelli anche tecnologici, ci portano anche, attraverso le esperienze di tutto un secolo, ad una mentalità molto più aperta nei confronti della corporeità e del suo valore nella vita dell’uomo contemporaneo. E poiché la danza organizza insieme corpo e mente in un unico linguaggio poetico, che come tale può essere rielaborato e riorganizzato, siamo ormai consapevoli che può essere un valido strumento educativo e formativo per la persona, un bene di cui tutti possono giovarsi per una migliore conoscenza di sé e una più ricca comunicazione con gli altri.